venerdì 19 agosto 2011

San Giovanni a Olbia. Appunti su una festa postmoderna

La festa di San Giovanni a Olbia è una festa di sintesi. Se non si parte da questo presupposto non la si può comprendere, ha ben poco di diverso da raccontare rispetto a più note e più affermate festività sarde.

Olbia è una città estremamente complessa, in cui convivono una pulsione alla modernità e pratiche che, se non fosse un termine antropologicamente ‘pesante’, si potrebbero definire sopravvivenze. In Olbia convivono tracce di un’economia agricola su cui si è innestata la colonia di marinai ponzesi. Entrambe le comunità avevano le proprie feste, i propri spazi, le proprie pratiche. Il secondo dopoguerra ha portato il turismo e i soldi e con essi la voglia di scrollarsi di dosso tutto quello che appariva vecchio e legato ad un tempo che si voleva nascondere. Il destino della festa di San Giovanni è stato questo, abbandonata per diversi anni nel nome di una modernità che non tollera il passato e riscoperta alla ricerca di radici in un mondo globale che sembra non permetterne.

Infine le ultime migrazioni. Nuovi ricchi italiani e vecchi poveri dai cinque continenti hanno portato con loro nuovi colori, nuovi sapori, nuove pratiche.

È presto per dire come cambierà il volto di Olbia, città multiculturale con la propria sezione della Lega, ma è indubbio che stia cambiando. I primi a saltare i fuochi la notte di san Giovanni, rompendo quel momento di imbarazzo in cui nessuno si muoveva e dando inizio alla festa, sono stati i figli degli immigrati. L’hanno fatto dando al gesto significati diversi da quelli che la tradizione gli attribuisce… non si chiameranno ‘compare’, non si legheranno attraverso un legame stretto quasi come la parentela biologica, magari era solo un gioco o una prova di coraggio, ma l’hanno fatto, hanno dato il loro contributo allo svolgimento del rito.

Una festa di sintesi, dicevo, proprio perché tante chiavi di lettura si possono adottare: il recupero e la rifunzionalizzazione in chiave identitaria, la devozione popolare, l’imperante economia turistica, una società sempre tendente al multiculturalismo. Tutto questo trova espressione nella festa, dandole quella complessità che solo un approccio olistico può cogliere rendendola, pur simile a tante altre, a suo modo unica.

Il link che segue porta alla pagina facebook di AssDEA, dove ho caricato alcune foto sulla festa di San Giovanni. Questo breve reportage (mi perdonino i veri fotografi per l’uso del termine) propone alcuni scatti che non hanno né pretesa di essere capolavori né di raccontare in maniera esaustiva la festa. Prendetele come sono, come degli istanti presi in prestito per essere condivisi.

giovedì 11 agosto 2011

“La presunta santità” di Frazer: i curiosi sviluppi dell’antropologia postmoderna*

L’entusiasmo del non addetto ai lavori, lo sbadiglio dello studente, la critica (talvolta feroce) del professore: in tutta la storia della letteratura antropologica sono pochi i libri capaci di creare tante divergenze quanto The golden bough. Edito tra 1890 e 1915, il lavoro è un neonato già pronto per il funerale: la filosofia su cui si basa è antiquata, il metodo comparativo è inadeguato, la prosa è troppo leziosa.
1.  Frazer, ponendo alla base della sua teoria la filosofia di Hume, considera erronea la mentalità selvaggia, frutto di un’errata applicazione del principio dell’ Associazione di idee. Come fa Frazer a conoscere l’esatto sviluppo del pensiero, da dove ricava l’evoluzione magia-religione-scienza che progredisce dal selvaggio allo scienziato? Perché applica un ragionamento del tipo “se io fossi un cavallo?” si chiede Evans-Pritchard. E quanto è ingenuo indugiare nell’erroneità della mente selvaggia:  come può l’errore, trascurabile, di ontologizzare un’idea fondare un intero sistema di pensiero, un’intera concezione del mondo? Non può, risponde Wittgenstein, e “Frazer sarebbe capace di credere che un selvaggio muoia per errore”
2.    Frazer si dedica anima e corpo a collocare in una concezione organica un’immensa mole di dati provenienti dalla ricerca sul campo? “Il risultato finale dell’esposizione è una specie di mostro di Frankestein con un occhio destro preso dalle isole Figi, un occhio sinistro dall’Europa, una gamba dalla terra del Fuoco e una da Tahiti, e dita delle mani e dei piedi da regioni ancor più diverse” chiosa la Benedict.
3.     Lo stile di Frazer è avvincente, la prosa elaborata? “Frazer stesso pensava di fare della letteratura, non della storia o della scienza: i dati erano per lui semplicemente materiali grezzi da scrivere bene” afferma Edmund Leach
Una sconfitta su tutta la linea, quella di Frazer, che rifiuta di scrollarsi di dosso la polvere dell’antropologo da tavolino andandosi a battezzare alla fonte miracolosa della ricerca sul campo (e poco importa se, in realtà, quella di Frazer è stato una scelta consapevole, dovuta alla convinzione della necessità di separare i due momenti, raccolta dei dati e teorizzazione, allo scopo di evitare reciproche contaminazioni). Eppure, se osserviamo i recenti sviluppi dell’antropologia postmoderna, ci accorgiamo che l’infante è stato resuscitato: alla luce del rifiuto del realismo funzionalista, col suo tentativo di rendere comune l’esotico, quello opposto di Frazer, di esotizzare il comune, risulta un approccio più moderno del modernismo. Ora che anche il realismo etnografico è stato sacrificato sull’altare della rivalutazione della soggettività del ricercatore, sulla necessità di abbandonare la monografia, sull’urgenza di ridefinire i rapporti con l’alterità, vicina e lontana, le condizioni discorsive su cui procede il premoderno Frazer sembrano singolarmente appropriate alla descrizione del villaggio globale, della koinè culturale di scala planetaria che caratterizza la fine del ventesimo secolo [Dei].
Almeno, fino alla prossima rivoluzione antropologica.

GIANNA SABA

* Questa breve riflessione scaturisce dalla lettura di due lavori di F.Dei, “Metodo mitico e comparazione antropologica” e “ La discesa agli inferi. James G. Frazer e la cultura del Novecento”, liberamente consultabili su www.fareantropologia.it. Si rimanda a questi per un’esauriente bibliografia sull’argomento


L’antropologia “mi ha cambiato la vita”.

E’ passato ormai un mese e mezzo dalla laurea e dopo un primo momento di disorientamento sto cercando di mettere ordine nella mia testa. Sono tanti i dubbi e le incertezze legate sia alle scelte passate che alle possibilità future ma di una cosa sono assolutamente certa, l’importanza che ha assunto per me l’antropologia. Non parlo dell’antropologia in senso “accademico” in quanto solo da due anni mi sono accostata a tale disciplina di studio, ma all’antropologia come “stile di vita”, come modo di pensare e di vedere il mondo. E’ sorprendente come in pochissimo tempo io sia cambiata sviluppando una sensibilità nuova, un’empatia che prima non possedevo o che magari non riconoscevo in me. Il potere pacifico e sano dell’antropologia è davvero straordinario ed è un peccato che non venga “sfruttato” al meglio per tentare di cambiare certi modi di pensare meschini che ogni giorno riempiono la nostra quotidianità. A mio parere, l’antropologia dovrebbe diventare una materia di studio già dalla scuola secondaria di primo grado; in tal modo i più giovani potranno avere la possibilità di entrare in contatto con quel bagaglio di conoscenze che hanno permesso una piccola “rivoluzione” nel mio sguardo sul mondo a 25 anni e che, in più tenera età, potranno sicuramente influenzare positivamente quelle che poi diventeranno le generazioni del domani, un domani, si spera ancora, migliore.

mercoledì 10 agosto 2011

La panificazione in Sardegna. Fra tradizione e mercato

I gesti tradizionali legati alla produzione dei pani e dei dolci assurgevano al ruolo di “comunicazione sociale non verbale”(Diana, 2001). Ciò è vero in modo particolare per quanto attiene la preparazione dei pani festivi cerimoniali; i quali se da un lato consentivano alla donna di confermare le doti di “buona massaia”, d'altro canto, in occasione di particolari ricorrenze, costituivano dei veri e propri oggetti votivi che venivano visti come simboli rappresentativi dell'intero gruppo sociale comunitario. Dalle interviste emerge l’importanza assegnata dal gruppo sociale al “saper fare femminile” estrinsecato nella produzione dei pani e dei dolci. L’importanza della “buona fattura” dei pani e dei dolci aumentava, naturalmente, nei contesti cerimoniali, come il caso del pane di San Giovanni a Fonni da me esaminato, che li vedevano protagonisti: elementi simbolici atti a scandire il momento festivo e a “segnare” il tempo sacro. Molti momenti della panificazione erano legati alla religiosità: a partire da quando le donne si segnavano, fino a quando il segno della croce veniva fatto sul lievito e poi sul pane stesso. Né va dimenticato che particolari pani cerimoniali invalsi a livello tradizionale vengono tutt'ora preparati in occasione delle feste in onore di santi (per Santa Rita nel caso di Torralba), o in occasione della festa di Sant'Antonio (17 Gennaio), per esempio, dove ovunque è una vera e propria sfilata, attorno ai fuochi accesi, di pani in vario modo dolcificati resi appetibili con miele e mosto cotto (Sa saba).Meravigliosi sono anche i pani riservati alle occasioni nuziali: con forme e motivi che rappresentano il sole, o a forma di rosone, di cuore, oppure finiti con elaborate composizioni di colombelle. Il bello e il buono sono presentati in ogni caso come risultati individuali iscritti in un codice di significati e di valori socialmente riconosciuti ed apprezzati. Le donne intervistate hanno, quindi, ripetutamente sottolineato la discrepanza tra il “fare tanto per fare”, considerato un fare generico e privo di significati e valori, e il fare bene. Le donne che sanno e che vogliono svolgere al meglio le loro attività lavorative e sociali, sono apprezzate sia dagli uomini che dalla donne. I comportamenti gestuali tradizionali si inscrivevano in un saper fare mutuato attraverso lo sguardo, per questo, dagli studiosi definito “tacito” o “implicito”, piuttosto che attraverso il linguaggio verbale. La dimensione della trasmissione di contenuti verbalizzati appare, piuttosto un fenomeno moderno.

Il saper fare nell’orizzonte delle informatrici più anziane, che hanno vissuto la dimensione del contesto tradizionale, si accompagnava ai contenuti sociali, a un patrimonio etico, che oggi diviene parte integrante della nostra memoria culturali. Oggi il cibo non è più legato alla sussistenza, e produttori e consumatori non coincidono come nel passato. Se prima si mangiava solo ciò che si aveva e i piatti tipici erano creati dalle mani sapienti delle donne, che si servivano dei prodotti del duro lavoro dei contadini e pastori, e loro stesse erano parte attiva nei lavori agricoli, oggi la situazione è mutata. Non si verificano più gli scambi dei prodotti, tutti hanno già tutto e vi è meno spazio per l’estrinsecazione del valore della reciprocità. Tutto è abbondante e i cibi non parlano più solo la lingua della tradizione, e quelli che ancora la parlano ne hanno modificato un po' l'accento. La realtà quotidiana è rappresentata dall'impoverimento della cucina domestica in cui i piatti delle tradizione costituiscono un'eccezione, e la regola è l'appiattimento sulle proposte industriali della grande distribuzione.

Questo, però, è solo uno dei volti della globalizzazione. Se è vero, infatti, che il contesto globalizzato conduce all’omologazione anche alimentare, tuttavia, è anche in grado di scatenare, per una sorta di “effetto-paradosso” la nostalgia nei confronti di quanto è localmente connotato (Mondardini, 2005) .

La nostalgia del locale è evidente anche e soprattutto in ambito turistico e al turismo gastronomico nella fattispecie, per il fenomeno che c’interessa.

Non c'è pietanza, anche la più umile, che non sia stata riscoperta, raccontata e riproposta (Rami Ceci 2005).

La riproposizione del tradizionale a scopo turistico e commerciale, però, deve avvenire a patto di non tradire quel contenuto etico ed etnico al quale abbiamo fatto riferimento in precedenza. Ciò che chiamiamo tradizione, infatti, rappresenta la nostra identità culturale. Il lavoro di documentazione etnografica ci aiuta in questa impresa di preservazione della memoria culturale.

Naturalmente custodire e tramandare la memoria non significa negare i cambiamenti e l’innovazione, come, ad esempio dimostra l’intervista condotta a Bitti. L'azienda presso la quale ho condotto l'indagine è specializzata nella produzione del pane tipico sardo “carasatu”, ed è un'azienda che cerca di mandare avanti la tradizione, e al tempo stesso di garantire la qualità del pane avvalendosi anche dell'innovazione.

Nel campo della produzione del pane e dei dolci tradizionali ad esempio le nuove tecniche di packaging o le tecnologie volte ad aumentare la durata di vita, ossia la freschezza dei prodotti alimentari tradizionali, rappresentano una modalità per far “dialogare” in maniera più efficace la nostra cultura con l’esterno, pur senza tradirne i contenuti.

martedì 9 agosto 2011

La nave dei morti

Il bagaglio di miti, leggende e storie della tradizione dell'arcipelago di Chiloé (Cile), appare frutto di un contesto culturale e sociale ancorato al luogo che le ha originate ma, allo stesso tempo, si avvertono in questi racconti, inevitabilmente, gli influssi spagnoli – ed europei in generale – che hanno in certo modo arricchito, in maniera anche rilevante, il paesaggio di leggende e miti, come sottolinea Mansilla Torres, per il quale si è venuto a creare un forte sincretismo tra l'immaginario tradizionale indigeno e quello spagnolo, che ha dato vita a leggende meticce, con elementi europei e americani (Mansilla Torres 2007). In maniera non diversa anche Cárdenas Álvarez ritiene che abbiano contribuito alla creazione del vasto paesaggio culturale chilota due indirizzi, uno indigeno e l'altro coloniale: come sostiene lo studioso, «la raíz fundamental del mito chilote es mapuche. Pero fuertemente determinado por la ideología del cristianismo de las culturas occidentales» (Cárdenas Álvarez 1997: 5). Il Caleuche è un

Buque de características extraordinarias que puede hacerse invisible; transformarse en objetos animados o inertes; desplazarse a grandes ve­locidades. Su aspecto es el de un buque escuela, comple­tamente iluminado y con música que encanta. Sus tri­pulantes rescatados de naufragios o raptados de la ri­bera chilota alivianan su inmortalidad con fiestas y otras entretenciones humanas que le dispensan sus co­labo­radores de tierra. Su aparición ocurre preferente­mente de noche o cuando hay neblina (Ivi: 11).

Sono diverse le versioni conosciute di questo racconto folklorico, fonte di ispirazione anche per narratori e scrittori, soprattutto cileni1; ad esempio, Francisco Coloane, che la conobbe in gioventù: «la leggenda dell'errante vascello fantasma Caleuche e dei suoi marinai con l'uniforme bianca, con un piede infilato nella schiena e la testa girata dall'altra parte, fu trasmessa da una nonna a sua madre e da lei la imparò nei giorni della sua infanzia» (Bravo Elizondo 2004: 136-137); secondo la leggenda riportata da Coloane, il Caleuche appare come un «vascello fantasma che scivola sui mari interni dell'arcipelago di Chiloé» (Coloane 2006: 107), con «ancore d'oro, con gavitelli2, sartiame3 d'alluminio e alberi dotati di antenne invisibili che captano le microonde permettendo loro di comunicare tramite le vibrazioni con altri "caleuchani" che vagano nelle correnti marine4» (Ivi: 108). Riprende, inoltre, anche una delle tradizioni per cui la funzione del Caleuche è quella di raccogliere «i naufraghi nell'ora fatidica, lanciando loro un salvagente tondo, perché passino attraverso quella cruna d'ago e approdino sui nostri ponte e coperta istoriati di re di triglie» (Ivi: 110), in un chiaro riferimento al passaggio fisico-semiotico attraverso il cerchio (cfr Van Gennep 2002). Nel racconto Coloane utilizza un artificio letterario per cui si immedesima in un marinaio diventato membro della ciurma del buque de arte5, e spiega quali siano le dinamiche, una sorta di rito di passaggio, attraverso cui gli annegati vengono raccolti dal veliero fantasma e diventano – dopo un periodo di prove da superare – caleuchani. «Probabilmente tutto ciò risulta grottesco per i comuni mortali, perché non capiscono che abbiamo dovuto affrontare una lunga preparazione prima di diventare uomini di questo equipaggio» (Ivi: 108). I naviganti, i marinai, i morti in mare, naufragati in condizioni in cui il mare è in tempesta, mutano strutturalmente il loro essere e, dopo un periodo di liminarità, vengono riaggregati in un'altra condizione. Dopo il naufragio della loro barca, i protagonisti passivi di questo racconto Vicente, Víctor e Olga6 furono vittime di un naufragio in cui perirono. Vicente racconta che, dopo il naufragio, lui e Víctor restarono lì «sotto la chiglia [...] finché dal Caleuche – loro avevano visto il nostro naufragio – ci lanciarono, tra i gorghi, due ciambelle salvagente legate a un filo di luce invisibile, e passandoci attraverso, in un millesimo di secondo ci trasformammo da comuni mortali di Lliuco7 in cahuelches8 di Queniao9». A questo punto, Coloane descrive i passi che un "normale" deve affrontare per diventare cahuelche;

quindi, dovemmo affrontare tutte le trasformazioni richieste per diventare un membro dell'equipaggio del Caleuche. Dagli alberi alla deriva si estraeva la "scienza" che ci veniva inoculata per tramutare la linfa terrestre in acqua marina: lavaggi del cervello per abbandonare le nozioni dei "normali" e apprendere l'algebra dei "cahuelches" che, senza sotterfugi legali o illegali, racchiude tutti gli arcani del finito e dell'infinito (Ivi: 114).

L'autore si sofferma ancora sulla pratica del passaggio dalla condizione di "normale" a quella del cahuelche, affermando che:

il cerusico di bordo mi fece la prima iniezione [...], poi ci buttò in mare facendoci fare più volte il giro attorno alla chiglia, dalla prua alla poppa, una notte intera alle intemperie finché non ci sentimmo come degli azulejos, gli squali che seguono la corrente di Humboldt. [...] Appesi ai pennoni del vascello fantasma, simili a grosse lacrime contorte, apprendemmo a stringere i denti per non urlare, perché, se ci sfuggiva un solo lamento, finivamo un'altra volta a fare il giro della chiglia, sott'acqua da babordo a tribordo (Ivi: 115).

L'etimologia della parola Caleuche, secondo Cárdenas Álvarez, è da ricercarsi nel termine mapuche «CALEU[TüN] 'mutare, trasformarsi' + CHE 'gente'. Si è preteso rintracciare l'origine di questa leggenda nella sparizione della nave "El Calanche" dell'olandese Vicente Van Eucht, nei mari australi» (Cárdenas Álvarez 1997: p 11). L'alterità dei cahuelches ha un'origine che è riconducibile ad un tempo mitico, ma è anche strettamente funzionale alla struttura economica e all'ecologia chilota; infatti, nella descrizione che ne dà Coloane, l'equipaggio appare formato da esseri quasi marini: «da ciò deriva il fatto che abbiamo la testa girata all'indietro e la pianta del piede destro attaccata alla schiena come fosse la spina dorsale ricurva di un delfino» (Ivi 109). I loro occhi «sono come quelli delle mosche, che vedono ai quattro lati» (ibidem) e «dato che guardiamo all'indietro, siamo costantemente immersi nel passato, ma abbiamo anche un occhio invisibile nella nuca, che percepisce la realtà del momento» (Ibidem). La loro origine è da collocarsi in un tempo remoto,

nel terziario, quando i nostri stretti canali e fiordi cominciarono a subire l'erosione dei ghiacciai che convertirono le morene nelle oltre quaranta isole dell'arcipelago di Chiloé. Allora, anche noi subimmo una mutazione e diventammo cahuelches, che in lingua indigena significa "delfino-uomo" o viceversa. In quell'epoca remota del terziario, gli uomini non esistevano ancora su nessuna isola del pianeta, ma non per questo ci crediamo dèi, anche se fin dai tempi dei dinosauri conosciamo l'infinitesimale istante dello spazio, luogo e tempo in cui nacque il sinuoso serpente che tentò i progenitori dei comuni mortali (Ivi: 109-110).

Interessante notare come anche uno dei significati del nome Caleuche richiami al cambiamento di status, da vivo a defunto, aggregato all'equipaggio dopo diverse prove, quasi riti di passaggio, che tendono a svuotare l'umanità del morto per riempirla di una morte quasi posta sullo stesso piano dell'esistenza; con questo si vuole intendere la convergenza che passa tra i due livelli – umano e Altro – raccontati da Coloane, ma descritti anche nelle differenti versioni del racconto. Risulta assai rilevante, a questo proposito, un'altra versione raccolta da Mansilla Torres; secondo lo studioso cileno i marinai del Caleuche possono – se ricevuto il permesso dal loro comandante – «a visitar a sus familias humanas en tierra; si ocurre, será sólo por una noche y por un única vez» (Mansilla Torres 2009: 297-298). Si evince come la dimensione temporale subisca in questo caso uno scarto importante; i marinai-morti del vascello fantasma, condannati a vagare in eterno per i canali dell'arcipelago, in un tempo strutturato praticamente come quello umano, possono tornare dalle loro famiglie una ed un'unica volta: come meglio specifica Antonino Buttitta – in riferimento al tempo altro dei morti – «le anime dei defunti non si trovavano in uno spazio senza dimensioni, in un tempo senza tempo, come oggi si è inclini a pensare; ma in una sorta di antimondo, che aveva bisogno del mondo per continuare a esistere come sua immagine riflessa in uno specchio» (Buttitta 2004: 13-14).



Domenico Branca







BIBLIOGRAFIA


BRAVO ELIZONDO P.

2004 "Francisco Coloane, nuestro escritor del extremo sur", in Revistas de Ciencias Sociales, n. 14., pp. 136-140.


BUTTITTA A.

1995 "Introduzione", in Lévi-Strauss, C., Babbo Natale giustiziato, Sellerio, Palermo.


CÁRDENAS ÁLVAREZ R.

1997 El Libro de la Mitología. Historias, Leyendas y creencias mágicas obtenidas de la tradición oral, Ed. Virginia Vidal, Santiago.


CHAMBERLAIN A. F.

1910 "The Chilian Folk-Lore Society and Recent Publications on Chilian Folk-Lore, etc.", in Journal of American Folklore, Vol. 23, n. 89 (Jul. - Sep., 1910), pp. 383-391.


COLOANE F.

2006 Antartico, Guanda, Parma.


MANSILLA TORRES S.

2007 "Hay un dios que todo lo compra: identitad y memoria de Chiloé en el siglo XXI", in Revista austral de ciencias sociales, 12, pp. 145-158.


MANSILLA TORRES S.

2009 "Mutaciones culturales de Chiloé: los mitos y las leyendas en la modernidad neoliberal isleña", in Convergencia, Vol. 16, n. 51, (sep., - dic., 2009), pp. 271-299.


SEPÚLVEDA L.

1997 Il mondo alla fine del mondo, Guanda, Parma.


VAN GENNEP A.

2002 I riti di passaggio (Les rites de passage, Paris 1909), Bollati Boringhieri, Torino.



1 Cfr anche Sepúlveda 1997: 31.

2 Si tratta di un galleggiante ancorato a un peso sul fondale, di forma sferica, usato per segnalazioni o per ormeggiare imbarcazioni.

3 Insieme di cavi e cime che sostengono gli alberi della nave.

4 Una variante della leggenda afferma che il Caleuche è «una nave sottomarina, il cui equipaggio è formato da stregoni, che vaga intorno a Chiloé nella notte, - "un pirata infernale," che causa grande terrore» (Chamberlain 1910: 388).

5 Altro nome con cui è noto il Caleuche.

6 Vicente "Millalonco", figlio di una chilota e di un membro dell'equipaggio del Caleuche; millalonco, in lingua huilliche, significa "testa d'oro", da "milla", "oro", e "lonco", "testa"; l'espressione è usata anche per indicare il sole. Víctor e Olga, cugini di Vicente, erano figli di una chilota e di uno scandinavo.

7 Villaggio dell'Isla Grande de Chiloé.

8 Membri dell'equipaggio del Caleuche.

9 Punta sita a circa N 40° O (Ivi: 113).