mercoledì 30 marzo 2011

DOLMEN, CIPRESSI E...BUCHI NELL'ACQUA.




Da sempre mi sono domandato del perché il cipresso fosse “l'albero del cimitero”.
Senza mai rendermene conto, quasi sempre, se all'interno di un centro abitato, spesso un paese, notavo un raggruppamento di questi alberi mi dicevo “li di sicuro si trova il cimitero” e quasi sempre era così.
Chiesi ai miei colleghi se loro sapessero il perché di questo accostamento; mi risposero che forse il cipresso faceva parte della divinazione di qualche culto pre-cristiano, forse un albero sacro a una divinità classica. Era una delle risposte che io stesso mi diedi.
Prima di andare alla ricerca di qualche documento che attestasse questo, di qualche antico mito, ho provato a ragionarci su. All'inizio ho pensato alla forma particolare di questa pianta. Sembra una fiamma. Ho pensato allora ai lumicini dei cimiteri, alle loro piccole fiammelle e chissà, forse con un po' di immaginazione il cipresso è l'unico albero che ricordi una fiamma, e spesso nei luoghi di sepoltura i lunicini ricordano le anime dei morti, o comunque degli spiriti. E'questa l'analogia giusta? I cipressi come grandi fiamme tombali? Come enormi fuochi fatui somiglianti oltre che nella forma anche, quasi, nel colore?
Ho fatto un'altra personale deduzione sul cipresso come identificazione di un territorio, in questo caso il cimitero. Anni fa per lavoro seguii un corso regionale di archeologia relativa al nord Sardegna. Studiai i dolmen, i triliti megalitici molto diffusi nel nord Europa, risalenti al medio paleolitico, che avevano funzioni di sepoltura. Di solito le popolazioni che si servivano dei dolmen in Gallura, quando nella gran parte dell'isola per lo stesso scopo si usavano le domus de janas, erano genti dedite non all'agricoltura e quindi non stabili in un territorio, costrette a spostarsi seguendo il ritmo delle stagioni. L'archeologa che curò il mio corso ci spiegò che per questo motivo queste tombe servivano anche per segnalare ad altre tribù che giungevano in quei luoghi che quel territorio era occupato da altre genti. Insomma, il dolmen oltre che un utilizzo tombale aveva uno scopo di segnalazione del territorio.
Allo stesso modo ho pensato che anche il cipresso, in un modo meno importante, segnalasse,già in un epoca priva di cartelli di indicazione, il luogo di sepoltura di un paese e quindi identificato solo con quella popolazione.
Mi sono quindi trovato con due strade da percorrere sul capire il significato del cipresso come pianta cimiteriale:

CIPRESSO=SIMBOLO e CIPRESSO=SEGNALE.

Ho così deciso di cercare riscontri sul web, ben sapendo che la seconda deduzione avesse un'impronta troppo fantasiosa.
Digitai per iniziare la parola CIPRESSO e mi imbattei nel solito wikipedia che, sebbene spesso non sia una vera fonte di sapere massimo, può comunque dare spunti interessanti e suggerimenti su dove cercare ulteriori approfondimenti.
Sull'utilizzo di quest'albero nel cimitero trovai da prima una risposta che mi lasciò l'amaro in bocca, cito: il cipresso “è l'albero tipico dei cimiteri perché le sue radici, come quelle di tutti gli alberi, hanno estensione e sviluppo corrispondenti a quelli dei rami; quindi, nel caso del cipresso, scendendo a fuso nella terra in profondità invece che svilupparsi in orizzontale (come per le querce e gli altri alberi a chioma larga), non danno luogo a interferenze con le sepolture circostanti”.
Non volevo credere che il suo utilizzo in questo luogo sacro fosse dato solo dalla crescita in profondità delle sue radici.
Continuo a leggere saltando le parti relative alla tassonomia e alle varie malattie e ai vari organismi che possono nuocere la pianta e finalmente trovo quello che cercavo.
Scoprii così che fin dall'antichità il cipresso è sempre stato identificato con il culto dei morti. In alcune regioni dell'Asia orientale è simbolo di vita eterna.
Poi finalmente il mito...il mito greco di Ciparisso:

Ciparisso era un giovine caro ad Apollo. Il ragazzo era così devoto al dio che questi gli fece un regalo speciale: un cervo dalle corna d'oro. Questo cervo non era un semplice animale per Ciparisso, ma divenne in breve tempo il suo miglior amico con il quale passava intere giornate a girovagare nei boschi.
Spesso il cervo accompagnava il suo giovane padrone quando questi andava a caccia. Un giorno Ciparisso uscì da solo di primo mattino con il suo arco per andare a caccia. Si inoltrò nel bosco alla ricerca di una buona preda. A un certo momento vide un grosso cespuglio muoversi. Un cinghiale? Ciparisso, abile cacciatore, mirò verso il cespuglio, tese la corda del suo arco e scoccò la freccia. Il colpo andò a segno ma dal cespuglio non spuntò morente un cinghiale ma l'amato cervo che di li a breve cadde a terra. Per il prezioso amico non vi fu nulla da fare. Ciparisso piangente invocò Apollo. Il dio, vedendo il dolore del suo giovane pupillo gli disse che, qualunque cosa lui desiderava, gliel' avrebbe concessa. Ciparisso aveva un solo desiderio, poter piangere in eterno il suo amato cervo. Apollo provando compassione per il giovane decise di esaurire la sua richiesta. Le lacrime di Ciparisso si colorarono di un verde intenso e si tramutarono in foglie che gli coprirono tutto il corpo e le gambe si trasformarono in radici. Il giovane divenne un albero. Da quel giorno il Cipresso è considerato un simbolo di dolore.

Etruschi e romani ripresero questo mito greco eleggendo la pianta al ruolo di simbolo di dolore. Non a caso i cristiani, insieme alla palma, all'ulivo e al cedro, ritengono che il legno del cipresso venne utilizzato per costruire la croce nella quale fu condannato il Cristo.
In conclusione posso finalmente dire di avere dato risposta alla mia domanda. Si, il cipresso non a caso è l'albero dei cimiteri, si le sue origini sono da ricercare nei miti, si è un simbolo di dolore...No, la storia dei dolmen come segnalazione di territorio da raffrontare con il cipresso come indicazione di cimitero proprio non sta a galla, un vero buco nell'acqua...
Mauro Pirisinu


La foto iniziale del blog è stata presa da .http://www.wikideep.it/cipressi/

martedì 29 marzo 2011

Sant'Antonio ad Olbia. Fra nascita di una tradizione e autocelebrazione identitaria


Il 16 gennaio 2011, in un quartiere di Olbia, Isticadeddu, si è celebrata per la prima volta la festa di Sant'Antonio, l'organizzazione della quale si è dovuta ad una comunità di immigrati provenienti dal Goceano in un arco cronologico che va dai primi anni '70 del novecento in poi.
Per quanto riguarda la struttura formale della festa, si possono distinguere diversi piani: al centro dello spiazzo il falò, preparato dagli uomini il giorno prima, con legna donata da privati e trasportata su camion di proprietà dei membri del comitato o prestati da amici (note di campo); poi un lungo bancone diviso per "generi", da una parte del quale stavano le donne che si occupavano di distribuire i dolci tipici di Sant'Antonio (senza distinzione da paese a paese, ma sempre sottolineando il fatto che fossero tipici del Goceano), mentre dall'altra gli uomini si occupavano del vino. La musica non era dal vivo (ad eccezione del coro di Loiri che ha partecipato alla messa celebrata del vescovo), ma veniva mandata da due casse, sostanzialmente riproducendo la musica "tipica" sarda. Prima dell'accensione il falò è stato benedetto dal vescovo, e poi acceso su tre lati dall'immigrato goceanino di più antica data, di nome Antonio. Interessante appare la disposizione del pubblico che, in seguito a brevi sonde, più era vicino al bancone dei dolci e del vino e più aveva legami con gli organizzatori od era organizzatore egli stesso, e viceversa.
L'interesse di questo evento, in ogni caso, risiede nella a) possibilità / eventualità della nascita di una tradizione, b) così come della creazione o affermazione di una appartenenza e, conseguentemente della sua autocelebrazione identitaria; c) questo avviene attraverso la festa e, in particolare, il fuoco di Sant'Antonio come simbolo identitario e legame, cemento, di individui provenienti da una stessa zona, ma da paesi diversi. Sia la festa che il falò di Sant'Antonio d) vengono rifunzionalizzati, svuotati totalmente o parzialmente del proprio significato tradizionale, nonché tradotti da un contesto a un altro.
a) Appare chiaro come un evento di questo tipo possa reiterarsi nel tempo, ri-presentandosi a scadenza regolare nei prossimi anni, modificarsi e stabilizzarsi fino a diventare parte integrante del paesaggio culturale della comunità goceanina o della città di Olbia. È in questo senso che si parla di possibilità / eventualità della nascita di una tradizione, «problema questo che va affrontato non solo alla luce degli elementi culturali in quanto tali ma anche in quella del processo storico» (Seymour-Smith, 1991, p. 411) della comunità che si sta studiando.
b) La comunità di cui si parla è, evidentemente, legata in primo luogo da vicinanza geografica e culturale, nonché dalle contingenze storico-sociali dovute all'abitare ad Olbia; un passo successivo di questo studio potrà concentrarsi  sul sentimento identitario che potrebbe già esistere fra questi individui, circa l'essere goceanini ad Olbia, e sulle "modalità" di questa autopercezione, o che potrebbe palesarsi nel caso l'evento, da occasione unica, diventi norma sociale. Ad una primissima, e parziale, analisi dovuta all'osservazione sul campo, emerge comunque una «comunità che si celebra [...] per quello che è, o per la percezione che ha di se stessa» (Giallombardo, 1990, p. 14), in cui l'appartenenza ad un medesimo orizzonte culturale, viene sottolineata dalla festa, che si pone come spazio di determinazione e autodeterminazione e «tende a costituire, o a ricostruire, una comunità del noi, nella quale i diversi protagonisti di una società rafforzano i loro vincoli e riaffermano la propria identità culturale» (Lombardi Satriani, 1997, p. 27).
   c) Il falò, dunque, viene a costituire in questa situazione particolare il locus fisico e ideale, diventa l'elemento simbolico attorno, e grazie a cui, si ha la determinazione e l'autodeterminazione della comunità. Questa comunità si ri-costruisce in altro luogo attraverso un simbolo comune ai diversi paesi di provenienza degli individui, e sembra potersi porre – in questo inizio, in questo «illo tempore» che può diventare mitico – come «fuoco nuovo [che] rafforza e rinvigorisce l'energia vitale, rinnova» la società (Buttitta, 2002, p. 63).
   d) Il falò assume funzioni diverse, quindi, dal contesto di provenienza al luogo di arrivo, se non a livello formale almeno in quello sostanziale. La risematizzazione sia festiva, che del simbolo stesso della festa, il falò, si rivela come necessaria per la comunità che si struttura, si crea, tramite il simbolo.

Domenico Branca

Bibliografia

Ariño, A., Lombardi Satriani, L. M., (a cura di) 1997, L'utopia di Dioniso. Festa tra tradizione e modernità, Meltemi, Roma.
Buttitta, I. E., 2002, Il fuoco. Simbolismo e pratiche rituali, Sellerio, Palermo.
Giallombardo, F., 1990, Questua, orgia e società, Flaccovio, Palermo.
Seymour-Smith, C., 1986, Dictionary of Anthropology, MacMillian; trad. it., 1991, Dizionario di Antropologia, Sansoni, Firenze.

domenica 20 marzo 2011

Sassari e il suo orso


Pochi giorni fa ho scritto un post in cui elencavo le maschere sarde a cui si attribuisce (o si auto attribuiscono) la qualifica di tradizionale. Non sapevo né mi aspettavo che anche nella mia città, proprio sotto i miei occhi, si stessero manifestando le stesse dinamiche.
Certo gli indizi c’erano… 
La ricostruzione nel 2002 del costume di Sassari e la conseguente formazione di un gruppo folcloristico, il tentativo di organizzare i festeggiamenti in onore di San Nicola, patrono ufficiale della città, e altre piccole cose indicavano già una tendenza ben precisa: quella, come ho scritto nel post precedente, di adeguarsi al paradigma identitario pastoralistico.
Nella fattispecie la maschera in questione è denominata “l’Ussu”, l’orso.
Per quanto riguarda il nome risalta subito l’assonanza con maschere di recente reintroduzione in altri centri della Sardegna: s’Urtzu di Aritzo, Austis, Ortueri, Samugheo e Ula Tirso, s’Urthu di Fonni. È evidente che, aldilà della differente grafia, si tratta della stessa denominazione.
Resterebbe da spiegare l’utilizzo simbolico di un animale, l’orso, completamente assente dalla fauna sarda almeno sino al Medioevo a quanto sostenne Francesco Cetti (2000: 73) e a quanto si desume da Delussu (2000) e da Vigne (1988). 
Foto tratta dal manifesto pubblicitario
 La veste comunque non ha nulla dell’orso. Come si vede dalla foto e dal video il costume consiste in una pelle di cinghiale utilizzata come copricapo e mantello, un gilet realizzato con una pelle presumibilmente di pecora o di capra ed infine una catena legata al collo del figurante. La trasformazione in animale è completata dall’annerimento del volto.
Il richiamo a certe maschere barbaricine è evidente in molti aspetti: la veste, pur con meno elementi “arcaicizzanti” (l’Ussu indossa dei comunissimi jeans e nella foto anche un berretto da baseball) riporta immediatamente alle maschere (tra le altre) di Ottana; il fatto che la catena che pende da collo dell’Ussu diventi un guinzaglio tenuto da un’altra maschera, armata di un bastone che usa per percuotere l’Ussu, può rimandare a certe rappresentazioni messe in scena da altre maschere (ancora una volta Ottana); anche l’annerimento del viso è comune ad altre realtà (vedi Orotelli).
L’unica cosa che non trova paragoni è il movimento (video), che però non sembra avere nulla di arcaico ma asseconda il ritmo imposto dalla banda. Il repertorio sembra abbastanza standardizzato, proponendo sia musiche sassaresi, come le melodie delle gobbule, sia arrangiamenti di canzoni popolari italiane (nel video si riconosce la canzone Nannì di Franco Silvestri)
La Nuova Sardegna del giorno dopo la sfilata sassarese così descrive la maschera:

«Secondo la tradizione l'animale rappresenterebbe una sorta di uomo selvaggio, collegato ad un filone di matta bestialità agreste. E' lui l'attore principale della sfilata, da sempre deputato ad aprire la manifestazione. Aggressivo, spavaldo, si è aggirato per le strade circondato da altre figure animalesche che lo hanno frustato e sbeffeggiato (Pinna 2011)».

Ben lontano da qualsiasi pretesa di completezza ho provato a fare qualche indagine.
Ho prima di tutto chiesto a mio padre, che dalla nascita sino al secondo dopoguerra ha vissuto nel centro storico in via Lamarmora (i miei nonni gestivano in quella via una taverna) ma non ricorda una rappresentazione scenica così ben definita e strutturata.
Ho consultato alcune classiche fonti scritte senza ottenere nulla. Angius (2006) e La Marmora (1971), pur dedicando qualche riga al carnevale non accennano a questa maschera.
Il poeta Salvator Ruju non ne parla ma segnala una cosa molto interessante: in una sua poesia, parte del volume Sassari veccia e noba (La firugnana) descrive una maschera del tutto simile all’omonima Filonzana ottanese. La maschera sembra legata all’inventiva di una singola persona piuttosto che codificata come quella barbaricina. Sarebbe comunque di sicuro interesse approfondire la conoscenza su questa (almeno per me) inaspettata similitudine.
Ritornando all’Ussu, forzando un po’ la mano si potrebbe trovare qualcosa in Sassari di Enrico Costa. L’opera dà ampio spazio alla descrizione del Carnevale sassarese e in alcuni passi sembra descrivere qualcosa di simile a quanto proposto oggigiorno dal gremio dei Macellai:

«Infine anche gli straccioni facevano la loro mascherata, gli uni coperti di pelli lanose, con le corna in testa e il campanaccio al collo, per imitare i buoi, e gli altri che li seguivano col pungolo e la corda in mano, imitanti i pastori ed i bifolchi» (Costa 1971: 174).
Pupazzi realizzati da Tavolara

Nonostante l’Ussu non presenti né corna né campanaccio e che quindi il travestimento descritto da Costa non si riferisca all’Ussu, è chiaro che qualche somiglianza la si può trovare nell’utilizzare abiti di pelli e nel rapporto conflittuale tra le due maschere: l’animale viene continuamente picchiato dal suo custode-padrone.-aguzzino, a simboleggiare la totale sottomissione della bestia all’uomo.
Un’altra importante raffigurazione del carnevale sassarese è stata realizzata nel 1937 da Eugenio Tavolara (Altea 2005: 58). Nel gruppo di pupazzi, denominato “Mascherata sassarese”, pur essendoci figure coperte da pelli non sembra spiccare una vera e propria maschera, perlomeno non simile all’Ussu odierno. Sembrano più travestimenti improvvisati, estemporanei, come del resto tutti gli altri rappresentati nel gruppo di pupazzi.

A questo punto bisogna tirare le somme…
Le possibilità sono diverse.
La prima è che la tradizione è stata inventata di sana pianta. Non sarebbe la prima volta che si rivestono di arcaicità, e quindi implicitamente di autenticità, pratiche molto recenti. Uno degli esempi più noti è quello del kilt scozzese che noi siamo abituati a pensare come da sempre indumento degli highlander e che invece è stato introdotto nel 1700 (Trevor-Roper 2002).
Un’altra possibilità è che siano esistiti travestimenti simili ma che fossero estemporanei e non organizzati in una vera e propria rappresentazione, con tanto di indumento, movimenti e ruolo sociale definito (vedi Costa).
La terza è che abbiano ragione i Macellai e che quindi l’Ussu sia la maschera del carnevale sassarese. Ma da quando? Quando è nata? Contro le tendenze omologanti della modernità l’esigenza di sentirsi unici e irripetibili viene a volte soddisfatta sacrificando il rigore storico. Spesso si dice che una cosa esiste “da sempre”, quasi sempre senza una minima prova di quanto si afferma, attribuendo al passato remoto pratiche la cui nascita si colloca in zone d’ombra della memoria popolare. Sarebbe molto interessante approfondire con i rappresentanti del gremio l’argomento e dare uno sguardo agli archivi della corporazione in cui si potrebbero trovare inedite informazioni (si, se per caso qualche gremiante leggesse queste righe mi sto proponendo…).
Una cosa è certa…
L’anno prossimo sicuramente non mancherò.

 Alessandro Pisano

Bibliografia

Altea G., 2005, Eugenio Tavolara, Nuoro, Ilisso
Angius V., 2006, “Sassari”, in Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento. 3, Nuoro, Ilisso (ed. or. Casalis G., Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, Torino, 1849)
Cetti F., 2000, “I quadrupedi in Sardegna”, in Storia naturale di Sardegna, Nuoro, Ilisso (ed. or. Sassari, 1774)
Costa E., 1977, Sassari. Cronistoria dalle origini al 1884. 6, Sassari, Gallizzi (ed. or. 1937)
Delussu F. 2000, “Lo stato attuale degli studi sulle faune oloceniche della Sardegna centro-settentrionale”, in Atti del secondo convegno di archeozoologia, Forlì, Abaco edizioni
La Marmora A., 1971, Itinerario dell’isola di Sardegna. 2, Cagliari, 3T (ed. or. Itinéraire de l’Ile de Sardeigne, pour faire suite au Voyage en cette contrée, Torino, 1860)
Pinna D. 2011, “Il Carnevale dei Macellai fa il pieno al centro storico”, in La Nuova Sardegna, 6 marzo
Ruju S., 2001, Sassari véccia e nòba, Nuoro, Ilisso (ed. or. 1957)
Trevor-Roper H., 2002, “La tradizione delle Highland in Scozia”, in L’invenzione della tradizione, a cura di Hobsbawm E. – Ranger T., Torino, Einaudi (ed. or. The invention of tradition, Cambridge, 1983)
Vigne J-D., 1988, Les mammiféres post-glaciaires de Corse, Parigi, Editions du Centre national de recherche scientifique

venerdì 18 marzo 2011

Alcune riflessioni sulla laicità dello Stato

Torna in questi giorni la questione del crocifisso nei luoghi pubblici, dopo la sentenza della Cassazione del 14 marzo scorso, che ha dato torto al giudice Tosti, licenziato per non aver voluto sostenere le udienze nelle aule in cui è esposto il simbolo religioso. Già, religioso. Perchè tale è ogni simbolo nel quale si identifica una data religione. Vorrei riflettere su quella che, a mio parere, è la difesa della laicità e della democrazia di uno Stato, quale quello Italiano, che ha sempre più a che fare con voci discordanti dalla Santa Romana Chiesa. Voci che non necessariamente provengono da altri paesi magari con una maggioranza religiosa differente dalla nostra, ma dall'Italia stessa e che non vanno così tanto d'accordo con quell'idea di identità religiosa nazionale tanto vecchia quanto priva di ogni senso di libertà. Ci sono vari punti su cui vorrei riflettere e che fanno parte della nostra quotidianità:

  1. Multiculturalità/interculturalità: la nostra è una società sempre più ricca e varia a causa delle nuove presenze (che tanto nuove non sono...) composte dagli immigrati ed è un dato di fatto abbastanza palese.
  2. Identità nazionale religiosa: chi prende in mano questo discorso fa prima a trasferire la propria residenza in Vaticano o in Arabia Saudita. Il nostro è, o almeno dovrebbe essere, un paese democratico che deve, o dovrebbe tutelare tutte le minoranze presenti nel territorio, in modo tale che non ci siano cittadini di serie A e cittadini di serie B. E trovare nell'aula di un tribunale una Croce appesa sopra la scritta "La legge è uguale per tutti" mi fa pensare alla Fattoria degli animali di Orwell, dove qualcuno è più uguale degli altri. E quel qualcuno è rappresentato dal simbolo esposto sopra la scritta.
  3. "Ma se andiamo nei loro paesi non ci fanno fare quello che vogliamo. Se entro in una moschea devo togliermi le scarpe!E così devono fare quelli che vengono qui": premesso che paragonare uno Stato ad un tempio religioso è un po' fuorviante, cosa si intende per "nei loro paesi"? E chi sono questi "loro" e chi questi "noi"? E inoltre, se si deve fare un confronto dove i "noi" sono migliori dei "loro", perché lo si fa dicendo "se lo fanno gli altri lo facciamo anche noi"? Non è forse questo un modo sbagliato di porsi nei confronti dei cosiddetti "altri"? Mi spiego: se si accusa un altro di essere incivile e di non rispettare i diritti, bisogna fare in modo di comportarsi diversamente, da superiori e non emulandolo come per fargli un dispetto.
  4. "Se uno non crede non gli dovrebbe dar fastidio vedere un simbolo religioso, anche perché il significato glielo dai solo se ci credi. Può essere benissimo un soprammobile": frase tipica dei difensori dei valori italiani cristiani che poi chiamano quel simbolo "soprammobile". Se tu credi e mi difendi il crocifisso non mi vieni a dire che non ha un significato. E secondo a chi arriva questa frase ti potrebbe pure scomunicare! Io la girerei così: se tu ci credi non hai bisogno di vedertelo ogni giorno appeso ai muri di tutti gli uffici.
  5. Secondo la Santa Sede la presenza dei simboli religiosi e in particolare della croce, riflette il sentimento religioso dei cristiani di qualsiasi denominazione, quindi non si traduce in un’imposizione e non ha valore di esclusione, ma esprime una tradizione che tutti conoscono e riconoscono nel suo alto valore spirituale, e come segno di «un’identità aperta al dialogo con ogni uomo di buona volontà, di sostegno a favore dei bisognosi e dei sofferenti, senza distinzione di fede, etnia o nazionalità». Prima obiezione: non tutti i cristiani accolgono con entusiasmo le icone quindi non è proprio vero che la croce riflette il sentimento religioso dei cristiani di qualsiasi denominazione. Seconda obiezione: provate a dire ad un bambino vittima di pedofilia da parte di un parroco che il crocifisso è simbolo di pace, magari quel bambino oltre ad essere stato violentato con la carne lo è stato pure con quel crocifisso (http://it.wikipedia.org/wiki/Casi_di_pedofilia_all'interno_della_Chiesa_cattolica#Irlanda). O provate a dirlo a lei http://www.brogi.info/2010/11/brasile-sobrinho-il-cattolicissimo-arcivescovo-di-recife.html.
Ovvio che non si può ridurre la questione in poche righe ma la questione è calda e seria. Viviamo in un mondo globalizzato in cui vivono mondi diversi che si incontrano ogni giorno, scambiando idee, culture, economie...Non si può pretendere che tutti si identifichino in un unico simbolo, se questo è parte di una fede religiosa. E ridurlo a puro simbolo nazionale è molto più "blasfemo" che toglierlo dalle pareti di un tribunale, di una scuola o di un ospedale. La strumentalizzazione che la politica e la chiesa fanno del crocifisso toglie ad esso la sacralità che ha per chi crede in quel simbolo. E se fossi dalla parte dei suoi strenui difensori mi guarderei bene dal trattarlo come se fosse un soprammobile.

Valentina Mura