sabato 23 luglio 2011

Non nel mio nome

Da subito se ne sono cercate le cause nelle frange più estremiste di Al Qaeda, ma stavolta l'Occidente civile, lontano da ogni sospetto, è lo stesso che ha fatto crescere dentro di sé un mostro integralista, ricco di xenofobia e di strane concezioni sull'identità religiosa. È lo stesso mostro che sentiamo ogni giorno in televisione, tra le più alte cariche dello Stato, che sputa sentenze cariche di odio contro ogni forma culturale che sia minimamente diversa dalla propria. È lo stesso mostro che bandisce i negozi "etnici", che grida all'attentato alle radici cristiane, che propaganda leggi anti kebab. Ora, sperando si tratti di un unico caso, c'è solo da riflettere sulle responsabilità che abbiamo tutti su uno stato di terrore psicologico, fatto di messaggi razzisti, spesso velati, ma altre volte molto espliciti e, nonostante questo, tollerati. Credo sia ora di dire basta alla minimizzazione del razzismo lampante che permea la mente di ogni singola persona; alle accuse cariche di pregiudizi verso ogni persona che si distingua dalla massa; che sia ora di farci un bell'esame di coscienza. Esame di coscienza che comprenda soprattutto un'analisi di quelle che sono le singole componenti di un'identità europea, sempre che se ne possa parlare come se fosse un'entità fissa, unica e immutabile. Componenti che hanno vari sapori, influssi culturali che provengono da ogni parte del mondo.

Oslo è la dimostrazione che l'odio che si manifesta verso gli "altri" si può contorcere verso se stessi. Alla memoria delle vittime di questa violenza, e di tutte le persone che ogni giorno, in tutto il mondo, devono stare attente affinché qualche pazzo accecato da qualche strana ideologia non le faccia saltare in aria o le riempia di pallottole.

martedì 19 luglio 2011

L'evoluzione del dibattito

Sono passati più di due mesi dal post Chi può dirsi antropologo? in cui cercavo di andare oltre la frustrazione che serpeggia tra gli aspiranti antropologi e provavo a ragionare su quali prospettive si aprono ad un neo laureato, come tanti membri della nostra associazione e anche io fra non molto.

L’accoglienza iniziale è stata più che tiepida, diciamocelo… qualche ‘mi piace’ su facebook, qualche commento qua e là… poi, finalmente, il dibattito ha iniziato ad ingranare grazie al contributo della comunità di Anthropos.

Insomma, dietro il quadro quasi avvilente in cui versa l’antropologia italiana, qualcosa si muove. Dico ‘quadro avvilente’ perché, sinceramente, non saprei come altro definirlo: i corsi di laurea, triennale e magistrale, stanno chiudendo un po’ ovunque, Sassari compresa; alcune scuole di dottorato, come quella di Siena, spariscono. Il peso dei tagli delle ultime riforme si fa sentire e solo i grossi centri, come La Sapienza o Bicocca, mantengono i loro corsi. Aggiungete il fatto che, nonostante un’ampia mobilitazione, ancora non siamo riusciti a fare in modo che i laureati in antropologia possano insegnare nei Licei delle Scienze Umane o che le funzioni di funzionario DEA presso il Ministero vengano svolte da antropologi.

La situazione può portare all’arrendevolezza o peggio a confidare in una qualche forma di provvidenza. Questo sarebbe il più grosso errore da fare… perché se aspettiamo l’intervento di un deus ex machina che ci risolva i problemi non facciamo altro che lasciarli crescere, finché non saranno troppo grandi anche solo per pensare di affrontarli.

Perché qualcosa si muova al di fuori dell’accademia sono necessari due elementi: impegno e unità.

Impegno in prima persona, dal basso, per comunicare l’antropologia, i contributi che può dare e i campi in cui può intervenire, per portare le nostre riflessioni fuori dai dipartimenti e dalle aule universitarie in cui, a volte, noi stessi le confiniamo.

Unità tra chi cerca di muoversi in questa direzione, attraverso un dibattito costruttivo che porti a forme condivise di azione, con un occhio alle specificità locali (siamo antropologi mica per nulla…) e un orecchio al mondo che ci circonda.

Qualcosa, grazie al dibattito che si è sviluppato su Anthropos, si è mosso. Qualcosa che ci vede attori partecipi, come associazione e come aspiranti antropologi. Come dibattiti simili hanno portato qualche anno fa alla nascita di Antrocom, oggi realtà più che affermata nel panorama dell’antropologia italiana, in questi giorni stanno delineando un soggetto più ampio, ancora da definire nelle sue componenti strutturali ma chiaro nei suoi propositi fondamentali.

ASSDEA non può che essere entusiasta di una prospettiva del genere… è la naturale prosecuzione del percorso iniziato quando, tra chiacchierate in fila in segreteria, di fronte ad un caffè o sostenendo esami, ha peso corpo l’idea di associarci.

Questo nuovo soggetto sarà la risoluzione di tutti i mali dell’antropologia italiana? No, sicuramente no… ma sarà un passo verso quella direzione.

Vi terremo informati sugli sviluppi futuri e vi invito a partecipare attivamente al dibattito sul forum Anthropos. Ne abbiamo da guadagnare tutti o, come dice una canzone politica sarda, ‘possiamo solo perdere queste nostre catene’.

I rituali del corteggiamento e del sesso

I rituali del corteggiamento e del sesso propri di numerose culture aprono una sfera dell’antropologia che ancora viene considerata tabù. L’immagine delle donne Nuba, in Sudan, con le loro danze erotiche pare il punto di partenza più significativo per la descrizione di questo fenomeno. Durante il rituale, la donna nuba sceglie il giovane che più le piace mettendogli una gamba sulla spalla, in modo tale che l’inguine sia proprio di fronte al viso del ragazzo, L’antropologa Gatto Trocchi, docente di Antropologia culturale descrive il fenomeno asserendo che: “.. è così nella gran parte delle culture del mondo. Le ragazze lanciano messaggi di disponibilità e i giovani maschi le raccolgono. Le differenze principali fra le usanze tribali e quelle di noi “occidentali” sta nel contesto: per conoscersi, incontrarsi, sedursi i giovani di molti popoli hanno a disposizione soprattutto riti e danze tradizionali. Del resto le danze sacre sono un inno all’attrazione fisica, per questo sono spesso decisamente allusive.. E per sedurre, le ragazze di tutto il mondo usano lo stesso metodo: mettere in evidenza i cosidetti segnali sessuali. Come? Attraverso l’abbigliamento. Non è infatti pretesto di originalità pensare come le donne, nelle più svariate culture da occidente a oriente abbiano fatto uso del proprio corpo per sedurre gli uomini. Si pensi all’immagine delle donne Giapponesi, Cinesi o Thailandesi, che scoprono la nuca raccogliendo i capelli in modo da scoprire la grazia del collo. Si pensi alle geische giapponesi, il loro kimono è fatto in modo tale da lasciare scoperto il collo e la schiena nuda ogni qualvolta si abbassino. Oppure si può pensare alle brasiliane o argentine con i loro tanga, alle occidentali che esibiscono profonde scollature o ancora alle indiane che truccano in modo evidente gli occhi dato che considerano lo sguardo come la parte più seducente del corpo umano.
Anche fra i cosidetti popoli tribali non mancano segnali espliciti: le ragazze Himba (popolazione della Namibia) danzando, arrivano di fronte agli uomini e fanno una giravolta tanto veloce che il loro gonnellino si solleva lasciando intravedere il sedere nudo agli spettatori.
Gli Yanomami dell’Amazzonia invece, sono attratti dal sorriso delle ragazze ma non disdegnano ilo seno delle donne, seppur abituati a vederlo costantemente dato che la popolazione vive in seminudità. L’antropologa Gatto Trocchi riporta un divertente aneddotto durante uno dei suoi viaggi nell’Africa Centrale, su un guerriero masai che riferisce: “… le donne durante i riti stanno dietro agli uomini perché se avvenisse il contrario, noi guarderemo i loro sederi e questo ci distrarrebbe.
L’antropologo William Jankowiak, dell’Università del Nevada, sostiene che il corteggiamento è presente nella stragrande maggioranza delle società umane. Prendendo in esame ben 166 culture tribali, trovò in 147 di esse usanze che possono essere definite “romantiche” benché la maggior parte delle unioni di questi popoli venga combinata dalle famiglie. Il matrimonio di due individui riguarda l’intera comunità: ecco perché nelle società tribali esistono regole ferree riguardo chi si può corteggiare e chi no. Le unioni sono usate per stringere alleanze fra i clan. Durante la fase di corteggiamento sono diffusissime, ad esemio in Nuova Guinea, serenate eseguite da cantori professionisti, così come regali o talismani d’amore. Nel Laos  si compongono poesie , mentre nel mondo islamico l’usanza (maschile) ancora viva era quella di ferirsi un braccio di fronte alla ragazza come dimostrazione che per lei si è disposti a soffrire. Secondo le osservazioni dell’antropologo Eibl Eibesfeldt in tutte le culture gli innamorati cercano di dare  all’innamorato un’immagine positiva di se stessi. Nelle popolazioni bellicose i giovani ad esempio i giovani dimostrano il loro coraggio, mentre in quelle pacifiche danno prova di saggezza e abilità nella caccia..
Questo breve post è tratto da un articolo di qualche anno fa apparso sulla rivista Focus n.120. Da quegli studi ad oggi sono passati ormai dieci anni. E’ di pochi giorni fa la notizia, passata in secondo piano, dello sterminio della popolazione dei Nuba oltre che delle guerre che sconvolgono ogni giorno molte di queste popolazioni. Credo fermamente che non ci sia altro da dire.
Maria Lucia Mette