Credo che sia arrivato il momento di tirare le somme della mia esperienza formativa… non ho ancora completato la laurea magistrale in Antropologia culturale ed etnologia, ma a pochi esami dalla fine (con tesi in parte definita ma ancora da iniziare) si può già fare un bilancio, soprattutto per quanto riguarda le possibilità di lavoro…
Io e la maggior parte dei miei colleghi quando pensiamo al nostro futuro lo sogniamo nel mondo dell’antropologia ma più realisticamente teniamo aperta qualunque altra possibilità… qualcuno di noi appena laureato ha già appeso l’antropologia al chiodo e sta già facendo altro.
Ma perché è così difficile lavorare in questo settore?
Perché non è che non ci lavori nessuno. Non so bene come funzioni dalle altri parti ma da noi esistono cooperative che gestiscono siti archeologici o musei, liberi ‘professionisti’ che propongono e a cui vengono finanziati progetti di ricerca di vario ambito. Qual è il problema? Che per buona parte né le cooperative né i liberi ‘professionisti’ hanno alcun tipo di formazione accademica. In sostanza la stragrande maggioranza di chi si occupa del settore, ovviamente al di fuori dell’ambito accademico, non ha fatto studi che lo preparassero. Se la maggior parte dei medici o degli ingegneri o degli architetti o degli avvocati esercitasse la propria professione senza avere la laurea (e per molti serve anche l’iscrizione ad un albo) si griderebbe allo scandalo.
Perché invece per l’antropologia non funziona alla stessa maniera? Perché non si grida alla lesa maestà quando ci viene sottratto un lavoro che potenzialmente potremo svolgere noi?
Forse c’è dietro una rassegnazione atavica che affonda le sue radici stesse dell’antropologia. D’altronde l’antropologo è stato per lungo tempo solo una delle figure che si rapportavano con le altre culture: lo hanno fatto amministratori coloniali e missionari, ovviamente con differenti fini e altrettanto differente formazione. Ma oggi la situazione è completamente diversa rispetto a quella dei nostri ‘padri’ e non si tratta di doversi conquistare il diritto ad esistere… l’antropologia culturale è ormai una disciplina scientifica a tutti gli effetti. Ma evidentemente il riconoscimento accademico non basta a garantire quello ‘popolare’. Nel pensiero di molti per occuparsi di antropologia, e specialmente di ricerca folclorica, non serve una preparazione accademica: chiunque è potenzialmente antropologo o folclorista. Niente di più falso, se è vero che nei nostri corsi di studio impariamo oltre a tanta teoria anche un metodo di ricerca da applicare poi nel concreto.
E le occasioni di applicare nel concreto teorie e metodologie apprese non è che manchino… viviamo in un’epoca segnata da un’attenzione a volte persino esagerata verso quella che chiamiamo identità. Globalizzazione e migrazioni internazionali stanno mettendo a dura prova sistemi culturali e stanno creando contraddizioni facilmente strumentalizzabili da movimenti apertamente o subdolamente xenofobi. Tutto diventa terreno di scontro: anche un innocente panino alla mortadella viene etichettato come ‘tradizionale’ e viene contrapposto al ‘non-tradizionale’ kebab. I meccanismi che stanno dietro questa ‘ossessione identitaria’, come la definisce Remotti, sono oggetto di profonde discussioni che coinvolgono tutta la comunità antropologica, dal’emerito professore sino all’ultimo dei blog come questo. In un mio post precedente e in altri di colleghi abbiamo cercato di dare un modesto contributo a questa tematica, ovviamente senza pretese di approfondimento (questo è pur sempre un blog…).
La materia su cui lavorare quindi c’è…
Ma chi ci deve lavorare? E qui ritorniamo alla domanda espressa nel titolo di questo intervento: chi può dirsi antropologo? Sicuramente chi si occupa di antropologia all’interno delle università (docenti, ricercatori, dottorandi, specializzandi) e delle soprintendenze.
Ma solo loro? A mio avviso no. L’università ha formato diverse generazioni di laureati. Conosco la mia e so che è perfettamente in grado di svolgere lavori di ricerca, perché ha imparato facendo esperienze importanti ma anche errori grossolani in ricerche per esami. Errori che, opportunamente analizzati in sede di esame, ha imparato a non commettere più. Il che non vuol dire che non possa commetterne di nuovi… ma la perfezione non è mai stata richiesta neanche a Malinowski, figuriamoci a noi…
La carriera universitaria inoltre segue percorsi propri che a volte, purtroppo, non necessariamente tengono conto del merito, per cui attribuire la qualifica di antropologi solo a chi riesce ad intraprenderla trasformerebbe la richiesta di una legittima tutela in un privilegio di casta.
Perché di questo si tratta: di una richiesta di legittima tutela! Ho scoperto, frugando su internet tanti siti, forum, gruppi su facebook che molti, in maniera più o meno diretta, si pongono lo stesso mio problema: cosa farò una volta laureato? E la risposta che viene data da utenti ormai totalmente disillusi è generalmente quella di lasciar perdere o di andare all’estero. Ma ho trovato su Google anche un tentativo di disegno di legge datato 2006 per l’istituzione dell’ordine degli antropologi. Il problema è dunque vivo e sentito.
Ma che ne è stato di quel tentativo? Sicuramente non è andato a buon fine, altrimenti non si continuerebbe a richiedere tutela. Ed è la soluzione migliore? Sinceramente non ne sono così sicuro.
Ma sono sicuro che sia opportuno riprendere seriamente questo dibattito. Altrimenti la mia generazione sarà l’ennesima che dovrà appendere l’antropologia al chiodo e fare altro.
Alessandro Pisano
Giusta e bella questa riflessione di Alessandro. Ma appendere l'antropologia a un chiodo è impossibile, perché è il nostro chiodo fisso :-/ Verranno tempi migliori. Ciao, da Duccio
RispondiEliminaMa è possibile fare concretamente qualcosa?
RispondiEliminaÈ da troppo tempo che aspettiamo tempi migliori però. Credo che concretamente sarebbe bene tutelarci con un albo, o comunque con uno strumento legislativo che tuteli la nostra professione e il nostro titolo di studio. E chiedere esplicitamente ai Comuni che hanno in gestione beni culturali che facciano le gare d'appalto solo ed esclusivamente per cooperative formate da persone specializzate non sarebbe una cattiva idea. Per ora mi sono venute in mente queste semplici cose che in concreto potrebbero, a mio parere, fare molto.
RispondiEliminaPersonalmente penso che:
RispondiElimina- il problema dell'antropologo in Italia è che non serve a nessuno o perlomeno esistono milioni di altre professionalità più diffusamente conosciute che gli fottono le possibilità di lavoro.
- gli antropologi che lavorano più o meno nell'ambito (al di fuori dell'accademia ovviamente) sono stati assunti per altri motivi, ovvero il fatto di essere antropologi non è stato determinante.
- la creazione di un ordine è la rovina di una qualifica professionale, sono totalmente contrario alla creazione di ordini professionali, soprattutto in Italia, considerando i beceri rapporti di danaro-potere che governano gli ordini esistenti.
- l'unica cosa in cui credo un antropologo debba sbattersi oggi sia imparare a comunicare l'antropologia e sperare che serve agli antropologi di domani.
- io sono uno di quelli che ha appeso l'antropologia al chiodo.
- quali sono davvero le competenze di un antropologo, lo chiedo praticamente, non la solita fuffa filosofeggiante sull'osservazione, i contesti multiculturali, ecc. Ovvero un antropologo si presenta da un'azienda e dice mi devi assumere perchè..? Diversa cosa se si propone un progetto, se fatto bene e si riesce a venderlo bene forse la cosa può andare avanti ed è probabilmente la situazione dei molti "antropologi" che operano nell'ambito in Italia fuori dalle Università. Proporre progetti, chiedere soldi e fare qualcosa. Pochi comunque.
Salve, vorrei portare la mia testimonianza nella discussione: sono un laureato in Beni Demo Etno Antropologici e Ambientali, sei anni fa, grazie a questa laurea ho costituito una cooperativa con due colleghe; una del mio stesso ambito e l'altra del settore Storico-Artisctico-Archeologico. Da allora lavoriamo proprio nel settore della ricerca per quanto concerne i Beni Culturali, della progettazione della didattica museale, dell’allestimento museologico e musografico, della gestione museale e anche nella ricerca, nello specifico, proprio dei Beni DEAA. Ovviamente non è per niente facile...Il lavoro, paradossalmente c'è, ed è tanto ma i fondi sono pochi e la concorrenza è alta.
RispondiEliminaSono d'accordo su alcune osservazioni dei post precedenti: in Italia la figura dell'Antropologo Culturale o del ricercatore DEA non è molto nota anche perché sino a "ieri" era un laureato in Lettere...Per lo stesso motivo troviamo molta concorrenza proprio perché ci sono figure professionali affini che però esistono da più tempo e quindi sono più note. La differenza nel lavoro svolto sta però nella differenza dello "sguardo" che l'etnoantropologo ha e che può mettere in luce aspetti che per altre figure professionali non sono evidenti. In realtà la figura dell’Antropologo Culturale serve, soprattutto per le possibilità di poter operare a livelli ancora non sperimentati in Italia e che, è da notare, sono molto spesso esplorate da figure come quelle dei Sociologi.
Da parte nostra ci deve essere innanzitutto la volontà di non appendere “l’antropologo al chiodo” e il tentativo da mettere in atto si deve indirizzare al “fare impresa”. Noi abbiamo tutte le conoscenze e le competenze necessarie per poter fare progetti di ricerca e portali nel mondo reale, è ovvio che per fare questo dobbiamo acquisire anche altre competenze e conoscenze e questo lo si fa attraverso la formazione continua, attraverso corsi di aggiornamento, riqualificazione, workshop e quant’altro.
Quello che fate voi è molto interessante.. presentare progetti o creare forme associaztive come quella della cooperativa (o come la nostra associazione) sono però solo un aspetto della questione... perchè la concorrenza che dici tu oggi è prevalentemente di persone senza formazione.. ci sono sicuramente altri laureati in antropologia che una volta finita l'università si sbattono per provare a lavorare da ciò che hanno studiato.. qualcuno lo fa associandosi e qualcun altro lo fa come libero professionista..
RispondiEliminama sono comunque solo tentativi individuali che non cambiano di una virgola lo stato delle cose..
quello che voglio dire è che se non iniziamo a ragionare come "categoria" (se vi viene in mente una parola meno schifosa fatevi avanti..) continueremo a vivacchiar, a dirci di fare altro o di andare all'estero che lì sì...
poi lo so che sarà difficile, perchè non è una cosa che possono fare quattro studenti o ex studenti, perchè non abbiamo nè il potere nè il prestigio di un professore universitario.. ma se non iniziamo a sollevare il problema noi che se ci va bene saremo antropologi "da strada" rischiamo solo di essere sulla strada senza essere antropologi
Ciclicamente l'antropologia culturale si interroga sullo stato dell'arte delle sue teorie. Due anni fa l'American Anthropological Association aveva organizzato un convegno sul tema. Non sono stata io presente, ma certamente la disciplina, abbiamo poi discusso con i partecipanti, si sta interrogando sulle ricadute pratiche che i suoi lavori possono avere. Purtroppo l'Italia, pensiamo io ed altri neolaureati o dottorandi, sta scontando una crisi economica in cui le competenze di questo genere non vengono nemmeno considerate. Ma basta pensare a quanta ignoranza (lo dico senza giudizio) c'è già da tempo, da sempre, nei confronti di questa disciplina: chi non ha mai dovuto spiegare che studiare antropologia non è scavare ossa? Ci sono città e realtà felici, come la mia, Torino, dove tutto sommato ci sono alcune isole felici (centri di ascolto dove lavorano etnopsichiatri, cooperative e terzo settore sensibili all'approccio, istituti di ricerca che contemplano l'assunzione o anche solo la collaborazione con dottori di ricerca e giovani studenti in antropologia culturale), ma sono pochi. E ora si aggiunge anche il dover fare i conti con la mancanza di fondi. Ultimo, ma non meno importante, la nostra disciplina non ha le caratteristiche della scienza politica o della sociologia: non dà risposte, raramente si può dire orientata al problem solving o avere quelle caratteristiche che la possono rendere appetibile per istituzioni e policy makers in generale. Pone questioni, analizza situazioni da molti ambiti anche accademici considerati inutili e superflui ma non fornisce soluzioni. Anzi, a volte espone le difficoltà e basta. Colpa forse dei programmi universitari e dell'impostazione accademica? Forse. Colpa della scarsa cultura e amore per la ricerca in sé per sé? Sicuramente.
RispondiEliminaChiara
Salve a tutti è la prima volta che scrivo.
RispondiEliminaIl tema della discussione è uno dei motivi di conversazione più diffusi tra gli antropologi, studenti o laureati che siano. Proprio quest’ultima mi sembra una considerazione da approfondire. Che il laureato disoccupato si lamenti mi sembra normale, meno normale mi appaiono le lamentele da parte degli studenti, anche di quelli ai primi anni. E’ come se ci s’iscriva ad un corso di antropologia convinti di fare una scelta più passionale che lavorativa e che col proseguire degli studi ci si convinca sempre più di non avere sbocchi professionali come antropologi, il che è anche un dato di fatto. Ma, giacché l’antropologia italiana non è nata ieri, mi sembra che sia necessario interrogarsi su di noi, sull’accademia e sui fondamenti della disciplina, altrimenti è inutile vantarsi della famosa postura riflessiva dell’antropologo.
L’università è un disastro, pochi fondi e lotte interne nei dipartimenti ecc. Il problema è che ciò spesso peggiora l’offerta formativa. La domanda posta è giusta “chi può dirsi antropologo?” bisognerebbe aggiungere una domanda su cosa faccia l’antropologia!
Negli interventi leggo che l’antropologia non da risposte ma pone problemi, oppure che lo scarto con le altre discipline sociali sta nello sguardo "differente". Tutto vero, ma pensiamo al fatto che la riflessività critica non è una peculiarità solo dell’antropologia, essa è una prerogativa della crisi della modernità, del paradigma della complessità ecc.
La realtà è un inconoscibile, però per sopravvivere dobbiamo costruire un reale (alla Piaget) direi. Bisogna accordarsi sui modelli rappresentativi e sui metodi di costruzione di questi. La domanda che si aggiunge è: quale modello vogliamo e quali metodi per costruirlo? Se il metodo è l’analisi qualitativa, pensiamo però che sociologi, psicologi, architetti economisti, politologi ecc. la usano quanto noi, quindi non siamo depositari di un metodo, esso non ci qualifica. Se pensiamo che la formazione ci abbia dato una sorta di magica capacità di stabilire in prima persona relazioni sociali e di vivere una cultura altra (la magia di Malinowski per capirsi), rileggiamo i suoi diari e poi riflettiamo sul fatto che oggi architetti e psicologi fanno osservazione partecipante quasi quanto noi con modi di “vedere” diversi ma non meno efficaci al loro scopo.
Nel mio corso universitario non si sono fatti né si fanno esami di metodologia e i ricercatori non se ne occupano. Allo stesso modo poco e male si tocca l’antropologia applicata. Lo dico da ex Sapienza, dove fino a 3 anni fa venivano da tutt’Italia a fare antropologia. Riflettiamo sul livello della nostra formazione e se questo ci da gli strumenti adatti per rispondere al mercato del lavoro. Riflettiamo sull’importanza di cercare collaborazioni con atri professionisti delle scienze sociali. Non è vero che ci sono solo cani a fare sviluppo e intanto come antropologi non siamo formati per farlo!
E’ possibile fare concretamente qualcosa? Chiede Alessandro. Lancio la mia esperienza. Con alcuni tra antropologi, sociologi ed esperti di cooperazione e sviluppo abbiamo rianimato un’associazione già esistente a Roma che si chiama “Labor ACT Onlus”. Siamo all’inizio del cammino, presto speriamo di avere pronto un sito, da ieri è attiva la pagina di facebook che porta il nome dell’associazione. E’ molto difficile iniziare, ma soprattutto bisogna fare rete, per cui salutando tutti vi invito a rimanere in contatto qui e altrove.
Scusate se mi sono dilungato!
Marco
Interessante dibattito. Bisogna però porsi due problemi, il primo è sicuramente quello degli ordini professionali, una notoria iattura in Italia, in genere strutture sorte durante il Fascismo (quello originale), come per esempio l'ordine dei giornalisti, con scopo di controllo e che dopo il 1945 hanno cambiato nome, ma non funzione. Altro "scopo" degli ordini professionali è limitare la concorrenza. E qui sta il bello la concorrenza non degli improvvisati, amateurs o generici, ma degli aventi titolo più giovani. L'esempio più classico è stato quello dell'albo dei geometri (ma anche gli avvocati e i notai non scherzano) che usavano l'esame di stato per creare una barriera gerontocratica e familista e avere forza lavoro semigratuita (i praticanti). Per sanare lo scandalo oggi in molte professioni l'esame "abilitante" non è più fatto dagli iscritti all'ordine, ma dallo stato. Avendo fatto parte per 20 anni di commissioni statali per l'iscrizione all'albo dei periti, potrei dilungarmi sulla nequizia di tale ordalia, ma chiunque abbia fatto esami e concorsi può averne una pallida idea. Sono contraria al sadismo on-line!! Un altro problema degli ordini professionali è che sono praticamente inesistenti (almeno come tipo di normativa) in Europa e l'Italia ha già parecchie procedure di infrazione per non aver "abolito/europeizzato" gli ordini (soprattutto a causa della potentissima lobby dei notai). Fare un altro ordine, anche se capisco le motivazioni, non mi pare una bella idea, solo una sanatoria. Infatti l'idea migliore sarebbe avere lauree "abilitanti", ma visto la laurea e l'accademia italiana, Dio mi scampi. Ci sarebbe poi il problema del valore legale del titolo di studio che in Italia impedisce la chiamata alla cattedra per merito acquisito, ma questa è un'altra storia.
RispondiEliminaL'altro punto da prendere in considerazione per difendere il valore di una preparazione professionale ( e perciò scientifica) dell'antropologia è (come in ogni romanzo giallo che si rispetti) seguire la pista dei soldi. L'antropologia in Italia è stata di fatto ceduta in monopolio alla chiesa cattolica fin dai tempi delle colonie e la cosa ebbe un boom dopo i Patti Lateranensi. L'epoca postcoloniale, dove l'Italia aveva in "carico" le sue ex colonie, essendo legata alla geopolitica della guerra fredda, ha sempre visto preti e suore in prima fila. E oggi la gestione dell'immigrazione è di fatto ceduta in toto alla Caritas! Le altre associazioni subiscono "l'esame abilitante" delle gerarchie ecclesiastiche se vogliono operare con le istituzioni statali e locali. Poiché l'Italia è l'unico paese occidentale dove il volontariato è pagato ed è fonte di reddito, è ovvio che la torta è molto ricca e che il controllo dell'ortodossia degli operatori è fondamentale. Basta pensare che i 20 profughi appena inviati nella Bassa Padovana hanno ben 34 associazioni che se ne occupano. 34 ASSOCIAZIONI PER 20 PERSONE!! supponiamo dieci operatori per associazione sono 340/20. Alla faccia della torta!
Secondo me per avere una possibilità bisogna sfilare il malloppo e il monopolio alle associazioni religiose o parareligiose, la cui agenda è stabilita da uno stato estero non facente parte della UE e neppure dell'ONU. NON sarà facile tagliarli le unghiette, ma è l'unica possibilità per gli antropologi di avere un futuro professionale non clientelare.
Flavia
L'idea dell'ordine professionale è stato solo il punto di partenza... ti invito a seguire il dibattito oltre che su questo blog anche sul forum di Anthropos http://www.antrocom.it/MDForum-viewtopic-t-1000.html
RispondiEliminaSu quello che scrivi sono d'accordo solo in parte.. è vero che la chiesa cattolica abbia le mani in pasta un po' ovunque ma l'antropologia, almeno in Italia, mi sembra si sia abbastanza secolarizzata.. se non altro vuoi per l'importanza di Gramsci durante gli anni 60 e 70. comunque sono assolutamente d'accordo su quello che dici a proposito degli ordini professionali come vere e proprie caste..
ma senza l'unione ognuno da questa torta non farà altro che prendersi pochi spiccioli.. per riuscire a riprenderci tutta la refurtiva dobbiamo unirci... iniziamo a pensare come
Leggendo questo interessante articolo e dibattito ho una domanda (da pura profana dell'antropologia).
RispondiEliminaSto leggendo dei saggi sull'influenza della pubblicità e si parla (sono studi statunitensi) della ricerca antropologica applicata alle ricerche di mercato: si tratta di un passo in avanti, "scientifico", del marketing che con essa entra nelle case delle persone e le osserva, per ricavarne elementi utili per il successivo "confezionamento" dei messaggi pubblicitari. Questo tipo di ricerca è ritenuta molto efficace perché riesce a ottenere dati diretti e più ampi rispetto alle ricerche classiche (interviste e sondaggi).
A questo punto (dopo queste righe su cose che voi saprete già!), la mia domanda è: a che punto è in Italia il rapporto marketing-antropologia? Gli psicologi e i filosofi sono figure professionali che lavorano spesso in questi campi. E gli antropologi?
E se ci fossero prospettive lavorative, quanto ritenete "etico" mettere la scienza "al soldo" del mercato?
Grazie in anticipo, sono curiosa di leggere le vostre osservazioni!
L'argomento è molto complesso.. personalmente non lo farei, come non andrei a fare l'antropologo nell'esercito..
RispondiEliminama questa è la mia posizione personale ed è dettata da un forte conflitto etico: il mercato è uno squalo e insegnargli come mordere meglio non è una cosa che mi interessa...
però diverso è il discorso sulle possibilità occupazionali legate all'antropologia.. queste vanno molto aldilà delle mie o nostre posizioni etiche... insomma, come disse Churchill quando fu avvisato della sconfittà elettorale nel 1945 "È proprio perché questi eventi possano continuare ad accadere che abbiamo combattuto la guerra! Ora passami l'asciugamano!"
L'anropologia serve tanto ma tanto tanto soprattutto in un paese dove si sentono tutti antropologi e pochi lo sono e per pochi non si intende chi si è conquistata la parcella accademica. ci sono ntropologi che possono operare nel settore dei musei, media, comuni ecc!d'altronde sono pochi rispeto gli storici dell'alrte, i sociologi o i tanto desiderati informatici(adesso ci sono anche loro che saccheggiano!)
RispondiEliminaNon ascoltate chi dice di andare all'estero!troppo comodo lasciare la poltroncina a pochi. bisogna combattere! conquistare un albo. fare associazioni cooperative! azioni volte alla conoscenza e divulgaazione dei nostri saperi. cercare alleanze internazionali per affermarsi in Italia. Mai abbandonare il campo se non momentaneamente per poi ritornarvi e ripeto selezionare profondamente anche gli appoggi delgi accademici. ci sono prof. nelle università che appoggiano anche chi non continua lì accademia o chi non se la sente di leccare e.. e altri invece che si sentono grandi dei e appoggiano solo i loro pupillini
Perchè mettere in discussione anche le pratiche metodologiche? mi sembra che la psicologia, la sociologia e il giornalismo abbiano altre metodologie!capisco che l'antropologia sia molto interessante per loro ma che facciano il loro o che imparino a collaborare con gli antropologi piuttosto che saccheggiare! chi purtroppo non ha avuto la fortuna di imparare le tecniche metodologiche CHE DIRE?che lo faccia!
RispondiEliminaPerchè pagare e assegnare cattedre di antropologia nei licei linguistici a sociologi o psicologi? quanti esami di antropologia hanno sostenuto? a quale pro loro possono insegnare e antropologi no?
RispondiEliminaA quale titolo finanziano progetti antropologici ad ammanicati ?(qualcuno anche sostenuto da qualche antropologo che si contenta delle sue briciole quotidiane: corrotto e nemico della nostra amata disciplina!)!
RispondiEliminaCOmbattiamo non diamolgiela vinta! troppe ingiustizie!
Tutti che parlano dell'antropologia senza nè arte nè parte! l'altro giorno ho dovuto litigare persino con un informatico ! ma se io sono un medico cosa ne posso capire del lavoro di un notaio? se io sono informatico che ne posso sapere cosa fa un antropologo! che ignoranza :penso che certa gente se non fosse stata raccomandata neanche in un gregge di pecore avrebbe lavorato!
RispondiEliminacome mai ci sono antropologi che si spostano in europa e fuori europa e lì lavorano e in Italia no? e questo vi fa pensare che quindi tutti i giovani antropologi dovrebbero lasciare il campo a chi lo consiglia? risposta sbagliata cari miei vi daremo filo da torcere!
RispondiEliminaE che sia ben chiaro: dopo una lunga serie di ricerche italiane ci risulta che ci sono università molto valide con prof molto validi che hanno preso particolarmente a cuore la situazione degli antropologi non collocati nelle baraonde accademiche e ringraziamo chi come costoro si batte e continua a battersi per i nostri diritti. diversamente ci sono persone (che magari non erano neanche antropologi) che occupano immeritamente cattedre in alcune università e non favoriscono il lavoro degli antropologi fuori accademia.. perchè immeritatamente? ve lo racconterò alla prossima puntata. sono anni che raccolgo testimonianze e fatti e prove a proposito di ciò.. e spero questo possa servire per affermare i diritti degli antropologi senza raccomandazioni o senza soldi!p.s.: e ricordiamo a chi dice di andare all'estero che purtroppo anche per partire ci servono i soldi quindi è sempre da qui che dobbiamo partire!
RispondiEliminaL'antropologia è analisi
RispondiEliminaRivendico l'approccio analitico dell'antropologia. Un tempo retaggio degli scienziati sociali,questa pratica laica è stat scippata dall'ordine degli psicologi con la legge 56/89 detta legge Ossicini. La cosa imbarazzante fu che Il deputato Ossicini stesore e relatore della legge, era uno psicologo, e il suo mentore un certo Cesare Musatti ( filosofo ) massima autorità della psicoanalisi in Italia al'epoca dei fatti. Il Problema è che i professori pensano a viaggiare, magari pensando di poter dire qualcosa di originale dopo Levi Strauss o De MArtino, mentre l'antropologia applicata langue nel buio piu totale, schiacciata da potentati che hanno saputo meglio rappresentare una loro speculare versione delle cose. Buone cose Colleghi
massimo_montaldi@yahoo.it
ciao, sto cercano studenti, docenti, dottorandi che intendano collaborare ad una ricerca sulla divulgazione e l'esposizione mediatica dell'antropologia. se la cosa può interessarvi e volete saperne di più contattatemi comunicareantropologia@yahoo.it ciao a tutti
RispondiEliminaMatteo
Salve vorrei condividere la mia esperienza perche sento che questo dibattito è necessario se vogliamo che le cose (un giorno magari...) cambino. Dopo essermi laureata in Antropologia (triennale e specialistica), ho provato un vuoto professionale...Nonostante i numerosi tirocini, le ricerche sul campo, i periodi passati all'estero,e sopratutto la mia passione per questa disciplina e la mia fiducia rispetto a quello che può apportare alla società se utilizzata in maniera 'etica', ho sentito di non avere gli strumenti per fare nulla di concreto nel mondo lavorativo. Devo dire che confrontandomi con laureati in altre discipline, la sensazione non era molto diversa, cioè sono arrivata a chiedermi se il nostro problema non sia infatti generale: l'università italiana non prepara per il mondo lavorativo e ci costringe ad aumentare sempre di piu gli anni di formazione, per esempio con i master, per 'in teoria' essere piu competitivi nel mercato del lavoro (tra parentesi: io odio l'idea di dover competere per vivere felice...ma in pratica la competizione è diventata il falso midollo di questa società in rovina in cui viviamo!). Ora tutti possono fare tutto e non c'è differenziazione sociale, che io ritengo necessaria per il mantenimento di un sistema sociale complesso. Cosi anche i percorsi formativi diventanot anto eterogenei che effettivamente può essere ambiguo definire chi e chi e chi fa cosa...Questo detto, ammetto che mi da rabbia sentire persone che non hanno una formazione riconosciuta in antropologia, e dicono di essere antropologi...è come se un giorno io mi alzassi e dicessi che sono psicologa (perche faccio una ricerca di antropologia cognitiva), o fisioterapista (perche lavoro con il corpo tutti i giorni), o insegnante di letteratura inglese (perche parlo inglese) o magari nutrizionista (perche mi piace mangiare sano)!! è assurdo!
RispondiEliminaIo mi occupo di antropologia della danza e per sviluppare questo profilo io mi sono trasferita in inghilterra e ho continuato la mia formazione e la mia ricerca in degli enti (universita) dove il mio lavoro è stato supervisionato, commentato criticato, condiviso, giudicato.. Poi sento di persone che perchè hanno passato alcuni mesi in India si dicono etno-coreologi o perche fanno una intervista ad un immigrato, sono esperti interculturali, o perche si sono letti de martino, sono folkloristi. O perche suonano il tamburello (sono salentina...quindi sta situazione la sento molto vicina!) si dicono etnomusicologi. Magari hanno studiato pedagogia, o giurisprudenza, o magari non hanno studiato proprio.
RispondiEliminaAllora condivido pienamente l'idea che dobbiamo difendere il nostro profino professionale..attraverso un albo per esempio. Pero poi mi guardo intorno e mi rendo conto che il problema, come dicevo, è molto piu profondo. C'è sempre meno bisogno di lavoro umano e sempre piu individui preparati per lavorare. Si viene formati per fare dei lavori specifici, ma nel mondo lavorativo, ci si chiede di fare sempre un po di tutto (specialmente nell'ambito umanistico). Non voglio suonare anti-democratica, ma credo che ci dovrebbe essere piu differenziazione alla base (ovviamente non basata sul potere economico, ma sulle capacità, in questo caso intellettuali!). Ora tutti hanno una laurea triennale, una specialistica e un dottorato (e non importa i risultati che hai ottenuto nè quanto tempo ci hai impiegato..insomma se sei madre lingua e hai una terza media hai piu possibilita di avere un contratto a progetto, di uno con un dottorato in letteratura e lingua e magari con una formazione in pedagogia delle lingue). Questa è una società che si sta autodistruggendo...sotto la scusa dell'uguaglianza (falsa...perche l'uguaglianza si basa sul riconoscimento della differenza) e della democrazia (falsa... perche siamo sempre piu alla merce di pochi). Concludo dicendo che bisogna cominciare una lotta 'intelletuale' in cui noi antropologi rivendichiamo il nostro diritto ad essere riconosciuti per quello che siamo. Sono convinta che lentamente questo cambiamento potrebbe avvenire.
Sono uno storico dell´arte e anche questa disciplina e´trattata allo stesso modo, in quanto a "cialtroneria"...se in antropologia molte figure non accademiche si sono succedute e hanno documentato, seppur senza una visione di studio, nell´ambito dell´antropologia, anche la storia dell'arte e´stata ed e´preda degli amatori, che non vengono distinti dai "professionisti", in quanto l´ignoranza della materia non permette ai piu´di notare la differenza, mentre la storia dell´arte e' portatrice di una sua propria metodica "scientifica" (e anche piu´di una, a seconda delle correnti storiografiche, ovviamente) e di un background di cui tenere conto. Il nostro Paese snobba parecchio le discipline umanistiche...perdendo chiaramente i benefici di un popolo che indaga se stesso e perdendo l´occasione di crescere davvero. Quello che si puo´fare e´far valere il peso culturale di una o piu´generazioni di studenti e aspiranti ricercatori/studiosi/professionisti per ottenere sia a livello legislativo, ma soprattutto a livello culturale, cioe´di comprensione collettiva, della propria professionalita', in primis non rinunciando a dirsi antropolgi, storici dell´arte e altro...forse partire dall´associazionismo interdisciplinare, poiche´si condividono le medesime problematiche e poiche´la cultura e´di per se stessa interdisciplinare, e´il primo gradino...in secondo luogo, non bisognerebbe "rinunciare" ad un po´di aggressivita´...ovvero porsi con determinazione e autodeterminazione.
RispondiEliminaRagazzi, in verità vi dico (chi si ricorda chi iniziava in questo modo), se facciamo una analisi sociologica ci rendiamo conto che la laurea in antropologia, sul mercato italiano, è svalutata. Svalutazione? Che significa? Che non ha mercato. Dunque, dovreste fare come fanno i colleghi all'estero. Prima di scegliere un corso di studi informatevi sul mercato del lavoro. In questo modo sapreste cosa vi aspetta. Una volta conosciuta la situazione si va avanti o si cambia indirizzo, o si è disposti ad emigrare. In Inghilterra l'unico utilizzo degli antropologi è nel settore ricerca e quello del marketing. L'antropologia dello sviluppo? Ragazzi soltanto i grandi organismi (ONU e affini) hanno il potere di pagare un antropologo che tenti di stimare se il progetto della banca mondiale possiede ricadute negative sulla tal popolazioni. Insomma progetti ci sono, ma pochi e per pochi eletti, per esempio per i vostri professori, che non se li faranno sfuggire :)
RispondiEliminaMi dispiace ma bisogna considerare che dietro il romanticismo, l'amore per Levi-Strauss o De Martino, ci sono le ricerche di mercato che svelano l'impossibilità di lavorare (80 %) per i laureati in antropologia. Ma allora? Rimane l'investimento culturale, e forse un ulteriore master in scienze applicabili all'economia, o un internship chissà dove, non pagato, fino a quando non ti prendono per il tanto agognato volontariato alle nazioni unite. Oh no, scusate, c'è anche il dottorato, magari in Italia, in cui si spera che il docente muoia presto così gli prendiamo il posto!
Aiai, ragazzi miei, questa è la realtà! Eh ma poi, in fondo, il professore lo possiamo pure ammazzare noi no? :P
Lorenzo