Considerate la luce. I risultati sperimentali dicono che per essa vale il principio di complementarietà: essa si comporta cioè sia come onda che come particella. Cosa vuol dire non sto qui a spiegarvelo, anche perché prima lo dovrei capire io.
La cosa interessante sta negli esperimenti che hanno permesso di arrivare a questa verità oggi scientificamente acquisita.
Questo video è di quelli for dummies e spiega in termini semplici (e soprattutto senza equazioni) l’esperimento e la sua interessante conclusione: se osservate le particelle produrranno un effetto differente rispetto a quello ottenuto se non osservate. Lasciate perdere i riferimenti che il video fa ad una sorta di ‘volontà’ dell’elettrone, che sembra, secondo le parole che vengono usate, accorgersi dell’osservatore. Il fatto è che
per vedere l’elettrone dovete fargli qualcosa, ad esempio illuminarlo, cioè colpirlo con dei fotoni. A scale ordinarie i fotoni sono piccole sonde trascurabili che rimbalzano su alberi, quadri e uomini senza sostanzialmente modificare lo stato di moto di questi grandi agglomerati di materia. Ma gli elettroni sono anch’essi piccoli. Per quanto siate cauti nel controllare la fenditura dal quale un elettrone è uscito, lo colpirete con fotoni che alterano il suo moto successivo, e questo cambia i risultati dell’esperimento (Greene 2003: 94).
In sostanza quindi possiamo dire che la presenza di un osservatore produce un’interferenza con il fenomeno da osservare.
Ora riportate questa riflessione nell’ambito del dibattito antropologico.
In un suo interessantissimo saggio Leonardo Piasere (2009) racconta alcune sue esperienze di ricerca tra gli zingari e indica gli approcci metodologici seguiti nell’approcciarsi allo studio della loro cultura.
La prima ricerca è stata condotta con un approccio oggettivista, “che dice che la realtà c’è, è li fuori da te, sta a te scoprirla e scoprirne le leggi e le riposta; che dice che la realtà è sempre quella e non muta al variare dell’osservatore” (ivi: 69).
La sua seconda ricerca ha seguito invece il metodo dell’etnoscienza che cerca di studiare “il modo o i modi di conoscere di una popolazione, partendo dalle categorie che essa si forgiava […], di vedere il mondo con gli occhi dell’indigeno” (ivi: 71).
Pur con enormi differenze concettuali entrambi i metodi, almeno nel resoconto del loro utilizzo che ne fa Piasere, hanno portato al medesimo risultato: la sparizione, nei testi etnografici frutto di quelle esperienze, della figura dell’antropologo, come se il fatto stesso di essere o meno presente sul campo come osservatore non avesse il minimo effetto sulle dinamiche culturali in atto.
Oggi sappiamo che non è così. Le intuizioni di Geertz hanno aperto la strada ad un nuovo modo di fare etnografia. Questa è prima di tutto l’incontro tra due figure (il ricercatore e l’informatore) che costruiscono dialogicamente un orizzonte condiviso che influenzerà in maniera determinante l’esito della ricerca e le possibilità di conoscenza.
Pensare che la realtà esista in maniera assolutamente oggettiva indipendentemente da noi che la guardiamo non ha alcun senso: noi siamo presenti sul campo e volenti o nolenti costituiamo un elemento nuovo che crea equilibri nuovi; pretendere di ‘guardare il mondo con gli occhi del nativo’ è altrettanto illusorio perché noi NON siamo il nativo, NON siamo dei soggetti privi di schemi culturali che possono assorbire senza problemi i dettami culturali di altri popoli.
E allora rassegnamoci al fatto che la ricerca etnografica funziona grossomodo come gli esperimenti sul fascio di elettroni: il fenomeno osservato è differente da quello non osservato, perché l’azione stessa dell’osservazione cambia il terreno in cui il fenomeno si manifesta.
Alessandro Pisano
Bibliografia
Greene B.
2003 L’universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la ricerca della teoria ultima, Torino, Einaudi (ed. or. 1999, The elegant universe. Superstrings, hidden dimensions, and the quest for the ultimate theory).
Piasere L.
2009 “L’etnografia come esperienza”, in Vivere l’etnografia, a cura di F. Cappelletto, Firenze, SEID, pp. 65-95.
Le osservazioni riportate nell’articolo non mi giungono nuove e mi fanno molto piacere. Mostrano che uno “Scienziato” non è soltanto il ricercatore delle cosiddette “scienze dure” e che uno Scienziato Umanista deve e può conoscere anche settori come la fisica, la fisica delle particelle, ecc. Condivido appieno ciò che è stato scritto e vorrei riportare una riflessione da me fatta in sede di tesi di Laurea, con relativa bibliografia, per poter dar modo a chi è interessato di andare a leggere e documentarsi su alcune riflessioni sull’argomento, fatte dai nostri ricercatori come Ugo Fabietti o Antonino Buttitta, soltanto per citarne due tra i più noti.
RispondiElimina6.4 - Riflessioni sul rapporto osservatore/osservato.
Il situarsi all’interno di una prospettiva e di un paradigma può cambiare il risultato di una ricerca.
Il paradigma empirico-positivista afferma che le procedure di misurazione non influenzano ciò che è misurato, che l’atto dell’osservare, cioè, non influisce né influenza ciò che viene osservato. Il principio di indeterminazione, enunciato nel 1926 da W. Heisenberg, confuta invece questa affermazione poiché a causa delle interazioni quantistiche le misurazioni che si effettuano modificano la posizione della famosa particella1.
Secondo il paradigma naturalistico-relativista, invece, niente può essere misurato senza essere modificato; l’osservatore e l’atto di osservare modificano ciò che viene osservato. Ma non basta, infatti ciò che si modifica non è soltanto l’osservato ma anche chi osserva, costruendo quel “mondo <>” di “significati culturali condivisi” che sta “in mezzo ai due”2.
[…] In questo lavoro il ricercatore ricopre il duplice ruolo di osservatore e osservato, è cioè da una parte colui che fa ricerca su una tradizione popolare di un paese e di una cultura, cercando di mantenere una prospettiva obbiettiva su ciò che osserva e dall’altra è anche uno degli informatori che fa parte di quello stesso paese e di quella cultura.
Le informazioni documentate sono originate perciò dal dialogo e confronto con le altre persone e da un percorso di autoriflessione di ciò che conosce e ricorda di alcuni fatti accaduti.[…]. Se è vero che uno strumento della ricerca antropologica è il dialogo e che gli antropologi cercano di capire i locali e questi i primi, in questo lavoro si è costruito insieme, osservatore ed osservato, una nuova prospettiva che ha approfondito la conoscenza di un fatto culturale condiviso da entrambi. Ne nasce così una nuova comprensione del mondo, anche del proprio mondo. Anche questo è un modo di costruire umanità.
Giuseppe Spano
note:
Tradotto in termini antropologici, il fatto stesso che in quel momento e in quel luogo, una persona, il ricercatore nel nostro caso, interagisca con un’altra persona, “l’osservato” o meglio “l’informatore”, produce una modificazione nel “modo di fare”, di porsi della persona altra che non è neutro. Questo fatto a sua volta produce un feedback di risposta che va ad incidere sull’osservatore stesso. In conclusione il rapporto tra ricercatore e informatore produce una modifica del fatto che si vuole osservare.
2 Fabietti U., Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 1999, pag. 43 e sgg.
bibliografia
Buttitta I.E., La memoria lunga, Roma, Meltemi, 2002.
Buttitta A., Miceli S., Percorsi simbolici, Palermo, S.F. Flaccovio Editore, 1989.
Fabietti U., Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 1999.
Fabietti U., Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 2000.
Gadamer H.G., Il movimento fenomenologico, Bari, Laterza, 1994, pag. 7.
Spano G., L’intrecciatura della palma per la Domenica delle Palme a Codrongianus tra gli anni 1970/75 e il 2000, Tesi di laurea, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici e Ambientali, a.a. 2003-2004, rell. Satta M.M. e Atzori M.
½G½=( GG*)1/2 = ( A 2+ B 2)1/2 = Ö A 2+ B 2
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