Lo stato nazionale è una costruzione politica, economica e socio-culturale. È, ritengo, abbastanza valido il celebre aforisma attribuito al linguista yiddish Max Weinreich – che avrebbe sentito in una conversazione privata – secondo cui «una lingua è un dialetto che possiede un esercito, una marina ed un'aviazione» (1945: 13). Si crea un ente il quale poi può anche divenire lo Stato hegeliano, sopra il cittadino, che è, comunque, una produzione culturale e non un esserci a priori. I confini, le frontiere – che l'antropologia non manca mai di scavalcare da una parte all'altra – sono costruzioni geometriche, o barriere naturali definite sulla base di esigenze contingenti. Ho visto Real Madrid-Barcellona. Le interpretazioni che uno può dare del calcio sono diverse: 22 ragazzi con omosessualità latente che inseguono un testicolo idolatrato come feticcio; un rito che ricalca il calendario agropastorale; l'internazionalizzazione marxista e/o la globalizzazione capitalista; spettacolo estetico; solitudini di portieri brisiliani del 1950 (cfr Soriano 2006), o 5 poesie sublimi (Saba 1945), o una raccolta di racconti (Hornby 2006) o «un linguaggio coi suoi poeti e prosatori» (Pasolini 1999). Io, in ogni caso, sono ossessionato dal concetto culturale di derby o di "classico". E Real-Barcellona è un "clásico". Due storie diverse, due bacini di fruizione diversi. C'è chi ha detto che il Barça è l'istituzione catalana più conosciuta al mondo. Non è un caso che – insieme a diversi e numerosi altri aspetti e simboli, naturalmente – contribuisce alle dinamiche riguardanti la catalanità, a cominciare dall'inno, in catalano, per finire alla simbolica vittoria extra calcistica, ma totalmente sociale e culturale, di una partita di calcio col Madrid; che contiene, a volte, più di quanto si pensi. Spesso una squadra, che però è qualcosa di più che una semplice società sportiva, si fa portavoce di un'identità (Celtic vs Rangers; Boca vs River; Athletic Bilbao per citarne alcune) che trascende lo sport meramente inteso: è un affare di Stato, riconosciuto o meno; è un affare politico, sociale: è un affare culturale. Sono due culture che si affermano. La castiglianità, l'accentramento, gli echi franchisti ancora presenti sul simbolo (cfr Salvi e Savorelli 2008) – e i simboli hanno le loro menzogne e verità – contro la catalanità, la pretesa romantica di esserci-nel-mondo, l'Ode alla Catalogna e la repubblica e la bandiera catalana con la croce di Sant Jordi – libri e rose per Shakespeare e Cervantes (http://www.gencat.cat/catalunya/santjordi/cas/index.htm).
Il Celtic, la working class, gli emigrati per eccellenza, quelli che effettivamente hanno portato la croce, i celti (quelli "veri", stavolta) contro i ricchi, gli indigeni civilizzati, quelli angli e sassoni e fedeli alla corona (cfr Bruce 1998). Eccoci di fronte a un altro, che esiste, ma i cui simboli sono definitivamente altri, portatori di valori, di cultura e storia e, perché no, di arte, come quella dei culés:
i primi tifosi [del Barcellona], particolarmente parsimoniosi, assistevano alle partite della loro squadra arrampicandosi dall'esterno, nemmeno troppo furtivamente, su di un alto muro di cinta del campo di gioco e sedendovisi sopra, offrendo così le loro terga alla visione imbarazzata di chi li osservava dal basso passando per la via che costeggiava il campo (Salvi – Savorelli 2008: 144).
Domenico Branca
BIBLIOGRAFIA
BRUCE S.
1998 Conservative Protestant Politics, Oxford University Press, Oxford.
HORNBY N.
2006 Il mio anno preferito, collana Narratori della fenice, Guanda, 2006.
PASOLINI P. P.
1999 Saggi sulla letteratura e sull’arte, Meridiani Mondadori, Milano.
SABA U.
1945 Goal (1940-1947), Firenze, S.E.
SALVI S. - SAVORELLI A.
2008 Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione, Firenze, Le Lettere.
SORIANO O.
2006 Fútbol. Storie di calcio, Milano, Einaudi.
WEINREICH M.
1945 "Der YIVO un di problemen fun undzer tsayt",in YIVO Bletter, vol. 25 nr. 1, (Jan-Feb 1945, p.13).
http://www.gencat.cat/catalunya/santjordi/cas/index.htm, consultato il 29 aprile 2011.
Il calcio con tutte le sue implicazioni antropologiche e come fenomeno sociale è un argomento che mi appassiona moltissimo, tanto che nel 2005, quando iniziavo i miei studi universitari in antropologia, avevo realizzato una breve ricerca sulla squadra della mia città: la Sassari Torres.
RispondiEliminaEssendo un esercizio per il corso di etnomusicologia, mi ero concentrata su quello che è considerato l’inno della squadra, pur non essendo in realtà quello ufficiale: 'Fozza Torres' del Trio Lattedolce (o Trio Folk Lattidozzi, come spesso amiamo chiamarlo noi sassaresi). Ciò che mi proponevo era di capire perché lo sport può diventare così coinvolgente da ispirare una creazione artistica, quale è una canzone e perché una canto di questo tipo (diciamo “da stadio”) può essere considerato etnico.
Mi ritrovo pienamente nelle tue interessanti considerazioni. Allo sport è stata riconosciuta l’importanza di favorire la coesione nelle moderne società complesse e per questo è stato istituzionalizzato dallo Stato nazionale: lo sport di massa ha dimostrato di stimolare un meccanismo che promuove l’unità politica e il patriottismo. Il calcio è sport nazionale in molti Stati (come in Italia) e più di ogni altro sport è motore di tutti questi processi di coesione sociale e d’identificazione culturale, perché è lo sport più seguito al mondo. Il campionato, sia cittadino che nazionale, unifica gruppi socio-economici diversi e geograficamente distanti. Anche il giro d’affari, come sappiamo, è pazzesco.
Come accennavi tu Domenico, molte le teorizzazioni sul calcio:1)Per l’antropologo Desmond Morris il calcio è un’attività di pseudo - caccia e anche il sociologo Sabino Acquaviva sostiene questa tesi: nella caccia sono presenti sia la componente violenta che quella combattiva, assolutamente evitate nella società contemporanea. Ecco quindi che si ricorre alla caccia per analogia: due squadre tentano di superare la difesa avversaria, che rappresenta l’ostacolo, e di uccidere simbolicamente la preda, calciando la palla, sostituzione di frecce, pietre e così via.2)Secondo il giornalista sportivo Bruno Lubis, esperto anche di tradizioni calcistiche, il calcio allude alla guerra e quindi il gol, più che all’uccisione della preda, corrisponderebbe alla soppressione e umiliazione del nemico-avversario.3)Secondo l’interpretazione del giornalista Gianni Brera, il calcio allude addirittura ad un tentativo di stupro che i portieri tenterebbero di evitare difendendo la porta, rappresentazione simbolica della vagina, mentre gli avversari tentano di profanare a vicenda la parte opposta. Il gol è in quest’ottica uno stupro, una presa violenta ed astuta di possesso. Brera aggiunge che il piacere di giocare a calcio deriverebbe dalla volontà inconscia di rivalutare i piedi, che milioni di anni fa erano le mani posteriori. Quindi ridare alle nostre parti basse la dignità di mani è motivo di esaltazione. Lo stesso si può dire della fronte, pressoché inutilizzata in tutti gli altri sport.4)Infine, Antonio Papa, storico contemporaneo, evidenzia un aspetto sociale: nella seconda metà dell’Ottocento si verificò un considerevole miglioramento del tenore di vita della classe operaia dei lavoratori inglesi, ecco che così nascono nuovi tipi di svago anche per i ceti più bassi della città, conquistati rapidamente dal calcio perché per praticarlo non occorre nessuna particolare attrezzatura né caratteristica fisica.
È quindi per tutte queste ragioni antropologiche, sociologiche, psicologiche e storiche che il calcio è lo sport più amato al mondo e quindi il più capace di mettere in moto tutta una serie di meccanismi, come ho già detto, anche economici, anche se per il tifoso ciò non conta: per la propria squadra prova amore, una passione che può diventare dipendenza e che condivide con gli altri. Ecco perché lo sport può diventare così coinvolgente da ispirare una creazione artistica, come una canzone.
Dopo un’opportuna rilettura critica, a breve spero di poter riportare interamente (seppur sinteticamente) la mia ricerca, con i dovuti riferimenti bibliografici esatti.
purtroppo il calcio è un fenomeno poco studiato dall'antropologia; non sono oggetto di studio ed è un fatto davvero strano, se consideriamo che il calcio (e lo sport in genere) è uno dei fattori più importanti della cultura popolare, addirittura forse superiore alla religione! io sostengo che non si studia perché il solo prenderlo in considerazione rivoluzionerebbe teoria basiche dell'antropologia con conseguente svalutazioni di tante altre che su di esse si sono appoggiate. Penso ad esempio al discusso problema dell'identità. Ad esempio, come giustificare che le più grandi e coinvolgenti manifestazioni popolari spontanee del nostro paese sono state nel 1982 e nel 2006?
RispondiEliminaSono veramente contento, Elisa, perché, come dice Fiorenzo, il calcio è un fenomeno poco studiato dall'antropologia. Sapevo che ti eri interessata alla Torres; comunque molto interessanti le considerazioni che hai citato, qualcosa la conoscevo già, ma altro lo ignoravo completamente ed è stato un arricchimento.
RispondiEliminaOltre le ragioni che dai tu, Fiorenzo, condivisibilissime, penso che ci sia anche un certo snobismo per quanto riguarda lo sport (esistono un sacco di riviste di storia dello sport, molto interessanti) ed il suo studio, soprattutto il calcio. Sarebbe interessante studiare, in effetti, come mai il 1982 e il 2006 sono più conosciute della caduta del muro di Berlino....
Sono Domenico, la tecnologia mi impedisce di rivelare la mia identità.
RispondiEliminaA proposito di questo accostamento della fede religiosa a quella calcistica, sono moltissime le considerazioni antropologiche che potremmo elaborare: una fra tutte, consideriamo che anche il "discorso calcio" mette in moto fortemente tutto il problematico tema dell'identità culturale.
RispondiEliminaNel mio post sul crocefisso, volevo proprio scrivere (per spiegare con semplicità quello che intendevo) che, come fosse un'equazione matematica, il crocefisso sta all'identità religiosa come la bandiera sta all'identità calcistica.
Ritrovo qui la necessità dell'uomo di sentirsi parte di un gruppo e quindi di riconoscersi parte di una (presunta) certa cultura.