C’è una triste pagina dell’antropologia che giace dimenticata negli scaffali delle biblioteche più fornite. Oltre un secolo fa, nel 1904, l’attenzione mondiale si sposta sulla storia di un uomo ormai dimenticato il cui nome è Ota Benga (il nome significa amico).
La storia o forse sarebbe più corretto l’odissea di Ota Benga meglio conosciuto come il “Pigmeo dello Zoo del Bronx” (The Pygmy in the zoo) inizia nel 1904 quando il suo villaggio e la sua famiglia vengono sterminati e orrendamente mutilati da alcuni seguaci della Publiques Force del governo belga. Risparmiato per il solo fatto di non essere presente nel villaggio al momento del massacro venne catturato e venduto come schiavo in un villaggio lontano.
Philips Verner, missionario del Congo, era stato incaricato, sotto la spinta degli studi intrecciati fra darwinismo e antropologia, di fornire un gruppo di pigmei da presentare nell’esposizione Universale di Antropologia che si tenne a St. Louis nel 1904.
Nel marzo del 1904 il missionario Philips Verner scoprì il congolese Ota Benga in un mercato degli schiavi acquistandone la libertà per un chilo di sale e un rotolo di stoffa. Ota Benga venne esposto al museo di St. Louis come rappresentante dei selvaggi.
Nel 1906 fu trasferito nel Bronx Zoo di New York City. Inizialmente il suo compito consisteva nel nutrire e accudire gli animali presenti nello zoo, ma fu la scritta sotto la gabbia “Ota Benga il pigmeo africano” ad attirare l’attenzione dei visitatori e far si che l’eccentrico direttore dello zoo William Thornaday ne facesse un’attrazione primaria e mondiale. Thornaday credeva infatti che gli animali avessero pensieri quasi umani oltre che la stessa personalità, pertanto era convinto che si potessero studiare gli animali più vicini all’uomo attraverso un uomo “con scarsa capacità di apprendimento”. La mostra aveva infatti come obiettivo primario quello di promuovere i concetti contemporanei di evoluzionismo e di razzismo scientifico. L’intento era quello di giustificare la superiorità della razza “bianca” e questa poteva trovare una sua dimostrazione attraverso il concepimento di uno zoo umano.
Ota Benga inizialmente presentato come il vincolo transizionale più vicino all’uomo, fu esibito come un esemplare vivente dei più antichi antenati umani, questo soprattutto grazie ad alcune caratteristiche fisiche dello stesso Ota il quale presentava denti appuntiti “simili a quelli delle belve”.
La mostra divenne immensamente popolare e controversa. La comunità nera venne oltraggiata così come venne osteggiato l’intento della mostra anche da parte della Chiesa che temeva che il popolo si potesse lasciar indottrinare dalle teorie evoluzioniste di Darwin.
Decine di migliaia di visitatori affollavano lo zoo per vedere l’attrazione primaria. Ota Benga venne deriso, sbeffeggiato, schernito dai visitatori. In The Pygmy in the Zoo, si raccontano scene in cui Ota Benga veniva “picchiato, deriso, alcuni visitatori gli facevano lo sgambetto”.
La sua esperienza allo zoo finì quando, costruito un rudimentale arco con le frecce, iniziò a sparare sulla folla di visitatori, lasciando così il parco per sempre.
Dopo la sua esperienza nello zoo diverse istituzioni cercarono di aiutarlo. Inizialmente finì in Virginia in un seminario, lasciando la scuola per andare a lavorare in una fabbrica di tabacco.
La crescente nostalgia di casa fece si che nel 1916 Ota Benga, da molti considerato come l’ultimo schiavo, arrivò al suicidio a soli 32 anni.
Questo mio post si conclude con una riflessione, non mia, ma che sento tale come studiosa di Antropologia. Così come giustamente ha affermato una mia collega di fronte a questa storia “non dovremmo dimenticarci di imparare da queste vicende”. Mai.
"La vita di Ota Benga venne utilizzata per dimostrare la supremazia bianca sia dal punto di vista antropologico che culturale, ma la sua esperienza dovrebbe soltanto costringere chiunque a chiedersi chi sia il vero selvaggio in questa storia" .
Maria Lucia Mette
Bibliografia
Phillips Verner Bradford, harvey Blumes, The pygmy in the Zoo”, 1993
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