giovedì 24 gennaio 2013

Per una federazione delle associazioni antropologiche

La recente approvazione alla Camera dei Deputati del DDL n. 3270 impone alcune riflessioni sul presente e sul futuro delle professioni non regolamentate tramite ordine.
Il testo riguarda anche l'antropologia in quanto disciplina alla ricerca di una forma di professionalizzazione.

Le associazioni universitarie, sia quelle a carattere più generalista, quali Anuac e Aisea, sia quelle tematiche, come Siam nel campo dell’antropologia medica e Simbdea per l’antropologia museale, si sono già mosse. In un incontro con la Senatrice Anna Rita Fioroni ed altri parlamentari, tenutosi il 27 giugno 2012 al Senato, i loro rappresentanti hanno manifestato il proprio punto di vista.

In questo coro di voci che si è sollevato manca quella delle realtà che, sia in forma individuale che associata, si muovono al di fuori dell’università. Manca quel patrimonio di esperienza rappresentato dalle piccole associazioni e dalle imprese che, non in antitesi ma certamente con peculiarità differenti rispetto alla codifica accademica, fanno antropologia nel territorio.

Una antropologia diversa, pratica e praticabile, attenta alle sollecitazioni della società e disponibile a mettersi in gioco per risolvere problemi concreti.

Il motivo di questa assenza è sotto gli occhi di tutti.

Un eccessivo frazionamento organizzativo impedisce di dare voce e corpo a delle istanze comuni:
  • da un lato la necessità di una qualche forma di riconoscimento istituzionale dell’antropologo come figura professionale;
  • dall’altro del percorso formativo universitario come base di partenza, nonostante la scarsa propensione mostrata finora verso un’applicabilità concreta e pratica.
Il problema è vivo e sentito: nei forum dedicati all’antropologia non sono in pochi a lamentarsi della situazione italiana attuale caratterizzata dalla scomparsa dei corsi di laurea e di dottorato, dalla mancanza di legittimazione pubblica e di sbocchi professionali.

La questione non è di facile risoluzione. Ritagliarsi uno spazio di parola e di azione in un dibattito pubblico monopolizzato da discipline storicamente più forti – si pensi alla psicologia e alla sociologia
– è complesso. E non sarà certamente il DDL n. 3270, senza una precisa volontà da parte delle associazioni e delle imprese antropologiche, a cambiare automaticamente lo stato delle cose.

Le lamentele devono segnare il passo: è venuto il momento di superare la fase critica e inaugurarne una nuova, necessariamente costruttiva, che porti alla costruzione di un soggetto collettivo propositivo nei contenuti e capace di muoversi autonomamente rispetto al panorama associativo esistente.

Il DDL 3270, infatti, garantisce la possibilità di

costituire associazioni a carattere professionale di natura privatistica, fondate su base volontaria, senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva, con il fine di valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto delle regole deontologiche, agevolando la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza (Art. 2.1).

Mentre le associazioni universitarie hanno già da tempo una struttura sovraterritoriale, la maggior parte delle associazioni non accademiche ne sono prive.

Quello che proponiamo è, dunque, la federazione delle associazioni antropologiche che agiscono territorialmente in Italia. Una federazione che:

  • coordini le esperienze locali e le inserisca in un dibattito più ampio;
  • proponga momenti autonomi di formazione, maggiormente indirizzati verso una dimensione pratica;
  • si faccia interprete autorevole delle istanze delle associazioni presso gli interlocutori pubblici e privati, garantendo degli standard qualitativi ed una deontologia professionale comune;
  • partecipi con voce autonoma all’attuale fase di codifica della figura dell’antropologo.
È necessario, quindi, incontrarsi e coordinarsi, affinché quanto prima emerga quello che abbiamo da dire e da proporre. Senza la nostra presenza attiva, il dibattito attuale sull’antropologia professionale e applicata non può che essere incompleto e parziale.

ASS.D.E.A. e Antrocom onlus propongono dunque, a tutte le associazioni antropologiche, di confrontarsi sul tema in modo dinamico ed efficace, per valutare insieme la possibilità di federarci in un'unica realtà che ci rappresenti.

CONTATTI

Associazione Culturale DemoetnoAntropologica Ass.D.E.A.
web: www.assdea.org
Email: contatti@assdea.org

ASS.D.E.A. è un'associazione di studenti e laureati in materie demoetnoantropologiche, nata dalla volontà di contribuire alla crescita e al rinnovamento della disciplina, che intende cercare un costruttivo confronto con le altre discipline al fine di rendere più efficace lo studio dei processi culturali. L'associazione vuole incentivare il dibattito antropologico all'interno della comunità accademica e della società, promuovere lo studio della cultura popolare, favorire l'utilizzo e la diffusione delle parlate locali e lo scambio tra i popoli creando occasioni d'incontro e confronto tra la cultura sarda e altre culture.

Antrocom onlus
via Kiiciro Toyoda, 92 -00148 Roma
web: www.antrocom.org
email: contatti@antrocom.it
Tel.: 06 60201248

Antrocom Onlus promuove e favorisce lo sviluppo degli studi di antropologia fisica e culturale, operando nella ricerca scientifica, nell’istruzione, nella formazione e nella diffusione delle scienze antropologiche. Presente sul territorio nazionale con sezioni regionali oltre alla sede centrale di Roma, l’Associazione è attenta a cogliere e valorizzare sia la tradizione locale che le nuove prospettive applicabili all’antropologia.

1 commento:

  1. Il folklore è una cosa molto seria, scriveva Gramsci nel 1929; è una religione popolare da analizzare scientificamente al fine di comprendere i meccanismi del ceto egemone che, per esercitare la loro violenza sui subalterni, si serve non tanto della coercizione quanto della persuasione. E appunto il ceto egemone oggi indica il folklore delle regioni d'Italia come la risorsa economica da sfruttare, improvvisandosi sull’importanza della tradizione, sullo sfruttamento turistico dei “giacimenti culturali”. Gli esperti scientificamente accreditati per l’individuazione, il monitoraggio, la salvaguardia e l’eventuale “prelievo” o “catalogazione” di questi beni culturali intangibili sono gli antropologi culturali, i quali seguono un codice deontologico ben preciso, frutto di una lunga negoziazione disciplinare con le tradizioni, che coincidono con le stesse comunità osservate e monitorate. Questi soloni che poco o nulla sanno delle tradizioni, visto che le vedono come "ruvida merce", spieghino cosa intendono fare per "venderle" al turista: faranno forse pagare il biglietto delle processioni e degli spettacoli popolari, distruggendo la loro intangibilità e la loro appartenenza alla cultura del dono? O forse qualche politico, diventando la parodia di se stesso, si travestirà da pecoraio capobastone per portare feticistiche sfilate di moda transumante sui palcoscenici della globalizzazione. Insomma è necessario agire di concerto per una protezione di una professionalità che oggi purtroppo viene oltrepassata da tutte le parti al fine non di una mediazione interculturale, bensì di un rafforzamento delle identità locali, con effetti conflittuali. La prospettiva culturalista non può venire sistematicamente ignorata, disapplicata e aggirata da improvvisatori che, privi dei più elementari riferimenti metodologici e deontologici, fanno razzia di emolumenti pubblici e sponsorizzazioni private, mentre i nostri migliori specialisti, pur di non scendere a compromessi, sono costretti ad emigrare. E' necessario trovare una mediazione tra le associazioni e dirigersi verso una maggiore protezione della nostra professionalità. Lia Giancristofaro

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