mercoledì 29 febbraio 2012

OTA BENGA, il pigmeo dello zoo.

C’è una triste pagina dell’antropologia che giace dimenticata negli scaffali delle biblioteche più fornite. Oltre un secolo fa, nel 1904, l’attenzione mondiale si sposta sulla storia di un uomo ormai dimenticato il cui nome è Ota Benga (il nome significa amico).
La storia o forse sarebbe più corretto l’odissea di Ota Benga meglio conosciuto come il “Pigmeo dello Zoo del Bronx” (The Pygmy in the zoo) inizia nel 1904 quando il suo villaggio e la sua famiglia vengono sterminati e orrendamente mutilati da alcuni seguaci della Publiques Force del governo belga. Risparmiato per il solo fatto di non essere presente nel villaggio al momento del massacro venne catturato e venduto come schiavo in un villaggio lontano.
Philips Verner, missionario del Congo, era stato incaricato, sotto la spinta degli studi intrecciati fra darwinismo e antropologia, di fornire un gruppo di pigmei da presentare nell’esposizione Universale di Antropologia che si tenne a St. Louis nel 1904.
Nel marzo del 1904 il missionario Philips Verner scoprì il congolese Ota Benga in un mercato degli schiavi acquistandone la libertà per un chilo di sale e un rotolo di stoffa. Ota Benga venne esposto al museo di St. Louis come rappresentante dei selvaggi.
Nel 1906 fu trasferito nel Bronx Zoo di New York City. Inizialmente il suo compito consisteva nel nutrire e accudire gli animali presenti nello zoo, ma fu la scritta sotto la gabbia “Ota Benga il pigmeo africano” ad attirare l’attenzione dei visitatori e far si che l’eccentrico direttore dello zoo William Thornaday ne facesse un’attrazione primaria e mondiale. Thornaday credeva infatti che gli animali avessero pensieri quasi umani oltre che la stessa personalità, pertanto era convinto che si potessero studiare gli animali più vicini all’uomo attraverso un uomo “con scarsa capacità di apprendimento”. La mostra aveva infatti come obiettivo primario quello di promuovere i concetti contemporanei di evoluzionismo e di razzismo scientifico. L’intento era quello di giustificare la superiorità della razza “bianca” e questa poteva trovare una sua dimostrazione attraverso il concepimento di uno zoo umano.
Ota Benga inizialmente presentato come il vincolo transizionale più vicino all’uomo, fu esibito come un esemplare vivente dei più antichi antenati umani, questo soprattutto grazie ad alcune caratteristiche fisiche dello stesso Ota il quale presentava denti appuntiti “simili a quelli delle belve”.
La mostra divenne immensamente popolare e controversa. La comunità nera venne oltraggiata così come venne osteggiato l’intento della mostra anche da parte della Chiesa che temeva che il popolo si potesse lasciar indottrinare dalle teorie evoluzioniste di Darwin.
Decine di migliaia di visitatori affollavano lo zoo per vedere l’attrazione primaria. Ota Benga venne deriso, sbeffeggiato, schernito dai visitatori. In The Pygmy in the Zoo, si raccontano scene in cui Ota Benga veniva “picchiato, deriso, alcuni visitatori gli facevano lo sgambetto”.
La sua esperienza allo zoo finì quando, costruito un rudimentale arco con le frecce, iniziò a sparare sulla folla di visitatori, lasciando così il parco per sempre.
Dopo la sua esperienza nello zoo diverse istituzioni cercarono di aiutarlo. Inizialmente finì in Virginia in un seminario, lasciando la scuola per andare a lavorare in una fabbrica di tabacco.
La crescente nostalgia di casa fece si che nel 1916 Ota Benga, da molti considerato come l’ultimo schiavo, arrivò al suicidio a soli 32 anni.
Questo mio post si conclude con una riflessione, non mia, ma che sento tale come studiosa di Antropologia. Così come giustamente ha affermato una mia collega di fronte a questa storia “non dovremmo dimenticarci di imparare da queste vicende”. Mai.
"La vita di Ota Benga venne utilizzata per dimostrare la supremazia bianca sia dal punto di vista antropologico che culturale, ma la sua esperienza dovrebbe soltanto costringere chiunque a chiedersi chi sia il vero selvaggio in questa storia" .

Maria Lucia Mette
Bibliografia
Phillips Verner Bradford, harvey Blumes, The pygmy in the Zoo”, 1993

lunedì 30 gennaio 2012

Calcio con passamontagna

Il calcio è lo sport più popolare nei territori zapatisti [1]. Lì tanto gli uomini come le donne giocano dando calci ad un pallone nonostante non abbiano nessun campo. Non hanno scarpe da calcio e qualcuno nemmeno le calze adeguate. Però tutti, dal portiere fino all'ala sinistra, indossano sul volto il passamontagna [2] di sempre. Sullo sfondo nero delle loro maglie, le grandi lettere rosse nel petto indicano che l'undici non è altro che la selezione dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) [3]. L'emblema è la stella rossa [4] e salutano il pubblico sugli spalti portandosi la mano sinistra a un estremo della fronte.

L'esercito ribelle, sia dentro che fuori del campo, consegna le armi. Nel marzo del 1999, gli zapatisti realizzarono la "marcia del colore della terra" [5] e la "consulta nazionale per i diritti indigeni". E tra tante attività si concretizzò la prima partita di calcio. Da una parte, i ribelli; dall'altra, ex giocatori allenati dal selezionatore messicano Javier Aguirre [6]. La partita terminò con un combattivo 5-3 a favore degli ex professionisti, ma il motto zapatista era chiaro: l'unica sconfitta è non continuare a lottare. Javier Aguirre in merito a questa partita commentò: "Gli zapatisti vennero al campo senza scarpette, con scarponi militari, per cui dovemmo prestarglieli noi. Non si vollero togliere il passamontagna per giocare".

6, 7 anni fa il subcomandante Marcos [7] (Comandante dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale EZLN) invitò l'Internazionale ad una partita amichevole con la selezione zapatista: "Le scrivo per invitarla (a Massimo Moratti) formalmente ad una partita tra la sua squadra e la selezione dell'EZLN nel luogo, data e ora che definiremo. Visto il grande affetto che nutriamo per voi, siamo disposti a non sconfiggervi con una goleada e darvi un dispiacere, ma a battervi con un solo gol in modo che i suoi nobili tifosi non vi abbandonino", ironizzò il ribelle. Lo stesso Javier Aguirre collaborò all'organizzazione della partita, e Marcos propose che facesse il guardalinee, insieme a Jorge Valdano [8]; l'arbitro sarebbe stato Diego Maradona mentre la telecronaca sarebbe stata a carico di Eduardo Galeano e Mario Benedetti [9]. Alla fine la partita non fu mai giocata.

L'amicizia con i sopraccitati è reale visto che la delegazione Interista ha dato appoggio con denaro, medicine e magliette. Javier Zanetti, il capitano neroazzurro, disse: "Crediamo in un mondo migliore, in un mondo non globalizzato, ma arricchito dalle culture e dai costumi di ogni popolo. È per questo che vogliamo appoggiarvi in questa lotta per mantenere le vostre radici e combattere per i vostri ideali". Il Pupi Zanetti confessò, insieme ai suoi compagni, di essere convinto di condividere gli stessi principi e ideali "che riflette lo spirito zapatista".


Dalla sua sollevazione armata il 1 gennaio del 1994, il movimento nascosto tra selve e montagne del sud est messicano non combatte solo due governi. Lo zapatismo inoltre raccoglie appoggi in tutto il pianeta. E l'interesse per quello che succedeva in Chiapas commosse in maniera decisa direttivo e giocatori dell'Inter di Milano quando nell'aprile del 2004 un gruppo di paramilitari attaccò e ferì diverse famiglie - base di appoggio zapatista - e danneggiò il sistema di trasporto dell'acqua agli indigeni a Zinacantán [10].

Grazie a un dirigente, Bruno Bartolozzi, il grave incidente arrivò all'orecchio del capitano interista Javier Zanetti, fondatore e mecenate della Fondazione Pupi, entità che dedica sforzi e denaro a curare pibes [11] in estrema povertà in Argentina. Insieme a sua moglie, Paula, il transandino [12] è anche un fervente indigenista [13]."Con la Fondazione Pupi appoggiamo la lotta del popolo mapuche [14] della Patagonia, a cui stanno togliendo le terre", racconta da Milano la signora Zanetti. In ogni caso, con il Chiapas la questione fu diversa. "Visto che Javier è il capitano dell'Inter, appena Bartolozzi parlò con lui, i giocatori destinarono duemilacinquecento euro per riparare l'acquedotto danneggiato nell'attacco", afferma Paula. Tempo dopo inoltre donarono una grande quantità di denaro per riparare un'ambulanza e aiutare un ospedale con infrastrutture e medicine.

La risposta zapatista agli sportivi arrivò nel maggio del 2004. "Ci rallegra, sappiamo di non essere soli nella nostra lotta. Siamo felici perché in tutto il mondo ci sono fratelli e sorelle come voi che hanno coscienza e che vogliono costruire un mondo di giustizia e dignità", scrissero dalla selva Lacandona [15]. L'autonomia zapatista, strutturata in cinque Giunte di Buon Governo, fino ad oggi non riceve aiuto alcuno dallo Stato messicano. Per questo, l'enorme rete d'appoggio mondiale ha un ruolo rilevante. L'Inter è uno in più.


Palla nella selva

In Chiapas ci sono 39 comunità indigene zapatiste o Municipi Autonomi stabiliti in cinque regioni, chiamati Caracoles. Sono ribelli e, a volte, organizzate, attributi di grandi squadre e calciatori. Il giorno in cui in Chiapas si dedicheranno, anche, a giocare a calcio non ci sarà squadra che potrà sconfiggerli. Per ora questo tuttavia manca, ma è dovuto ad altre mancanze. Si racconta in uno dei Caracoles: "Successe che un giocatore italiano che morì lasciò la sua eredità perché si costruisse un campo di calcio in un villaggio zapatista. Questo campo poteva essere utilizzato solo dalla gente di Guadalupe Tepeyac [16], per questo parlammo con tutto il villaggio e gli spiegammo che c'erano altre necessità più urgenti per il beneficio di tutti gli abitanti, per esempio uno spazio dove potessero lavorare le compagne che si dedicavano alla medicina tradizionale. La popolazione comprese e disse che andava bene, che era giusto destinare il denaro alla salute di tutti; il secondo passo fu quello di parlare con i donatori e questi all'inizio non volevano che si usasse il denaro per altre cose, ma alla fine accettarono". Fino ad oggi, nel mondo non ci sono campi zapatisti. Il calcio dovrà aspettare che l'erba renda il campo più degno, più uguale e più libero. La volta che si giocherà lì, il trionfo sarà assicurato.


Pubblicato originariamente in spagnolo da Hinchas Antifascistas, su:
Traduzione e note a cura di Domenico Branca

Note

[1] Per "territori zapatisti" si intendono sostanzialmente i territori dello stato messicano del Chiapas (73887 km², 4255709 ab.), che confina a sud col Guatemala e ad est col Belize, si affaccia ad ovest sull'Oceano Pacifico; confina con gli stati messicani di Oaxaca, a nord ovest, e Tabasco, a nord. La capitale e città più grande è Tuxtla Gutiérrez, circa 500000 abitanti. Cfr il sito istituzionale dello Stato all'Url http://www.chiapas.gob.mx/ (consultato il 30/01/12).

[2] Il passamontagna è uno dei simboli dell'EZLN. I combattenti lo indossano insieme ad un fazzoletto legato intorno al collo.

[3] Ejército Zapatista de Liberación Nacional, EZLN. È un movimento armato d'ispirazione marxista e indigenista (cfr nota 13) del Chiapas. Zapatista è un termine che si riferisce al guerrigliero messicano Emiliano Zapata Salazar (San Miguel Anenecuilco, Morelos, 8 agosto 1879 – Chinameca, Morelos, 10 aprile 1919), fra i capi della rivoluzione messicana degli anni '10 del Novecento. L'Ejército è formato soprattutto da discendenti di popolazioni autoctone maya, persegue una politica vòlta all'affermazione dei diritti degli indigeni, alla dignità e alla costruzione di una società basata su libertà, giustizia e democrazia. È un movimento fortemente anti-liberista (la bibliografia sull'argomento è sterminata: cfr, su tutti, Hernández Millán, A., EZLN. Revolución para la revolución (1994-2005), Editorial Popular, 2007).

[4] La bandiera dell'EZLN consiste in una stella rossa posta al centro del drappo su sfondo nero.

[5] La Marcha del color de la tierra (marcia del colore della terra), così denominata la marcia di oltre 250000 persone che, partita dal Chiapas attraversò pacificamente a piedi tutto il Messico, per arrivare alla capitale e dire Aquí estamos, qui stiamo, col significato di affermare la presenza degli indigeni nella vita politica del Messico (cfr Minà, G., 2001, Marcos: aquí estamos (un reportage in due puntate sulla marcia degli indigeni Maya dal Chiapas a Città del Messico con una intervista esclusiva al Subcomandante realizzata insieme allo scrittore Manuel Vazquez Montalban).

[6] Javier Aguirre, (Città del Messico, 1 dicembre 1958), ex calciatore e allenatore messicano.

[7] Subcomandante Marcos o Subcomandante Insurgente Marcos è uno dei capi dell'EZNL. Il termine "Subcomandante" si riferisce al fatto che i comandanti sono i rappresentanti eletti dal popolo chiapaneco. Figura carismatica, non indigeno, non ha mai mostrato il suo volto, sempre coperto – come tutti i comandanti dell'EZLN – da un passamontagna. Il 9 febbraio 1995 i servizi segreti messicani si sono detti sicuri che Marcos sia in realtà l'ex ricercatore universitario Rafael Sebastián Guillén Vicente (Tampico, Messico, 19 giugno 1957). Interessante su questo argomento un video fatto circolare dagli zapatisti su internet: http://www.youtube.com/watch?v=thAiSkX4qwo (Url consultato il 30/01/12). Su Marcos, cfr fra gli altri, Ramonet, I., 2001, Marcos. La dignità ribelle, Asterios; di Marcos, cfr fra gli altri, 1995, Io, Marcos. Il nuovo Zapata racconta, Feltrinelli, e 2006, Libertad y dignitad. Scritti sulla rivoluzione zapatista e impero, Datanews.

[8] Jorge Alberto Valdano Castellano (Las Parejas, Santa Fe, 4 ottobre 1955), dirigente sportivo, allenatore ed ex giocatore di calcio argentino.

[9] Eduardo Germán María Hughes Galeano (Montevideo, 3 settembre 1940), giornalista scrittore e saggista uruguaiano; tra le sue opere principali cfr 1971, Las vienas abiertas de América Latina, Siglo XXI e 1995, El fútbol a sol y sombra, Siglo XXI. Mario Orlando Hardy Hamlet Brenno Benedetti Farrugia (Paso de los Toros, Uruguay, 14 settembre1920 – Montevideo, 17 maggio 2009), scrittore e poeta uruguaiano; tra le opere cfr 2000, Primavera con una esquina rota, Sudamericana e 1979, Pedro y el Capitán, Santillana.

[10] Città di circa 30000 abitanti, ubicato tra le montagne della Sierra Madre, in Chiapas.

[11] "Bambini".

[12] Si riferisce alla sua origine argentina, transandina (Ande) rispetto al Messico e al Chiapas.

[13] L'indigenismo è un movimento letterario, antropologico, cinematografico, artistico e musicale nato inizialmente in Perù e sviluppatosi poi in tutta l'America Latina, incentrato sulla figura dell'indio come individuo sociale e culturale in situazione di subalternità e degrado. Per quanto riguarda la letteratura, cfr su tutti Arguedas, 1996, I fiumi profondi, Fabbri Editore; per quanto riguarda l'antropologia, cfr tra gli altri, Aguirre Beltrán, G., 1967, Regiones de Refugio, Instituto Indigenista Interamericano, México, Bonfil, G., 1970, "Del indigenismo de la revolución a la antropología crítica", en De eso que llaman antropología mexicana: 39-65, México, Nuevo Tiempo, Favre, H., 1998, El indigenismo, Fondo de Cultura Economica USA; per quanto riguarda il cinema, cfr fra gli altri, Sanjinés, J., 1966, Ukamau; per quanto riguarda la musica, cfr fra gli altri, Alomía Robles, D., 1913, El cóndor pasa; per quanto riguarda la pittura, cfr fra gli altri l'opera della pittrice Julia Manuela Codesido y Estenós (Lima, 1892-1979).

[14] I mapuche sono una popolazione autoctona sudamericana stanziata nel Cile meridionale e nell'Argentina del sud ovest; cfr, fra gli altri, Bengoa, J., 1999, [1985], Historia del pueblo mapuche: siglo XIX y XX, Santiago de Chile, LOM Ediciones.

[15] La Selva Lacandona è una zona dello stato messicano del Chiapas, quartier generale dell'EZLN.

[16] Villaggio di circa 800 abitanti situato nel Municipio di Pantelhó, stato del Chiapas.


venerdì 4 novembre 2011

Il carnevale di Halloween a Derry


Derry,Irlanda (del Nord), 1 novembre 2011.
Cominciò il 28 ottobre. Immaginatevi di essere atterrato col vostro zaino in un posto tutt'altro che familiare, solo. Immaginatevi di avere limiti con la lingua e capire il 10% di quello che vi dicono. Immaginatevi di vagare per le strade della città murata, Derry, senza ben sapere cosa fare, cosa cercare, ma volerlo trovare, poiché il tempo è prezioso. Allora ci si lascia trasportare dal flusso di eventi, dalla quotidianità di una cittadina del nord e piano piano anche i suoni diventano parole, le strade conosciute, le facce viste. I negozi specializzati che vendono solo maschere, costumi, accessori per Halloween; i supermercati con le vetrine che espongono zucche, streghe e pipistrelli; i pub con le insegne arancioni e nere e gli scheletri che ammiccano. Come recita il ritornello di una canzone dance di dubbio gusto, che ho ascoltatao qua: "this is Halloween", questo è Halloween.
Il commercio, il consumo; anche qui non è diverso. Ad un primo sguardo, Halloween a Derry è solo questo. Ma parlando coi ragazzi, nei pub, scopro qualcosa di più. Lo dicono anche loro che è un fenomeno molto consumista e commerciale; ma questo è il contorno di quello che è veramente importante: la festa, la sfilata, la parata, il mascherarsi, l'ubriacarsi, senza controllo, in maniera accettata.
Allora aspetto la parata per capire e, nel frattempo intervisto chiaccherando la gente, molto disponibile. "Trick or treat?" No, noi dicevamo "anything for halloween"; "trick or treat" non e' irlandese, ma americana", mi dicono due anziani che guardano con faccia disgustata un concerto pop, uno dei tanti per il "carnival" di halloween organizzato dal Derry City Counsil. "Hai già ascoltato musica irlandese nei pub? Vai vai, altro che questa roba", mi dice uno dei due.
La gente continua a comprare, e si cominciano a vedere i primi superman e zombies che gironzolano per le strade o si riparano dalla pioggia nei pub.
Una signora mi dice: "quando ero piccola chiedevamo "any nuts for halloween" (qualche noce per halloween), o "anything for halloween" (qualcosa per halloween). Ci mascheravamo, ma più spesso ci pitturavamo la faccia, e andavamo in giro per le case. Ci davano noci, mele, quando eravamo fortunati un penny e qualche dolce. Ma tu aspetta la sfilata e la notte", mi dice.
Quando parlo coi ragazzi la parola che piu' ricorre per descrivere la parata è: "crazy", qualcosa di folle.
Patrick O'Donnel, 70 anni, di Derry mi scrive sul taccuino la canzone che cantava da bambino quando andava a fare halloween con gli amici:
Halloween is coming and the geese are getting fat.
Please put a penny in the old man's hat.
If you haven't got a penny a ha' penny will do
if you haven't got a ha' penny GOD BLESS YOU.
E poi, dopo tre giorni di manifestazioni per turisti o "indigeni" (lettura di fiabe di terrore, anche in gaelico, tours guidati per la città di notte, eventi sportivi, ad esempio), la sfilata.
Non avevo idea materiale di cosa potesse essere. Pensavo ad una invasione di fantasmi, vampiri e morti-viventi; certo, c'erano anche loro. Ma c'erano soprattutto Gheddafi e Bin Laden, infermiere sexy e Babbo Natale, Stalin e un cavallo vestito da imprenditore, soldati e Batman. E "carri", congegni costruiti e mossi dai partecipanti stessi, assurdi, ingegniosi. Un ragno gigante che camminava, un motociclista stile Easy Rider, zucche giganti, per citarne alcuni. Poi i fuochi d'artificio sul fiume Foyle. L'atmosfera era inebriante, ma una ragazza mi ha detto che quest'anno la manifestazione era sottotono per via dei problemi economici dell'Irlanda.
Finiscono i fuochi e l'enorme marea si dirige compatta verso i pub o il palco dove suona una "famosa" band irlandese. Migliaia e migliaia di maschere si rintanano nei pub. La mia maschera favorita era un bagnante: un ragazzo che, con 6 gradi circa, indossava solo il costume da bagno. Nei pub musica irlandese e pinte di birra, è il carnevale di Halloween.
Credo che sia mille miglia distante dalla considerazione che noi abbiamo di questa festa, qua in Irlanda.
Qualche giorno prima, un uomo sui 40 anni a cui ho chiesto indicazioni, mi disse: "quando ero piccolo io non si faceva questo festival. Andavamo solo in giro, la notte, mascherati a chiedere "Anything for Halloween", e a casa facevamo i giochi tradizionali, come prendere con la bocca una mela che galleggia in una tinozza, e mia madre faceva sempre la torta di mele. Io non sono contro il cambiamento, ma voglio che anche le nostre feste e tradizioni non vengano perse. Io voglio che le mie figlie vadano a chiedere "qualcosa per halloween", è la nostra tradizione".
In Irlanda o in Sardegna, è sempre Halloween che muta. O che è mutata.

domenica 25 settembre 2011

Il bambino "apprendista"

Il potere di concentrazione di piccoli bambini da tre a quattro anni di età non ha riscontro altro che nel genio.

Maria Montessori, Educazione alla libertà, 1950.

Per cercare di spiegare cosa significa realizzare la “libertà del bambino” Maria Montessori [1] fa riferimento anche all’attenzione “verso un materiale sensoriale” che lo guida attraverso l’esperienza che ne fa, in vista di un suo utilizzo razionale, che “lo rende padrone di una cultura” e ne forma il carattere.
Il bambino posto di fronte ad un “oggetto” lo usa “secondo lo scopo per cui è stato costruito” e ripete l’esperienza innumerevoli volte. Tutto ciò che accade in pratica è mosso da “un impulso interiore primitivo, quasi un vago senso di fame interna” che lo induce a ripetere la stessa operazione esercitando le sue attività psichiche e favorendo “uno sviluppo interiore”.
Si tratta di un’operazione che si rivela piacevole e che soddisfa un’esigenza interiore del bambino, “infatti l’attenzione del piccolo bambino non è stata nel nostro esperimento, trattenuta artificialmente da un «maestro», ma fu un «oggetto» che trattenne e fissò l’attenzione del piccolo bambino, come se corrispondesse ad un impulso interiore; (…)”.
L’impulso interiore del bambino corrisponde nelle cose a quelli che Ingold [2] definisce “prinicipi generativi incorporati nelle condizioni materiali” (Ingold, 2004: 206) di produzione degli oggetti. Nel caso della conchiglia “il principio è quello della proporzione invariante” cioè esso “attraverso una semplice iterazione, genererà sempre e invariabilmente una spirale logaritmica”, così per il cesto vale il principio che “ogni incremento di estensione longitudinale è attaccato, lato a lato, a quello precedente nel senso trasversale” e dunque genererà “sempre e invariabilmente una spirale aritmetica” (Ingold, 2004: 206).
Questa tensione tra uomo e materia si manifesta sin dai primi anni d’età quando i bambini “sembrano l’infanzia di uomini straordinari nei loro poteri di attenzione” (Montessori, 1999: 71).
Se al bambino vengono presentati gli oggetti “col loro cumulo di attributi” egli non elabora un proprio ordine interno di considerazioni e la sua interpretazione del reale non ha un fondamento sicuro, si basa bensì sulla confusione, su una elaborazione “passiva” che si allontana dal compito del maestro di “mantenere sempre viva quella luce in lui che si chiama l’intelligenza”.
“…come il Centauro saggia i venti e le fonti…Non è lo stesso per il bambino? …l’uomo fatto interrompe tali esperienze e, essendo appunto “fatto” cessa di farsi”. Il processo di apprendimento di un’abilità manuale, quale avviene in un contesto artigiano, include la prospettiva di Maria Montessori e quella contenuta nelle parole di Henri Focillon, nella sua opera Elogio della mano [3], di cui è stato riportato un breve estratto, poiché emerge da entrambi l’intrinsichezza dell’uomo con la materia.
La trasmissione del sapere nel contesto artigiano avviene by watching, by doing e by using.
Il “sistema tecnico” attraverso il quale il sapere artigiano viene trasmesso di generazione in generazione consiste nella trasmissione di “un tipo di realtà già di per se stessa organizzata in parti, in momenti e in operazioni che sono il risultato di operazioni razionali di organizzazione della realtà esterna e interna all’uomo operatore”.[4]
Gli oggetti hanno una storia: sono realizzati da qualcuno, in un determinato contesto e vengono impiegati da qualcun altro che ne sperimenta la funzionalità. L’artigiano conosce la storia dell’oggetto perché è lui a crearlo. L’oggetto è il risultato dell’impiego di una determinata materia prima secondo un paradigma d’azione che egli segue con rigore pratico e coerenza logica.
L’apprendistato come “modello formativo ed educativo” [5] (Emiliani, 1983: 205) è andato scomparendo nell’età industriale e non esiste un’istituzione ufficiale che abbia mantenuto il valore della trasmissione orale del sapere, un sapere come quello artigiano che non poggia sui libri ma sull’esperienza che si fa della materia in un contesto fortemente caratterizzato come la bottega di un artigiano: “(…) proprio nelle cose, negli oggetti, nelle pietre, si libera una nozione di tempo che non è vincolata a strutture mentali, morali, esemplari: ma piuttosto esistenziali e antropologiche” (Emiliani, 1983: 208).
Maria Lai elabora un “pensiero pedagogico” nel quale il bambino viene considerato come essere complesso in evoluzione nel tempo e nello spazio, la cui sensibilità deve essere educata in modo da renderlo disponibile all’esperienza della vita: “la crescita sale quando lo sguardo trova una guida e la possibilità di lunghi esercizi”. [6]
Giunti all’età di tre anni i bambini “maneggiano tutte le materie che riescono ad afferrare avidamente: carte, creta, sabbia, etc. iniziano così a ragionare: con gli occhi e con le mani (Pinto Minerva, 2007: 20). A coloro che li educano il compito di procuragli terreno fertile sul quale possano muovere autonomamente i propri passi verso l’arte di osservare: “Occorrerà indagare lungamente per quali ragioni e attraverso quali strade fin dalla seconda metà del secolo scorso la scuola, l’avviamento scolastico e pedagogico, abbiano fallito sostanzialmente il loro iniziale compito primario, che era appunto quello di surrogare e sostituire l’oralità dell’apprendistato (…)” (Emiliani, 1983: 205).
Il ramaio Giovanni Mura di Isili (Giovanni Mura, Isili, 1923, ramaio), esprime in una frase sia l’esperienza concreta di questo “apprendistato spontaneo” che il bambino compie, sia la consapevolezza del suo valore nella vita adulta dell’artigiano: “perché il laboratorio ce l’abbiamo avuto sempre a casa (…) da piccolino, voi mi insegnate, appena che cominci a camminare a piedi (…) vai a frugare e cosa frughi”? La manipolazione degli oggetti comincia sin dalla prima infanzia e se non viene inibita da un sistema educativo che vincola l’individuo imponendogli dei limiti piuttosto che assecondarne l’indole creativa, dura, in forme diverse, tutto il tempo della vita dell’uomo. Un’educazione che tenga conto della “necessità creativa” dell’uomo dovrà educare il suo sguardo sul mondo. Quando l’occhio, affinato da un processo di apprendimento in continua crescita, si troverà davanti ad un’opera d’arte o ad un oggetto di artigianato li guarderà con la stessa intensità con cui farebbe un bambino i cui sensi siano stati istruiti da un buon “apprendistato” che passa attraverso il ritmo, del gioco, delle ninne nanne e delle fiabe, attraverso cui egli cresce e diventa adulto.

Marta Gabriel


[1] Montessori M., Educazione alla libertà, (a cura di M. Luisa Leccese Pinna), Roma-Bari, Editori Laterza, 1999, pp. 68-81.
[2] Ingold T., Ecologia della cultura, Roma, Meltemi, 2004.
[3] Focillon H., Elogio della mano, Universidad Nacional Autònoma de México, México, 2006.
[4] Angioni G., Fare, dire, pensare in AngioniG., Da Re G., Pratiche e saperi. Saggi di antropologia, Cagliari, CUEC, 2003, p. 36.
[5] Emiliani A., L’artigianato, i suoi modelli culturali, la città storica in AA.VV., La salvaguardia delle città storiche in europa e nell’area mediterranea, Bologna, Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, 1983.
[6] Pinto Minerva F., L’arte per reinventare il mondo in AA.VV., Arte e creatività. Le fiabe e i giochi di Maria Lai, Franca Pinto Minerva Maria Vinella, Cagliari, A.D. Arte Duchamp, 2007, pp. 15-23.

mercoledì 7 settembre 2011

Il sentiero della memoria: un viaggio a ritroso nel tempo nell'isola dell'Asinara

10 agosto 2011, ore 9:00, ha inizio un’altra giornata di lavoro. La motonave Lem si appresta a traghettare noi operatori del Parco e una folla entusiasta di turisti dal porto di Stintino al molo di Fornelli, approdo meridionale dell’isola dell’Asinara. Una volta sbarcati prendiamo la macchina, destinazione Cala Reale e Cala d’Oliva. Oggi il mio turno sarà alla Casa del parco, l’ex ospedale dell’antico lazzaretto istituito nel lontano 1885 insieme alla colonia penale agricola. Giunta a casa del Parco, mi sistemo alla scrivania con la compagnia di un buon libro e aspetto l’arrivo di qualche visitatore. Verso le 11 arriva una coppia di anziani, in tenuta da spiaggia, con al collo l’immancabile macchina fotografica per immortalare il ricordo della visita nel parco nazionale, mi chiedono qualche informazione sui sentieri escursionistici, mostro loro i relativi depliants e la loro attenzione è catturata dal titolo del sentiero numero 5, “il sentiero della memoria”. Non mi ero mai fermata a riflettere del perché proprio questo sentiero, che da Cala Reale arriva sino all’Ossario, sia stato intitolato alla memoria dato che qui all’Asinara ogni pietra, ogni edificio è un inno alla memoria, un inno silenzioso, percepibile che narra di un passato i cui eventi storici hanno visto come protagonisti popoli di diversa etnia (greci, fenici, romani, turchi, genovesi, pisani, spagnoli, sardi, ponzesi, napoletani ecc.) che hanno costruito come un puzzle l’identità complessa dell’isola.
Il sentiero della memoria percorre la zona di Cala Reale e arriva sino a Campu Perdu dove c’è l’Ossario austro-ungarico: in questi luoghi, più di un secolo fa, vi erano le strutture dell’ex colonia penale agricola e la stazione sanitaria di quarantena per gli equipaggi delle navi in cui si era diffusa (o vi era il sospetto) una malattia infettiva (peste, colera, tubercolosi ecc.). In questa isola sperduta e poco abitata, preclusa per la presenza dei detenuti e per il lazzaretto, venivano dirottate le navi all’Asinara, per evitare che l’epidemia si propagasse sulla terraferma, gli infetti, una volta sbarcati su un molo di legno, venivano spogliati e disinfettati nelle apposite docce e distribuiti nei vari edifici distinti in tre periodi in cui si scontavano le tre fasi della contumacia; alcune di queste strutture sono state rifunzionalizzate ma conservano l’architettura di un tempo: l’edificio a due piani sede della direzione sanitaria, con foresteria, alloggio del medico e uffici, il fabbricato con cucina e sala da pranzo per i passeggeri di 1° e 2° classe, quello per i viaggiatori di 3° classe, la lavanderia (oggi sede del ristorante gestito da sognAsinara), l’ospedale (oggi Casa del Parco), la farmacia e il laboratorio batteriologico (oggi museo del mare), il forno crematorio con sala cineraria (trasformato negli anni ’50 in chiesa).
Nel corso della Grande Guerra (1915-1916) la zona di Cala Reale ospitò un campo di concentramento per i prigionieri di guerra austro-ungarici che dall’Albania furono deportati all’Asinara a bordo di vari piroscafi. Secondo il diario del generale Ferrari ne giunsero 30 mila di cui 8 mila morirono di colera e tifo. Il generale Ferrari diresse l’organizzazione del campo e l’accoglienza attivandosi per salvare la vita a molti di questi soldati denutriti, stremati dalle malattie, giunti sull’isola senza forze in preda alla disperazione: fece allestire accampamenti, tende, procurò viveri di ogni genere, vestiti, scarpe, coperte. L’Asinara accolse un esercito multietnico, multilingue, ma ogni soldato era legato agli altri da un comune destino: la prigionia in una terra lontana, condizioni umane precarie, desolazione, malattia, morte. Molti morirono e le loro ossa furono sepolte in fosse comuni o in cimiteri di cui ancora oggi rimangono croci e lapidi logorate dal tempo come il Cimitero degli Italiani a Campo Faro. I sopravvissuti furono grati al generale Ferrari e all’Italia perchè li aiutarono a riprendersi la loro vita, a recuperare la loro dignità umana attraverso il lavoro: furono così impiegati nella coltivazione dei campi, nella sistemazione dei giardini, nell’allevamento degli animali della colonia penale agricola, molti poi si impegnarono in attività artigianali e artistiche, grazie al loro estro furono costruiti all’Asinara cappelle, monumenti funebri e statue. Questi monumenti della memoria sono ancora lì, testimoni di quel passato: difronte all’ex ospedale fu eretta una piccola cappella, costruita dai prigionieri austroungarici nel 1916, sopra il portale vi è l’iscrizione latina che recita lapidariamente “Vos omnes qui transitis per viam attendite et videtes est dolor sicut dolor meus”, A Campu Perdu c’era una statua celebrativa scolpita dal prigioniero ungherese Georg Vemess, rappresentava un eroe con ai piedi una folla di uomini nudi e disperati, volta a significare da un lato la sofferenza patita in guerra e l’estenuante marcia da Nich a Valona (la marcia della morte) dall’altro il trionfo della speranza, della solidarietà umana e della fratellanza, una specie di ringraziamento agli italiani che aiutarono quei soldati a rimanere aggrappati alla vita. Alla fine del percorso intitolato alla memoria, si staglia sopra una collina l’Ossario austro-ungarico che raccoglie i resti ossei dei prigionieri ritrovati nelle numerose fosse comuni e deposti nelle teche all’interno di tale struttura bianca a forma di croce.
La memoria secondo la definizione che troviamo nel dizionario italiano di De mauro è «la facoltà della mente umana di conservare, ridestare in sé e riconoscere nozioni ed esperienze del passato; capacità dell’uomo di ricordare». L’uomo sente il bisogno di attingere al proprio passato attraverso i ricordi, ossia immagini sfumate, indefinite, confuse conservate nella mente e rievocate per mezzo di immagini, musiche, odori e profumi, parole: questa è la memoria individuale, quella legata all’esperienza di vita di ciascun individuo. Il ricordo è un’esperienza emotiva forte poiché riporta alla luce fatti gioiosi e felici che suscitano nostalgia, ma anche esperienze negative, traumi che talvolta vengono rimossi e conservate a livello inconscio poiché portatori di sofferenza.
Il sentiero della memoria tracciato all’Asinara può definirsi un vero e proprio luogo della memoria, concetto storiografico elaborato dallo storico francese Pierre Nora nella monumentale opera “Les lieux de mémoire » :
«Un luogo della memoria è uno spazio che si contraddistingue per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici dove un gruppo, una comunità o un intera società riconosce se stessa e la propria storia, consolidando in questo modo la propria memoria collettiva. Luogo della memoria può essere dunque un museo, un archivio, un monumento, un anniversario, certi territori o località segnati da eventi storici significativi, ma anche i simboli e i miti, le strutture e gli eventi, i personaggi e le date (…) a cui gli uomini attribuiscono una sacralità da proteggere, una sorta di aurea simbolica» (Legoff, 1982).
I luoghi della memoria sono stati definiti dei “mnemotopi” (spazi del ricordo) e dei “relitti” del passato dove il ricordo viene ordinato nella mente e fissato in uno spazio fisico dai limiti precisi, al confine con l’oblio (Assmann, 1992). I ricordi latenti vengono riportati alla luce mediante stabilizzatori della memoria ossia l’emozione, il simbolo e il trauma che fanno da mediatori tra i luoghi della memoria e i non luoghi, questi ultimi definiti da Marc Augè come spazi non identitari, né relazionali, né storici, zone intermedie in cui il tempo si dilata, non connotati culturalmente (Augè, 2009).
La memoria storica, che diventa memoria collettiva, parte integrante dell’identità di un popolo o di un gruppo, non viene tramandata soltanto attraverso i libri di storia, i documenti depositati in archivi di stato, ma essa viene fissata attraverso diversi mezzi orali, materiali e simbolici: racconti popolari, miti, canzoni, opere musicali, monumenti celebrativi, opere scritte, cimeli, fotografie, feste e riti che trasmettono i valori culturali di un popolo e ricordano gli eventi più significativi della loro storia per proteggerli dall’oblio e trasmetterli alle future generazioni; ai tradizionali supporti nella nostra epoca si sono aggiunti i supporti digitali su cui si registrano filmati e interviste. La memoria fissata diviene così incancellabile, sottratta all’azione del tempo e quindi all’oblio, salva il passato per dare lezioni di vita nel presente e per costruir un ponte verso il futuro. La memoria è “il presente del passato” che per mezzo del ricordo ha la capacità di restituire all’esperienza individuale o collettiva presente un qualcosa di assente. La coscienza del passato attraverso la memoria e il ricordo garantisce all’individuo e alla collettività una propria continuità temporale (Legoff, 1982)..
La memoria ha, tra le proprie funzioni quella di fondare l’identità culturale, religiosa o politica di un particolare gruppo sociale. Essa è portatrice di significati. Poiché una società è costituita da diversi gruppi sociali e minoranze etniche, questi elaborano la propria memoria collettiva, fondano la propria identità e adottano una serie di simboli per rendere visibile la propria presenza nel mondo e tramandare ai posteri la loro storia. Così fecero quei prigionieri austro-ungarici all’Asinara, che in terra straniera, lontani dalla patria si accese in loro il desiderio di tramandare la loro storia marchiata da sofferenza, malattia e morte, e in questa isola, perla del Mediterraneo, trovarono la loro ancora di salvezza dai patimenti della guerra e vollero lasciare una testimonianza del loro passaggio e del loro triste destino. “Il luogo fisico della memoria è connotato dal trauma che fissa la violenza in una dimensione spaziale dove il tempo non trascorre, richiama costantemente il passato invisibile e silenzioso con cui si mantiene un contatto” (Assmann 1999).
Concludo questa mia riflessione con una citazione tratta dalla celebre opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi, testimone diretto della disumanità dei lager nazisti: In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria.

Maria Laura Abozzi


Bibliografia

«L’isola dell’Asinara: la storia, l’ambiente e il parco», a cura di M. Gutierrez, A. Mattone, F. Valsecchi, Poliedro editore, Nuoro, 1998;

Jacques Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, Torino 1982

Aleida Assmann, Ricordare, il Mulino, Bologna, 2002

Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 2005.

Marc Augè, I non luoghi, Eleuthera, Milano, 2009


venerdì 19 agosto 2011

San Giovanni a Olbia. Appunti su una festa postmoderna

La festa di San Giovanni a Olbia è una festa di sintesi. Se non si parte da questo presupposto non la si può comprendere, ha ben poco di diverso da raccontare rispetto a più note e più affermate festività sarde.

Olbia è una città estremamente complessa, in cui convivono una pulsione alla modernità e pratiche che, se non fosse un termine antropologicamente ‘pesante’, si potrebbero definire sopravvivenze. In Olbia convivono tracce di un’economia agricola su cui si è innestata la colonia di marinai ponzesi. Entrambe le comunità avevano le proprie feste, i propri spazi, le proprie pratiche. Il secondo dopoguerra ha portato il turismo e i soldi e con essi la voglia di scrollarsi di dosso tutto quello che appariva vecchio e legato ad un tempo che si voleva nascondere. Il destino della festa di San Giovanni è stato questo, abbandonata per diversi anni nel nome di una modernità che non tollera il passato e riscoperta alla ricerca di radici in un mondo globale che sembra non permetterne.

Infine le ultime migrazioni. Nuovi ricchi italiani e vecchi poveri dai cinque continenti hanno portato con loro nuovi colori, nuovi sapori, nuove pratiche.

È presto per dire come cambierà il volto di Olbia, città multiculturale con la propria sezione della Lega, ma è indubbio che stia cambiando. I primi a saltare i fuochi la notte di san Giovanni, rompendo quel momento di imbarazzo in cui nessuno si muoveva e dando inizio alla festa, sono stati i figli degli immigrati. L’hanno fatto dando al gesto significati diversi da quelli che la tradizione gli attribuisce… non si chiameranno ‘compare’, non si legheranno attraverso un legame stretto quasi come la parentela biologica, magari era solo un gioco o una prova di coraggio, ma l’hanno fatto, hanno dato il loro contributo allo svolgimento del rito.

Una festa di sintesi, dicevo, proprio perché tante chiavi di lettura si possono adottare: il recupero e la rifunzionalizzazione in chiave identitaria, la devozione popolare, l’imperante economia turistica, una società sempre tendente al multiculturalismo. Tutto questo trova espressione nella festa, dandole quella complessità che solo un approccio olistico può cogliere rendendola, pur simile a tante altre, a suo modo unica.

Il link che segue porta alla pagina facebook di AssDEA, dove ho caricato alcune foto sulla festa di San Giovanni. Questo breve reportage (mi perdonino i veri fotografi per l’uso del termine) propone alcuni scatti che non hanno né pretesa di essere capolavori né di raccontare in maniera esaustiva la festa. Prendetele come sono, come degli istanti presi in prestito per essere condivisi.

giovedì 11 agosto 2011

“La presunta santità” di Frazer: i curiosi sviluppi dell’antropologia postmoderna*

L’entusiasmo del non addetto ai lavori, lo sbadiglio dello studente, la critica (talvolta feroce) del professore: in tutta la storia della letteratura antropologica sono pochi i libri capaci di creare tante divergenze quanto The golden bough. Edito tra 1890 e 1915, il lavoro è un neonato già pronto per il funerale: la filosofia su cui si basa è antiquata, il metodo comparativo è inadeguato, la prosa è troppo leziosa.
1.  Frazer, ponendo alla base della sua teoria la filosofia di Hume, considera erronea la mentalità selvaggia, frutto di un’errata applicazione del principio dell’ Associazione di idee. Come fa Frazer a conoscere l’esatto sviluppo del pensiero, da dove ricava l’evoluzione magia-religione-scienza che progredisce dal selvaggio allo scienziato? Perché applica un ragionamento del tipo “se io fossi un cavallo?” si chiede Evans-Pritchard. E quanto è ingenuo indugiare nell’erroneità della mente selvaggia:  come può l’errore, trascurabile, di ontologizzare un’idea fondare un intero sistema di pensiero, un’intera concezione del mondo? Non può, risponde Wittgenstein, e “Frazer sarebbe capace di credere che un selvaggio muoia per errore”
2.    Frazer si dedica anima e corpo a collocare in una concezione organica un’immensa mole di dati provenienti dalla ricerca sul campo? “Il risultato finale dell’esposizione è una specie di mostro di Frankestein con un occhio destro preso dalle isole Figi, un occhio sinistro dall’Europa, una gamba dalla terra del Fuoco e una da Tahiti, e dita delle mani e dei piedi da regioni ancor più diverse” chiosa la Benedict.
3.     Lo stile di Frazer è avvincente, la prosa elaborata? “Frazer stesso pensava di fare della letteratura, non della storia o della scienza: i dati erano per lui semplicemente materiali grezzi da scrivere bene” afferma Edmund Leach
Una sconfitta su tutta la linea, quella di Frazer, che rifiuta di scrollarsi di dosso la polvere dell’antropologo da tavolino andandosi a battezzare alla fonte miracolosa della ricerca sul campo (e poco importa se, in realtà, quella di Frazer è stato una scelta consapevole, dovuta alla convinzione della necessità di separare i due momenti, raccolta dei dati e teorizzazione, allo scopo di evitare reciproche contaminazioni). Eppure, se osserviamo i recenti sviluppi dell’antropologia postmoderna, ci accorgiamo che l’infante è stato resuscitato: alla luce del rifiuto del realismo funzionalista, col suo tentativo di rendere comune l’esotico, quello opposto di Frazer, di esotizzare il comune, risulta un approccio più moderno del modernismo. Ora che anche il realismo etnografico è stato sacrificato sull’altare della rivalutazione della soggettività del ricercatore, sulla necessità di abbandonare la monografia, sull’urgenza di ridefinire i rapporti con l’alterità, vicina e lontana, le condizioni discorsive su cui procede il premoderno Frazer sembrano singolarmente appropriate alla descrizione del villaggio globale, della koinè culturale di scala planetaria che caratterizza la fine del ventesimo secolo [Dei].
Almeno, fino alla prossima rivoluzione antropologica.

GIANNA SABA

* Questa breve riflessione scaturisce dalla lettura di due lavori di F.Dei, “Metodo mitico e comparazione antropologica” e “ La discesa agli inferi. James G. Frazer e la cultura del Novecento”, liberamente consultabili su www.fareantropologia.it. Si rimanda a questi per un’esauriente bibliografia sull’argomento