Un noto settimanale dedica un brevissimo articolo al 125anno di nascita della Coca-Cola, bevanda nota ormai in tutto il mondo.
Creata da un farmacista di Atlanta, Pemberton, la bibita studiata prima come medicinale per il mal di testa e successivamente come tonico rinfrescante, è divenuta emblema della globalizzazione, presente in ogni paese e oltre ogni confine della terra.
Un docente di storia della tradizioni popolari, narrava fra gli aneddoti della sua campagna di ricerca sul Ciad, come persino fra le terre sperdute del deserto non fosse difficile imbattersi nella cartellonistica pubblicitaria della Coca-Cola. Ma a cosa si deve il successo? Probabilmente alla pubblicità. Non dimentichiamo che ormai dal 1931 la sponsorizzazione della bevanda è stata spesso collegata a Babbo Natale, con il vestito rosso e la bottiglia in mano, immagine divenuta il simbolo del modo di vivere degli americani. Quale ruolo ha giocato pertanto la pubblicità? Da sempre le campagne pubblicitarie mostrano un’immagine (talvolta fuorviante) di gruppi di giovani sorridenti che bevono insieme direttamente dalla bottiglia. Già questo, ha sconvolto in passato quelle che venivano ritenute regole della buona educazione, considerato che bere direttamente dalla bottiglia veniva considerato maleducato.
L’articolo conclude con l’asserzione che la Coca-Cola sia il simbolo dell’umanità globalizzata. Ma è veramente così? Non sarebbe più naturale definire questo processo di “internalizzazione” così come suggerisce un breve articolo di Alessandro Baricco, pubblicato sul quotidiano Repubblica nel 2001?
Ma veramente la Coca- cola è il simbolo della libertà? Purtroppo la sua storia non è così limpida come potrebbe sembrare. A tal proposito vorrei riportare un bell’articolo di Marinella Correggia, apparso sul Manifesto del 2003 dall’esemplificativo titolo: I villaggi assetati della Coca- Cola.
“Vengono da fuori, rubano la nostra acqua, la filtrano e ce la rivendono a caro prezzo. A che serve una fabbrica così?». Phulwanti Mhase ha una baracchetta dove vende chai (tè indiano) nel villaggio di Kudus, distretto di Thane, stato del Maharashtra. A poca distanza, nella zona Wada, c'è la grande fabbrica della Hindustan Coca Cola Company, affiliata della casa di Atlanta. La signora Phulwanti vende quel che può, anche le bibite multinazionali e l'acqua Kinley, prodotta dalla Coca Cola, ma «nessuno di qui le compra, costano quanto otto ore di paga di una bracciante». La fabbrica della Coca Cola preleva l'acqua dal fiume Vaitarna, dotato di un piccolo bacino - lo costruì anni fa il Dipartimento statale per l'irrigazione - che ha sempre evitato la penuria d'acqua ai villaggi di Kudus, Jamghar, Nehroli e Gandhre. Finché alla Company non è stato dato il permesso di prelevare 300.000 litri al giorno, in una zona in cui il consumo medio di acqua per abitante è inferiore a 40 litri al giorno. Da allora sono iniziate le disgrazie, spiega l'opuscolo Jo Coca Cola Chahe, ho Jaye!, «quel che vuole Coca Cola certo accade»: redatto dall'Aidwa (All India Democratic Women's Association, movimento che conta 6 milioni di iscritte), spiega che l'acqua arriva alla fabbrica attraverso una conduttura di 14 chilometri, sorvegliata dal guardiano Ekhant Wanga che per misere 1.200 rupie (25 euro) deve impedire alle donne dei villaggi di attingere all'acqua. Curioso, Ekhnat è dipendente del Dipartimento per l'irrigazione anche se lavora per la Coca Cola.
La vita dei villaggi è stata sconvolta. Le donne erano solite prelevare l'acqua da bere dal bacino della diga e lavare stoviglie e abiti a valle, nel fiume. L'acqua serviva anche a irrigare orti per l'autoconsumo. Ora l'acqua da bere viene attinta in pozzetti scavati ai lati del fiume, e l'operazione richiede lunghe ore. L'acqua per irrigare le verdure non si può più prelevare. Quanto al bucato, le donne vanno negli stagni che hanno preso il posto del piccolo fiume, visto che l'acqua è stata deviata verso la fabbrica. Le donne si lamentano: «L'acqua era nostra. Come può il governo decidere di venderla senza chiederci il permesso?». Le comunità locali - contadini e adivasi, i tribali dell'India - hanno fatto strenua opposizione alla posa della conduttura, che ha richiesto mesi. Il governo e l'azienda hanno avuto la meglio grazie a una tattica mista. Bhaskar Gotarne intendeva negare il passaggio dei tubi sul proprio campo: un giorno è stato fermato ed è rimasto in prigione finché il lavoro sul suo terreno è stato completato. Il bastone e la carota: alla popolazione locale è stato promesso che avrebbe avuto un piccolo acquedotto e altri servizi, dalla luce al centro di salute. Ma il denaro dato ai panchayat (consigli di villaggio) non è bastato. Il Dipartimento per l'irrigazione non ha usato le royalties per migliorare la locale infrastruttura idrica, e d'altra parte la Coca Cola paga un prezzo irrisorio per quell'acqua: l'equivalente di 5 euro ogni 10.000 litri. Poi rivende bibite e acqua filtrata tra 12 e 15 rupie al litro, ovvero 5.000 volte di più!
La Coca Cola ha una storia travagliata in India. Come altre aziende occidentali - dalle bibite ai computers - fu buttata fuori dal paese nel 1977, quando una legge sugli investimenti stranieri aveva imposto che il controllo delle società fosse indiano. Solo nel 1993 è tornata sul suolo indiano e in fretta si è creata un ampio mercato, da un lato acquistando 22 marchi di bibite locali, dall'altro imponendo prezzi bassi, almeno per gli oltre 250 milioni di indiani middle class. Fino a espandersi alla nuova frontiera: le bottiglie di acqua filtrata.
L'area di Wada, prevalentemente tribale, è dal 1983 una D-zone, zona di sviluppo, dove le industrie sono incoraggiate a insediarsi. Hindustan Coca Cola anni fa comprò la terra per il suo stabilimento da diverse famiglie locali a poco prezzo, con la promessa di lavoro per tutti. Il lavoro però non è arrivato: l'impianto è capital intensive, e i 500 lavoratori e impiegati non vengono dalla zona perché, ha spiegato la dirigenza, «i locali non avevano le competenze richieste». Né lavoro, né acqua.” Penso che l’articolo non abbia bisogno di ulteriori commenti, apre tuttavia tutta una serie di spunti di analisi. Al di la di quelli ovvi sul marketing dell’azienda, non siamo di fronte ancora una volta allo sfruttamento di un popolo?( nella fattispecie quello indiano). E’ veramente un fenomeno globalizzante?
Questo mio articolo non ha alcuna pretesa di esaustività, né di originalità. E’ un modo per porsi domande e per non dimenticare .
Maria Lucia Mette
Il tuo articolo mi è piaciuto molto.
RispondiEliminaNon sapevo di questa triste storia legata alla coca cola.
Associavo questa bevanda all'azienda che, per questioni di marketing, aveva cambiato in "rosso" il "verde" vestito del Babbo Natale che tutti conosciamo.
Coca cola e antropologia mi ricorda un film,"ma che siamo tutti matti?" , dove una tribù africana che mai ha avuto contatti con le cosi dette società che noi chiamiamo moderne, trova una bottiglietta di coca cola e la elegge a divinità.
Ora so che dietro questa bevanda vi è anche una storia ben più triste.
Mauro
PS.
RispondiElimina...la seconda parte del titolo mi ricorda qualcosa !!!
Mauro
Ci sono bambini che giocano con i palloni da calcio e ci sono bambini che li fabbricano. Come la Coca-Cola, tante altre aziende multinazionali che stanno distruggendo risorse naturali e interi popoli. Basta guardare cosa sta facendo l'ENEL in Patagonia. Cito dal sito salvaleforeste.it: "Il progetto HidroAysén minaccia 12 riserve forestali protette, con 15.645 devastati dagli impianti, e altri 4.6 milioni di ettari di paesaggi naturali degradati: un elettrodotto ad alta tensione attraverserà la Patagonia, fino alla capitale, con 2.200 chilometri di linee ad alta tensione, toccando otto regioni e 64 comuni. Tutto cio’, grazie ai "derechos de agua", acquisiti sotto dittatura militare.
RispondiEliminaLe dighe, costruite in zona sismica, rischiano di trasformarsi in autentiche bombe a tempo, mentre la distruzione dell'ambiente annulla il potenziale turistico dell'intera regione." e continua: "Il complesso di progetti HidroAysen, prevede la costruzione di cinque mega-dighe e 2.200 km di linee ad alta tensione che collegherà il sud della Patagonia a Santiago. L'energia idroelettrica, spesso presentata come rimedio al cambiamento climatico, è in realtà responsabile del 4% delle emissioni di gas serra, eppure si vede assegnare 'crediti di carbonio', che sarà rivenduta ai paesi industrializzati.
Dal 2006, i cittadini della Patagonia e oltre cinquanta associazioni si battono contro il progetto HydroAysen." Il tutto alla faccia della tanto nominata "green economy"!
Credo che l'Antropologia abbia un forte dovere d'informazione nei confronti di questi fatti. La distruzione di foreste, il prelevamento di fonti idriche, non solo provocano disastri ambientali importanti ma sono il peggior nemico di tanti popoli che stanno lottando quotidianamente contro la morte delle proprie tribù. Oltre il sito di salvaleforeste è interessante dare uno sguardo al sito survival.it che si occupa della difesa dei diritti delle popolazioni indigene in tutto il mondo. Consiglio di dare uno sguardo e riflettere.
RispondiEliminapurtroppo l'argomento apre tutta una serie di esempi che passano attraverso bibite o oggetti di uso quotidiano. Storie di sfruttamento da parte delle grosse multinazionali nei confronti dei più deboli, occultate sapientemente dai media. Molti sanno ma tanti sono coloro che preferiscono non sapere. E queste notizie si pescano quasi per caso. L'articolo del settimanale da me non volutamente citato osanna la Coca.cola come simbolo dell'umanità globalizzata e quant'altro ma non si sofferma nemmeno per un istante sulla gravità della situazione che questa multinazionale ha importato ( spesso con violenza) in molte aree deboli. L'argomento meriterebbe una lunga riflessione. Io invito quanti vorranno farlo a leggere e riflettere sugli articoli al proposito
RispondiEliminapresenti nel sito sottostante sulla Campagna di boicottaggio della coca.cola in india: http://www.tmcrew.org/killamulti/cocacola/india_boycott.html