venerdì 3 giugno 2011

LA “TRADIZIONALE” CAVALCATA……….. DELLE INVENZIONI?

Da qualche settimana si è conclusa quella che viene definita la “tradizionale cavalcata sarda”. Sessantadue edizioni che uniscono il tradizionale o pseudo tale allo storico.
Quest’articolo non vuol essere certo esaustivo per chi intenda occuparsi dell’ aspetto folklorico, si pone solo come input di un ragionamento più ampio che tocca da vicino aspetti tanto cari a chi studia l’antropologia.
Mario Atzori, docente di Storia delle tradizioni popolari, nel suo “Cavalli e Feste” del 1988 definisce la Cavalcata sarda come “…una sfilata di rappresentanti di numerose comunità della Sardegna vestiti con abiti tradizionali. Si tratta di una manifestazione istituita agli inizi degli anni ’50, nel quadro culturale dell’immediato dopoguerra, quando si intendeva valorizzare le tradizioni locali per fini di richiamo turistico…”.
I primi organizzatori occupatisi dell’istituzione della Cavalcata nonché della corsa al palio ad essa collegata, si appigliarono in qualche modo, all’usanza secondo cui, in passato, venivano organizzate delle cavalcate di cittadini che, spesso con obbligo, dovevano recarsi alle periferie dei centri abitati per ricevere personalità e autorità giunte a visitare la Sardegna.
Se volessimo ricercarne delle origini storiche dovremmo risalire all’inventore Enrico Costa che nel  1899, anno in cui fu istituita la prima cavalcata in onore della visita del re Umberto I e della regina Margherita. La pianificazione dell’evento fu dettata soprattutto dall’allietare i due sovrani con l’organizzazione di qualcosa che mettesse in risalto i costumi locali. Alla domanda di cosa fare per allietare i due sovrani, Costa propose la sfilata di 600 coppie a cavallo e qualche altro centinaio  a piedi, tutti con il costume del paese.
Se volessimo essere più precisi, persino nel 1556, si parla di un’occasione di Cavalcata, per l’assunzione al trono di Filippo II di Spagna. Nel 1693, si organizzò una cavalcata in onore del Conte di Altamura, che giungeva da Cagliari a Sassari con l’intento di “reprimere i contrabbandi che vi facevano i preti e i frati”.
Questo brevissimo excursus pone in essere un aspetto caratterizzante questa manifestazione, purtroppo celato di fronte agli spettacoli e al resto. Anzitutto alcune considerazioni che emergono immediatamente: la Cavalcata non è tradizionale. Almeno non nel senso con cui viene proposta al di fuori dell’isola. La sua storia è emblema della debolezza insita nel popolo sardo, piegatosi in più occasioni al forestiero. Riprende in toto quella parte non tradizionale che con un pizzico di provocazione  si potrebbe definire “servile”. Questo per due motivazioni : quando negli anni ’50 la Cavalcata ha smesso di essere organizzata come offerta a principi, regnanti ed ospiti illustri, si è passati direttamente alla funzione turistica, tanto da diventare una delle rassegne folkloristiche più importanti della Sardegna conosciute ormai a livello europeo.
Non entrerò nel merito della manifestazione in se, penso che vi siano articoli più esaustivi di questo, ma mi è impossibile fare alcune considerazioni sull’oggetto ( o uno degli ) principali che caratterizzano la manifestazione: i costumi di Sardegna. E’ impossibile non notare che nel corso delle oltre 60 edizioni si siano moltiplicati i casi di abiti di comuni talvolta sconosciuti che in questa spettacolare kèrmesse turistica hanno trovato terreno fertile. Iniziamo con ordine. Per farlo e capire di cosa si parla quando si dice “inventare un qualcosa per fine turistico” non si può non fare riferimento a un’opera uscita alla stampa un paio di anni fa. “Costumi e gioielli di Sardegna, paese per paese” edito da L’Unione Sarda. Emblematica raccolta di 377 ( si proprio 377) abiti o gioielli tradizionali dei diversi comuni sardi. Prima domanda: E’ possibile che tutti i comuni della Sardegna disponessero di un abito tradizionale? Il I° volume riporta che molte ricostruzioni sono state fatte da privati, aggiungendo successivamente che “..non sempre le ricostruzioni sono state fatte con l’attenzione dovuta, spesso per mancanza di esperienza e informazioni…”, “…TALVOLTA L’ENTUSIASMO DI ESSERE PRESENTI NELLE MANIFESTAZIONI FOLK HA FATTO SI SIANO COSTITUITE DELLE FORMAZIONI I CUI ABITI SONO STATI CONFEZIONATI IN SEGUITO AD UNA RICERCA POCO ACCURATA… Già questa sembra una prima ammissione di quello per cui molti antropologi si battono : invenzioni. Non possiamo dimenticare che molti abiti tradizionali ( non ne citerò alcuno per correttezza anche se vorrei fare una lunga lista) sono stati ricostruiti sulla base di una semplice fotografia, nei casi più disparati affidandosi alla memoria talvolta poco lucida degli anziani. Talvolta, alcuni abiti sono nati nonostante i paesi di provenienza fossero magari semplici frazioni fino a qualche decennio fa. Ma, come sappiamo, avere un costume piace, se poi il costume si può ricostruire subito anche inventando dei pezzi ben venga, l’importante è averlo, perché piace al turista che individua il popolo sardo con il costume tradizionale.. ovviamente è corretto precisare che fra tutti i paesi ve ne sono alcuni che hanno affidato le loro ricostruzioni storiche ad esperti.
Come già detto, manifestazione in cui il costume si esprime al meglio in tutto il suo splendore, è la Cavalcata sarda. Ormai da qualche anno ogni edizione sembra essere accompagnata anche da una punta di critiche mosse verso quella tanto agognata tradizionalità che spesso è venuta a mancare, secondo gli esperti, dovuta alle mille sfaccettature dell’epoca moderna. Come dimenticare nelle passate edizioni la presenza di figuranti con piercing nelle parti visibili lasciate libere dal costume, o unghie dipinte con colori abbinati all’abito stesso? Provocazione: perché in quell’occasione si è gridato allo scandalo, imponendo per le edizioni successive delle restrizioni per tutelare l’originalità della tradizione??? Se in primis molti degli abiti non rispettano l’originalità semplicemente perché inventati di sana pianta?
In ultimo lancio una grossa provocazione: un antropologo che fra cento anni volesse ricostruire il nostro abbigliamento tradizionale ci dipingerebbe tutti con gli stessi jeans e la stessa maglietta???

Maria Lucia Mette

3 commenti:

  1. «[…]meno le culture umane erano in grado di comunicare fra loro, e quindi di corrompersi a vicenda, meno i loro rispettivi emissari potevano accorgersi della ricchezza e del significato di quelle differenze».
    La nostra è la società dell’informazione: grazie ai mass media, le possibilità comunicative dell’uomo sono aumentate in maniera esorbitante negli ultimi anni. E ciò è spesso sfruttato per una sempre maggiore visibilità anche a fini economici.
    Uno degli effetti del processo di globalizzazione proprio della società contemporanea è la temuta perdita delle proprie peculiarità culturali. Per cui, se da una parte si teme la diversità altrui (vista come minaccia per la propria “identità” culturale), dall’altra si ricerca affannosamente il proprio essere differenti (anche a costo di reinventarsi) per emergere nella massa globalizzata. Tante le contraddizioni.
    Nella ricerca di questi caratteri tipici o tradizionali che dir si voglia, il recupero di un qualcosa appartenente al passato storico di una comunità, ormai dimenticato o andato perso, è assolutamente auspicabile, se reale. Spacciare per realmente esistito qualcosa inventato di sana pianta è, a mio parere, disonesto nei confronti dei contemporanei che, non avendo gli strumenti, si affidano al sapere altrui e fuorviante nei confronti dei posteri. Quale confusione per chi si accingerà fra cinquanta, cento anni a studiare alcune manifestazione culturali dei giorni nostri? Questo non significa che ci si debba chiudere nella propria tradizione, cosa a cui per altro sono assolutamente contraria. La tradizione necessità d’innovazione. Ma scelte di questo tipo non portano certamente ad un recupero di una propria identità originaria, se questo è l’obiettivo. Né della propria storia passata, in quanto di originale e originario non vi è proprio nulla. Ipotizzo molto banalmente che basterebbe anche solo accompagnare la sfilata (perché nello specifico è di questo che stiamo parlando) con una brochure esplicativa in cui, dei vari costumi, si fornisce una sorta di carta d’identità. Ognuno avrebbe così la giusta collocazione, chi nel passato, chi nel presente, ma chiara per tutti.
    Ma l’alternativa migliore sarebbe affidarsi ad altre strade, sebbene più impegnative, magari anche rinunciando alla tanto desiderata visibilità. Altrimenti si rischia solo di perdere completamente il contenuto culturale e di ridurre il tutto, come dicevi, ad uno spettacolo per turisti.

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  2. Scusate! La citazione da me riportata è di Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955), trad. it., Il Saggiatore, Milano, 1960, p. 41

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  3. Mi sono appena capitate sotto gli occhi alcune frasi di Ugo Fabietti che cascano a pennello col mio discorso e le vorrei condividere. Le cito da Elementi di antropologia culturale, Mondadori, 2004, p. 35.

    «L’antropologo non mira a preservare le culture in una astratta autenticità. Gli antropologi sanno bene che le culture cambiano, si modificano, si adattano e a volte scompaiono… La funzione critica dell’antropologia non si esaurisce infatti nella difesa delle culture più deboli, ma consiste nell’individuare le trasformazioni delle culture in contesti storici differenti che le hanno poste in contatto con le forze del colonialismo e che oggi le espongono a quelle della globalizzazione».

    Non pensate che questo stesso discorso generale sulla cultura possa essere applicato anche ad un suo aspetto particolare, ossia la tradizione?

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