Nel leggere il testo “Antropologia Culturale: l'esperienza e l'interpretazione” di Ugo Fabietti, mi sono soffermato a riflettere su un aneddoto raccontato dallo studioso per spiegare i diversi punti di vista, nati dalla diversa percezione del paesaggio, che intercorrono tra forestiero (nel caso del Fabietti da intendere come antropologo) e nativo.
L'episodio narrato ha per protagonista J. W. Goethe durante un suo viaggio in Italia.
Trovandosi in un piccolo paesino del Veneto e venuto a conoscenza della presenza delle vecchie rovine di un castello, si recò a visitarle. Affascinato dalla bellezza del luogo e dalla poesia che quei vecchi muri gli suscitavano, volle condividere la sua gioia con gli abitanti del luogo. Questi dall'inizio non capivano, erano solo delle vecchie rovine, cosa mai potevano avere di tanto speciale?
Dovettero ricredersi solo quando Goethe li invitò a riflettere sulle reali bellezze che quel luogo esprimeva. I loro occhi, sino a quel momento da sempre abituati al quel paesaggio, “non potevano avere il distacco sufficiente per osservarlo come era invece in grado di osservarlo uno straniero”.
Ho voluto prendere spunto da questa storia per raccontare due fatti simili che mi sono capitati e che mi hanno portato a riflettere sulle cose che mi circondano e che...non vedo.
Quando ero bambino venne a farmi visita dalla città mia nonna. Io al tempo abitavo in un piccolo paesino. La domenica, rientrata dalla messa, mia nonna disse che in chiesa aveva assistito a una cosa che vedeva solo ai tempi della sua infanzia, ossia i fedeli si sedevano nelle due file delle panchine dentro la chiesa disponendosi in una maniera non casuale ma dividendosi per sesso. Nella parte sinistra davanti all'altare stavano gli uomini, in quella destra le donne. Alla stessa maniera i bambini stavano in piedi al lato di queste panche: i bambini maschi all'estremità sinistra delle panchine dove sedevano gli uomini, le bambine all'estremità destra di quelle dove sedevano le donne.
Era una cosa alla quale mai avevo fatto caso sino in fondo. Una consuetudine che traeva le sue origini in un tempo lontano e che ora è andata perduta.
Il secondo fatto, ben più recente, si riferisce a qualche anno fa quando lavoravo come guida turistica.
Mi trovavo a camminare con dei turisti per raggiungere un certo sito. D'un tratto si fermarono a guardare rapiti verso il muretto a secco che delineava il cammino. Essendo questo un fatto che già era capitato con altri forestieri, decisi di avvicinarmi a loro e domandare cosa ammirassero di tanto speciale. Mi risposero il muro. Quel piccolo muretto fatto con grosse pietre di granito attirava i loro sguardi. Da loro i muretti si fanno con il cemento, mi dissero, e di certo il granito non è una pietra che si trova facilmente dalle loro parti. Da quel giorno ho imparato che anche un muretto a secco, vecchio di anni, costruito nella sua perfezione da chissà quali mani, è poesia, è parte di me, sono io.
Spesso le parti di noi che più perdiamo sono quelle che ci circondano, che ogni giorno vediamo ma non osserviamo, che diamo come scontata la loro presenza. Vorrei delle volte essere un turista nella mia terra per imparare a scoprirla in quelle piccole che non riesco a vedere.
Mauro Pirisinu
"(…) La sfera di ciò che pensiamo e facciamo
RispondiEliminaè limitata da ciò che non riusciamo a notare.
E siccome non riusciamo a notare
che non riusciamo a notare
c’è poco da fare per cambiare
finché non notiamo
come il non riuscire a notare
modelli i nostri pensieri e le nostre azioni”.
http://olbianascosta.blogspot.com/2011/01/di-lu-naracu-di-olbia-e-di-altre.html
RispondiEliminaAbbiamo avuto la stessa "musa ispiratrice"!
RispondiEliminaMauro