mercoledì 23 febbraio 2011

CARRASCIALI TIMPIESU: TRADIZIONE O MARKETING?

Mi sono sempre chiesto in questo periodo perchè il carnevale di Tempio Pausania (carrasciali timpiesu) sia così lontano dalle tradizioni sarde. Penso al vero carnevale sardo, su carrasecare , i carnevali di Mamoiada, Bosa, Ovodda, solo per citarne alcuni, e le tradizionale figure dei Mamuthones, Boes e Merdules, ecc..
Mi chiedevo "possibile che il mio carnevale, quello che geograficamente più mi rappresenta, sembra quasi un distillato del più noto carnevale di Viareggio?".  E chi sono Giorgio e Mannena? E perchè la caratteristica principale di questo carnevale è la satira politica?
Ho quindi cercato su libri una qualche spiegazione storica.
Trovo così un primo libro, Tempio e il suo volto, e vedendo che gli autori sono Manlio Brigaglia e Franco Fresi (due nomi molto noti nella Sardegna intellettuale) mi butto subito nella lettura. Trovo il capitolo che mi interessa, lo leggo e provo a farne un piccolo riassunto..
Anticamente anche in Gallura si festeggiava questa lontana festa pagana risalente a culti agrari. I pastori degli stazzi si recavano in altri stazzi o nei paesi vicini vestiti con pelli di animali, spesso di volpe (mazzoni) o lepre (lepparu),  per fare scherzi e bere qualche bicchiere di vino mentre consumavano alcuni dolci che le donne preparavano solo per quel periodo dell'anno. Nei villaggi le maschere più frequenti erano quelle create da vecchi abiti (mascari brutti) con a tracolla campanacci e sonagli vari. 
La domenica di carnevale era consuetudine fare una corsa a cavallo con le maschere e ingaggiare con amici e parenti una finta guerriglia fatta di lanci di fiori e battute pungenti;
Le ultime due domeniche di carnevale erano le più interessanti. Quattro persone mascherate uscivano insieme e formavano un coro. La voce più bella era chiamata la bocì. Nel canto doveva primeggiare mentre le altre tre fungevano da accompagnamento.
Durante il martedì di carnevale si usava in alcuni paesi "sporcare" di nero i passanti con la fuliggine, o con la crema per le scarpe, o con lanci di farina.
Il martedì grasso si usava portare in processione Ghjogliu (Giolzi, Jogliu), re Giorgio, che altro non è che il carnevale stesso. Era questo un fantoccio di paglia trasportato su di un carro trainato da buoi con posta sopra una grossa botte di vino e tante damigiane e, a seguire, dietro il carro, tutti i sudditi, ossia le maschere che ballavano, scherzavano e bevevano in allegria.
Interrompo un attimo la lettura. Vedo un anello di congiunzione. Il carro...il pupazzo...il vino...i sudditi...sono tutti elementi che ritrovo adesso. Il carro oggigiorno non è più trainato da buoi ma da un trattore; il vino sul carro (ma sarebbe meglio dire sui carri) vi è sempre e in grande quantità; e i sudditi-maschere in realtà oggi non seguono Ghjogliu ma lo precedono in quanto è lo stesso Re Giorgio che chiude la sfilata dei carri.
Continuo a leggere...
A mezzanotte la fine del carnevale era avvertita dal suono delle campane. I balli finivano e le maschere venivano levate. Nella piazza quattro individui portavano una bara con all'interno il fantoccio di Ghjogliu e dopo aver letto le tristi azioni compiute dal sovrano durante l'anno lo si condannava a morte bruciandolo.
Finita la lettura penso a come una festa tradizionale sia stata modernizzata in maniera troppo veloce e sbagliata per attirare i turisti. Giorgio esiste ancora ma ora ha anche una regina: Mannena. I loro sudditi non ballano più in piazze ma in sale da ballo. Il carro non è più uno solo, quello di Ghjogliu, ma è accompagnato da molti altri, provenienti anche dai paesi vicini. Il pupazzo (i pupazzi) non sono più dei fantocci di stracci e fieno ma giganti di carta pesta. La condanna a morte non viene più letta nell'antica piazza (piazza Gallura) per motivi di sovraffollamento ma in un parco usato il sabato per il mercato. Li viene anche condannato al rogo, un atto esorcizante per lasciarsi alle spalle l'anno vecchio e affrontare il nuovo.
In verità sulla figura di Giorgio e sulla sua condanna a morte trovo un altro anello di congiunzione con l'antica tradizione. Le radici vanno ricercate nelle credenze e nei riti pre-cristiani nonché nel culto dei morti in ambito agro-pastorale e forse il suo nome deriva dal greco Gheorgheo cioè Dionisio e voleva ricordare uno spirito angusto che coperto di campane e catene si aggirava sofferente per le vie di un centro abitato.
Ho consultato un altro paio di libri tramite i quali riesco a far risalire la sfilata dei carri (così come la vediamo oggi) al 1956. Mentre leggo, scopro il nome di un altra maschera: lu Linzolu Cupaltatu. Era questo un lungo lenzuolo che veniva usato per nascondersi totalmente e risultare quindi irriconoscibili. Può ricordare forse l'immagine di un fantasma. Questa maschera veniva utilizzata per lo più dalle donne e si può presumere che il Domino di oggi (molto in voga in Gallura sino a vent'anni fa e poi sostituito da abiti confezionati e maschere di gomma) sia un Linzolu Cupaltatu in chiave moderna.
Trovo nuove informazioni sui “sovrani” del carnevale tempiese. Il primo nome di Giorgio fu Jogliu Puntolghiu (pungolo) e la figura di Mannena, detta mangiatrice di uomini e lussuriosa, iniziò a comparire solo dopo la prima guerra mondiale sempre rappresentata con il seno scoperto.
Ma come avviene l'incontro tra i due sposi?
Lu Carrasciali timpiesu dura in tutto sei giorni. Il re e la sua comitiva partono da una zona periferica di Tempio, Rinaggiu, e si dirigono verso la città alla ricerca di una sposa presso le classi umili. Una volta trovata la sposa, Mannena, dopo tre giorni Giorgio la ripudia lasciando i propri sudditi nello sgomento. Questi allora decidono di deporlo e dopo aver letto pubblicamente le accuse infamanti di cui si è macchiato (accuse che vogliono essere critiche volte all'amministrazione comunale e al governo stesso) lo si condanna al rogo. Nell'ultimo suo viaggio il re verrà accompagnato da bande musicali che suonano la “marcia trionfale n.69”.

Carrasciali timpiesu: tradizione vs modernità (pro turismo), o normale adeguamento di un carnevale, che in passato non si è mai accostato ai carnevali dei mamuthones, ai tempi odierni?
Ai posteri l'ardua sentenza...”.

                                                                                                  Mauro Pirisinu



Biografia

Brigaglia M., Fresi F.,1985, Tempio e il suo volto, Sassari, Carlo Delfino editore

Concu G., Ruiu F.S., 2006, Carnevale e maschere in Sardegna, Nuoro, Concu Giulio editore

Porcu G., 2008, Carnevale in Sardegna, Sassari, Isola editore

domenica 20 febbraio 2011

Due righe su Carnevale e identità

Prendendo un caffè in un bar ho trovato, poggiato su un angolo del bancone, un volantino molto interessante sul carnevale sardo che si intitola semplicemente “Carrasegare” e pubblicizza le «mascaras de su connottu», le maschere tradizionali sarde. Carnevale, si sa, è tempo di maschere, specialmente in Sardegna, ma che io mi ricordi non sono mai state tante come quest’anno. Il volantino in questione, curato dalla Regione Sardegna e in particolare dall’Assessorato al Turismo, presenta infatti ben 31 paesi con corrispettive maschere: 
1.      AIDOMAGGIORE – Mascara a lentzolu 
2.      ARITZO – Urtzu, Mamutzones 
3.      AUSTIS – Urtzu, Colonganos 
4.      CUGLIERI – Cotzulados 
5.      FONNI – Urthos, Buttudos 
6.      GADONI – Maimoni, Stramaioni, Grastula 
7.      GAVOI – Tumbarinos 
8.      GHILARZA – Maschera a lentzolu, Burrones 
9.      LACONI – Corongiaiu 
10.  LODÈ – Mascaras nettas, Mascaras bruttas 
11.  LODINE – Sas Umpanzias 
12.  LULA – Battiledhu 
13.  MAMOIADA – Mamuthones, Issohadores 
14.  NEONELI – Farrapoddine, Corriolos, Maschera ‘e cuaddu 
15.  OLLOLAI – Bumbones, Turcos, Maria Vressada, Maria Ishoppa, Mama ‘e su Sole 
16.  OLZAI – Intintos, Maimones, Murronarzos 
17.  ONIFERI – Maimone, Biudas 
18.  ORANI – Bundu 
19.  ORISTANO – Componidori 
20.  OROSEI – Maimones 
21.  OROTELLI – Thurpos, Erittaju 
22.  ORTUERI – Urtzu, Sonaggios 
23.  OTTANA – Boes, Merdules, Filonzana 
24.  PAULILATINO – Corrajos 
25.  SAMUGHEO – Mamutzones, Urzu 
26.  SARULE – Maschera a gattu, Maimone 
27.  SEDILO – Filonzana 
28.  SESTU – Mustayonis, Orcu Foresu 
29.  SINNAI – Cerbus 
30.  ULA TIRSO – Urtzu, Bardianos 
31.  ULASSAI – Maimulu
Una rapida consultazione di siti internet dedicati all’argomento ha permesso di aggiungere una ulteriore maschera non compresa nel programma regionale: 
32.  PADRU – Mascadores
Un totale quindi di 32 paesi con (ben) 57 maschere. Dire che siamo in presenza di una vera e propria esplosione di revivalismo folklorico sarebbe un eufemismo, anche considerando che sino a qualche anno fa gli unici centri interessati dal fenomeno erano Mamoiada, Ottana e Orotelli.
Qualche riflessione è quindi opportuno farla…
La prima cosa che viene in mente è bollare tutta l’iniziativa come operazione commerciale a fini turistici e inserirla in un discorso che va avanti pressoché ininterrotto da secoli e che propone la Sardegna come la più prossima delle terre esotiche, come «una terra romanticamente misteriosa e accattivante da conoscere e da studiare»[1]. Un modo di proporsi che, come ieri è servito ad attirare  una parte dell’elite europea alla ricerca di mete alternative al canonico grand tour, oggi attrae nell’isola una fetta rilevante del turismo culturale internazionale.

L’iniziativa regionale “Cassaregare” si somma quindi ad altre analoghe quali “Ischinziddas dae su coro”, sui fuochi di S. Antonio, e “Ritos de sa Chida Santa”, riguardante la Settimana Santa, nel progetto “Isola che danza”, il cui obiettivo è:

«sviluppare un processo di promozione dell’immagine unitaria della Sardegna durante il periodo di bassa stagione (autunno-inverno-primavera) attraverso la qualificazione sistemica e coordinata di manifestazioni consolidate aventi contenuti fortemente identitari e tradizionali a livello locale, attualmente promosse in modo disaggregato nel territorio della Sardegna»[2].

I concetti chiave sono, in sostanza due: destagionalizzare il flusso di turisti e coordinare le manifestazioni locali. Il tutto promuovendo un’immagine “unitaria” della Sardegna attraverso “contenuti fortemente identitari e tradizionali”.
Questa vera e propria dichiarazione d’intenti porta necessariamente ad un secondo livello di riflessione. Analizzare il moltiplicarsi di queste iniziative esclusivamente dal punto di vista economico significherebbe guardare solo un lato della medaglia. Se è indiscutibile che certe iniziative vengano realizzate per attirare turisti è anche vero che rispondono ad esigenze di altra natura, culturale e simbolica, che hanno comportato in questi ultimi anni un sostanziale ribaltamento dei significati connessi al concetto di “arcaico”. Fino a qualche anno fa il termine era usato per indicare qualcosa di antiquato, di sostanzialmente inadeguato alle sfide che la modernità imponeva; oggi diventa elemento essenziale della presunta autenticità conservata dalla Sardegna.
La “globalizzazione”, è fatto ormai ampiamente studiato e documentato, comporta tendenze omologanti sul modello culturale occidentale contro le quali ci si difende cercando rifugio in pratiche e saperi a torto o a ragione etichettati come “tradizionali”. L’universo culturale legato all’economia pastorale si propone quindi come l’unico sufficientemente coerente da permettere la creazione di un vero e proprio nuovo paradigma identitario. Le maschere del carnevale non sono quindi altro che una tessera di un mosaico che sempre più sta diventando l’unico modo possibile di presentarsi e di rappresentarsi: in maniera paradossale, nel tentativo di sfuggire ad un processo di omologazione ci si espone ad un altro.
Adeguarsi al paradigma pastoralistico comporta, se necessario, realizzare delle forzature: se la realtà non collima con l’immagine con cui ci si vuole presentare la si adegua sino alla perfetta corrispondenza. Hobsbawm e Ranger (2002) hanno utilizzato a riguardo l’espressione molto forte di “invenzione della tradizione”. A scanso di equivoci voglio precisare che non è mia intenzione dare giudizi di valore nè è intenzione di queste poche righe analizzare approfonditamente un processo tanto complesso. L’assenza di ricerche “indipendenti” che permettano di valutare i metodi utilizzati per la ricostruzione di maschere la cui memoria si era persa impone una doverosa cautela. Almeno formalmente si è innocenti sino a prova contraria…
È innegabile che questa arcaicità così orgogliosamente esibita esista perché soddisfa i desideri di molti: dei sardi, dei turisti e diciamocelo, tutto sommato anche degli antropologi, che possono registrare l’ennesima prova di vitalità di una cultura popolare troppo spesso data per spacciata.

Alessandro Pisano

Bibliografia

Bandinu B., 2006, Pastoralismo in Sardegna. Cultura e identità di un popolo, Milano, Zonza
Baumann Z., 2003, Intervista sull’identità, Roma – Bari, Laterza
Hobsbawm E. – Ranger T., 2002, (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi (ed. or. The invention of tradition, Cambridge, 1983)
Remotti F., 1996, Contro l’identità, Roma – Bari, Laterza
Remotti F., 2010, L’ossessione identitaria, Roma – Bari, Laterza


[1] http://www.sardegnaturismo.it/viaggiatori/delpassato/
[2] http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_344_20101222174332.pdf

sabato 19 febbraio 2011

La festa di San Giovanni ad Olbia


Il 24 giugno di ogni anno viene celebrata ad Olbia, come in altre parti della Sardegna, ma più in generale dell’Europa, una festa in onore di San Giovanni Battista.
La data del 24 giugno (solstizio d’estate) non è casuale, ma risponde a precise dinamiche calendariali e rituali. Pur essendo parte integrante e ormai consolidata del calendario liturgico cattolico, San Giovanni affonda le sue radici in celebrazioni precristiane, assorbite in qualche modo dalla Chiesa, anche se non totalmente: vedremo di dare spiegazione della sua collocazione calendariale, degli elementi purificatori (acqua e fuoco) e della pratica del comparatico. In seguito esamineremo, invece, le modificazioni avvenute per quanto riguarda Olbia.
Olbia, doveva avere, prima degli anni ’20 del novecento, un’economia di tipo agrario (Casalis, 1850, pag. 834; Valéry, 1837, pag. 37) e, solo successivamente, ha sfruttato il mare con l’arrivo dei pescatori ponzesi e tarantini (Rodriguez, 1996). Non è superfluo specificarlo, dal momento che la festa di San Giovanni è una delle principali cesure all’interno del calendario rituale contadino. Come sostiene Vittorio Lanternari, esiste una continuità tra Natale e San Giovanni, in primo luogo perché si collocano in due periodi dell’anno cruciali per la crescita del seminato e, in secondo luogo, dal momento che anche storicamente, in periodo romano, venivano celebrate due importanti feste: Fors Fortuna il 24 giugno, e Sol Invictus il 25 dicembre. Come è facile notare, queste due feste ricalcano precisamente Natale e San Giovanni dal momento che

Il solstizio estivo segna, col suo decrescere, una fine: la fine del Vecchio Testamento rappresentato da Giovanni: il solstizio d’inverno, che inizia la fase crescente del sole, segna una nascita: la nascita del Nuovo Testamento e dell’Era di Cristo. In questo modo il complesso mitico-rituale di S. Giovanni e il complesso mitico-rituale del Cristo si condizionano e fondono in un ciclo unico, quale meglio non poteva essere trovato per adattarsi al complesso solare e agrario. Ma le due feste hanno anche un altro punto in comune: e propriamente nella notte, a S. Giovanni e a Natale, che s’accentua la sacralità (Lanternari, 1967, pag. 330).

L’origine precristiana e agraria di questa festa è chiara, com’è chiara anche la volontà della Chiesa – soprattutto nei primi tempi, ma non solo – di eliminare le «superstiziose pratiche» collegate ad essa; per esempio Sant’Agostino afferma: «Natali Johannis, de sollemnitate superstitiosa pagana, Christiani ad mare veniebant et se baptizabant» (Ivi, pag. 332) che si può tradurre: «il giorno di San Giovanni, con superstiziosa solennità pagana, i cristiani andavano a battezzarsi al mare».
Compare dunque l’acqua, elemento, insieme al fuoco, caratterizzante in maniera decisa questa festa. Infatti l’acqua, come il fuoco, sono elementi storicamente associati alla purificazione, da intendersi come purificazione rituale che scarichi tutto ciò che di negativo si è accumulato durante l’anno per cominciare le nuove attività agricole in una situazione di purità (Petrarca, 1990, pag. 104). Sono note in letteratura antropologica diverse pratiche di questo tipo (cfr Frazer, 1950; Rivera, 1988; Buttitta, 2002; Grimaldi, 2002; per Olbia cfr De Rosa, 1899; Moretti, 1992). Tra le altre cose, la notte di San Giovanni, veniva considerata particolarmente magica e propizia per diversi tipi di vaticinii:

la notte di San Giovanni è considerata dai contadini un momento particolare, in cui avvengono grandi prodigi. Essi ritengono infatti che la rugiada, la rusà ’d San Giuvàn, che si forma in questa notte abbia proprietà benefiche. Per tale motivo alcuni vanno verso l’alba a raccogliere la camomilla che, bagnata dalla particolare rugiada, assume specifiche virtù terapeutiche; altri espongono il fiore della camomilla già raccolto (Grimaldi, 2002, pag. 206).

Mentre al mattino,

Alle prime luci dell’alba inoltre i Terranovesi accorrevano numerosi in riva al mare per assistere al sorgere del sole pro idere su sole ballende. Attendevano inginocchiati e silenziosi e dai riflessi dei primi raggi sulla superficie del mare, gli uomini traevano il pronostico sull’annata agraria e le donne quello sul matrimonio (Moretti, 1992, pag. 93).

Proprio in virtù del suo essere liminare (cfr Van Gennep, 2009), ponendosi, cioè alla fine di un periodo (quello della crescita del grano) e all’inizio di un altro (la mietitura), questa festa era fondamentale all’interno di un orizzonte socio-culturale di tipo agropastorale (cfr Buttitta, 2006), così come l’uso rituale dell’acqua e del fuoco come elemento purificatore.
Un’altra pratica importante relativa a San Giovanni era il comparatico: «sociologicamente parlando, come istituzione il comparaggio [o comparatico] assume una notevole varietà di forme e svolge un’ampia gamma di funzioni» (Seymour-Smith, 1991, pag. 96), tra cui quella di creare, attraverso il rituale del salto del fuoco in coppia, un legame sociale estremamente forte. Il “compare di San Giovanni”, risulta avere la stessa valenza di un compare di matrimonio o di battesimo, come sostenuto da diversi nostri informatori intervistati i varie occasioni. Da un punto di vista pratico De Rosa ci informa su tre diverse modalità per stringere su comparìu:

col fazzoletto, colla corona e col fuoco. Si fanno compari di fazzoletto prendendo una pezzuola bianca (simbolo della purità dei sentimenti e del casto legame che si vuole stringere), della quale ciascuno annoda una delle cocche, scambiandola con colui che gli sta di fronte: le cocche vengono annodate, ricambiate e snodate per tre volte consecutive e per tre volte ognuno annoda e snoda quella che gli è rimasta in mano, complimentandosi poi, seconda la diversa condizione dei compari, a vicenda colle parole: A molti anni; Dio vi dia pace e salute. Si fanno compari di corona, stringendosi a vicenda la destra mano, tenendo fra esse una corona, pronunziando, mentre se le stringono, i versi seguenti: comare e compare, / sa fide mi poltades, / sa fide mi poltei, / Santu Gjuanne e Dei, / Dei e Santu Gjuanne, / comare e compare, / sa fide non m'ingannes. (comare e compare, / la fede mi portate, / la fede mi porterete, / San Giovanni e Dio, / Dio e San Giovanni, / comare e compare, / la fede non tradire) (De Rosa, 1899, pagg. 175-176).

La festa di San Giovanni, dunque, appare fortemente caratterizzata da una serie di elementi rituali precristiani che la Chiesa ufficiale non è riuscita a sradicare, ma che – come spesso è accaduto nella storia – ha semplicemente accostato alla liturgia ortodossa;
Per Olbia le notizie bibliografiche di più antica data reperite fin’ora ce le fornisce De Rosa (1899) nel suo Tradizioni popolari di Gallura; in seguito si occupò della festa anche Moretti (1992) con Olbia: testimonianze di vita. La ricerca sul campo da me condotta nel 2009 e nel 2010 ha rivelato tutta una serie di fenomeni che si sono modificati. Basti pensare all’interruzione della festa avvenuta intorno agli anni ’50 del novecento, per poi essere ripristinata nel 1984 o 1985 da un gruppo di fedeli, ed essere accorpata alla festa della Madonna del Mare, un tempo divise.
Un altro aspetto di rilievo scomparso è l’uso dell’acqua, non rilevato nella ricerca, a differenza del fuoco che ancora viene acceso con una particolare erba detta in olbiese brundella; in merito a questo aspetto è però interessante notare come, prima della sospensione della festa, il fuoco fosse acceso non sul lungomare come oggi, ma nel quartiere di Sa rughe, come raccontatoci dai nostri informatori. Ancora, prima della sospensione, pare non fosse uso cucinare il pesce nelle grandi padelle come oggi. In merito a questo, si può affermare che anche il far pagare il pesce, da due anni a questa parte, è una modificazione rilevante, dovuta ad una difficoltà nella questua, la tradizionale raccolta di denaro per organizzare la festa, cui in pochi oggi contribuiscono, per una disaffezione e misconoscenza della festa; inoltre lo scarso (o nullo) aiuto finanziario fornito dal Comune costringe all’autotassazione da parte dei membri del comitato organizzatore.

Per ultimo sono mutate anche le dinamiche relative alla pratica del comparatico:

coloro che avevano deciso di farsi compari o comari si accordavano qualche giorno prima scambiandosi un nastro e si ritrovavano davanti ad uno dei grandi falò. […] Il primo salto veniva fatto da soli, si compiva in tal modo individualmente il primo atto purificatorio. Si formavano quindi le coppie. Uno dei due faceva il nodo ad un fazzoletto che passava all’altro perché lo sciogliesse e lo rifacesse ancora. Così per tre volte e per altrettante volte saltavano il fuoco tenendosi uniti col fazzoletto mentre ripetevano le parole rituali[1] (Moretti, 1992, pag. 93).

Da quanto rilevato nelle ricerche del 2009 e 2010, la rigida ritualità riportata dalla Moretti, non è stata assolutamente rilevata. Non sono più presenti né l’uso del fazzoletto, né delle parole rituali ripetute durante il salto.
Il ripristino della festa di San Giovanni non è quindi avvenuto seguendo rigidamente le pratiche, dinamiche e modalità del passato; è avvenuta, invece, una rifunzionalizzazione (cfr Bravo, 1984) che ha cercato di adattare la festa a quelle che sono le dinamiche della contemporaneità.
Domenico Branca



[1] La Moretti riporta una diversa formula rispetto a De Rosa: «Comare e compare / sa fide mi poltades / sa fide mi poltedi / Santu Juanne ’e Deu / sa fide non m’ingannedi / fin’a s’ora ’e sa molte (Comare e compare / la fede mi portate / la fede mi porterete / San Giovanni di Dio / la fede non m’ingannate / fino all'ora della morte» (Moretti, 1992, pag. 93).



BIBLIOGRAFIA

Bravo, G. L., 1984, Festa contadina e società complessa, Franco Angeli, Milano.
Buttitta, I. E., 2002a, Il fuoco. Simbolismo e pratiche rituali, Sellerio, Palermo.
Buttitta, I. E., 2006, I morti e il grano, Meltemi, Roma.
Casalis, G., 1850, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, Maspero-Marzorati, Torino, Vol. XX, voce Terranova.
De Rosa, F., 1899, Tradizioni popolari di Gallura. Usi e costumi, Arnaldo Fiori Editore, S.L.
Frazer, J. G., 1922, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, London, MacMillan; trad. it. 1973, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, 2 voll., Boringhieri, Torino.
Grimaldi, P., 1993, Il calendario rituale contadino. Il tempo della festa e del lavoro fra tradizione e complessità sociale, Franco Angeli, ed. 2002, Milano.
Lanternari, V., 1967, Occidente e terzo mondo, Dedalo, Bari.
Moretti, P., 1992, Olbia: testimonianze di vita, Stampacolor, Sassari.
Petrarca, V., 1990, Le tentazioni e altri saggi di antropologia, Borla, Roma.
Rodriguez, G., 1996, “La mitilicoltura ad Olbia” in Tognotti, E. (a cura), Da Olbìa ad Olbia. 2500 anni di storia di una città mediterranea, EDES, Sassari.
Seymour-Smith, C., 1991, Dizionario di Antropologia, Sansoni, Firenze.
Valéry, 1837, Voyages en Corse, a l'île d'Elbe, en Sardaigne, Tome Second, Librairie de L. Bourgeois-Maze, Paris; trad. it. 1996, Viaggio in Sardegna, Ilisso, Nuoro.
Van Gennep, A., 1909, Les rites de passage, Nourry, Paris; trad. it. 2009, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino.