domenica 25 settembre 2011

Il bambino "apprendista"

Il potere di concentrazione di piccoli bambini da tre a quattro anni di età non ha riscontro altro che nel genio.

Maria Montessori, Educazione alla libertà, 1950.

Per cercare di spiegare cosa significa realizzare la “libertà del bambino” Maria Montessori [1] fa riferimento anche all’attenzione “verso un materiale sensoriale” che lo guida attraverso l’esperienza che ne fa, in vista di un suo utilizzo razionale, che “lo rende padrone di una cultura” e ne forma il carattere.
Il bambino posto di fronte ad un “oggetto” lo usa “secondo lo scopo per cui è stato costruito” e ripete l’esperienza innumerevoli volte. Tutto ciò che accade in pratica è mosso da “un impulso interiore primitivo, quasi un vago senso di fame interna” che lo induce a ripetere la stessa operazione esercitando le sue attività psichiche e favorendo “uno sviluppo interiore”.
Si tratta di un’operazione che si rivela piacevole e che soddisfa un’esigenza interiore del bambino, “infatti l’attenzione del piccolo bambino non è stata nel nostro esperimento, trattenuta artificialmente da un «maestro», ma fu un «oggetto» che trattenne e fissò l’attenzione del piccolo bambino, come se corrispondesse ad un impulso interiore; (…)”.
L’impulso interiore del bambino corrisponde nelle cose a quelli che Ingold [2] definisce “prinicipi generativi incorporati nelle condizioni materiali” (Ingold, 2004: 206) di produzione degli oggetti. Nel caso della conchiglia “il principio è quello della proporzione invariante” cioè esso “attraverso una semplice iterazione, genererà sempre e invariabilmente una spirale logaritmica”, così per il cesto vale il principio che “ogni incremento di estensione longitudinale è attaccato, lato a lato, a quello precedente nel senso trasversale” e dunque genererà “sempre e invariabilmente una spirale aritmetica” (Ingold, 2004: 206).
Questa tensione tra uomo e materia si manifesta sin dai primi anni d’età quando i bambini “sembrano l’infanzia di uomini straordinari nei loro poteri di attenzione” (Montessori, 1999: 71).
Se al bambino vengono presentati gli oggetti “col loro cumulo di attributi” egli non elabora un proprio ordine interno di considerazioni e la sua interpretazione del reale non ha un fondamento sicuro, si basa bensì sulla confusione, su una elaborazione “passiva” che si allontana dal compito del maestro di “mantenere sempre viva quella luce in lui che si chiama l’intelligenza”.
“…come il Centauro saggia i venti e le fonti…Non è lo stesso per il bambino? …l’uomo fatto interrompe tali esperienze e, essendo appunto “fatto” cessa di farsi”. Il processo di apprendimento di un’abilità manuale, quale avviene in un contesto artigiano, include la prospettiva di Maria Montessori e quella contenuta nelle parole di Henri Focillon, nella sua opera Elogio della mano [3], di cui è stato riportato un breve estratto, poiché emerge da entrambi l’intrinsichezza dell’uomo con la materia.
La trasmissione del sapere nel contesto artigiano avviene by watching, by doing e by using.
Il “sistema tecnico” attraverso il quale il sapere artigiano viene trasmesso di generazione in generazione consiste nella trasmissione di “un tipo di realtà già di per se stessa organizzata in parti, in momenti e in operazioni che sono il risultato di operazioni razionali di organizzazione della realtà esterna e interna all’uomo operatore”.[4]
Gli oggetti hanno una storia: sono realizzati da qualcuno, in un determinato contesto e vengono impiegati da qualcun altro che ne sperimenta la funzionalità. L’artigiano conosce la storia dell’oggetto perché è lui a crearlo. L’oggetto è il risultato dell’impiego di una determinata materia prima secondo un paradigma d’azione che egli segue con rigore pratico e coerenza logica.
L’apprendistato come “modello formativo ed educativo” [5] (Emiliani, 1983: 205) è andato scomparendo nell’età industriale e non esiste un’istituzione ufficiale che abbia mantenuto il valore della trasmissione orale del sapere, un sapere come quello artigiano che non poggia sui libri ma sull’esperienza che si fa della materia in un contesto fortemente caratterizzato come la bottega di un artigiano: “(…) proprio nelle cose, negli oggetti, nelle pietre, si libera una nozione di tempo che non è vincolata a strutture mentali, morali, esemplari: ma piuttosto esistenziali e antropologiche” (Emiliani, 1983: 208).
Maria Lai elabora un “pensiero pedagogico” nel quale il bambino viene considerato come essere complesso in evoluzione nel tempo e nello spazio, la cui sensibilità deve essere educata in modo da renderlo disponibile all’esperienza della vita: “la crescita sale quando lo sguardo trova una guida e la possibilità di lunghi esercizi”. [6]
Giunti all’età di tre anni i bambini “maneggiano tutte le materie che riescono ad afferrare avidamente: carte, creta, sabbia, etc. iniziano così a ragionare: con gli occhi e con le mani (Pinto Minerva, 2007: 20). A coloro che li educano il compito di procuragli terreno fertile sul quale possano muovere autonomamente i propri passi verso l’arte di osservare: “Occorrerà indagare lungamente per quali ragioni e attraverso quali strade fin dalla seconda metà del secolo scorso la scuola, l’avviamento scolastico e pedagogico, abbiano fallito sostanzialmente il loro iniziale compito primario, che era appunto quello di surrogare e sostituire l’oralità dell’apprendistato (…)” (Emiliani, 1983: 205).
Il ramaio Giovanni Mura di Isili (Giovanni Mura, Isili, 1923, ramaio), esprime in una frase sia l’esperienza concreta di questo “apprendistato spontaneo” che il bambino compie, sia la consapevolezza del suo valore nella vita adulta dell’artigiano: “perché il laboratorio ce l’abbiamo avuto sempre a casa (…) da piccolino, voi mi insegnate, appena che cominci a camminare a piedi (…) vai a frugare e cosa frughi”? La manipolazione degli oggetti comincia sin dalla prima infanzia e se non viene inibita da un sistema educativo che vincola l’individuo imponendogli dei limiti piuttosto che assecondarne l’indole creativa, dura, in forme diverse, tutto il tempo della vita dell’uomo. Un’educazione che tenga conto della “necessità creativa” dell’uomo dovrà educare il suo sguardo sul mondo. Quando l’occhio, affinato da un processo di apprendimento in continua crescita, si troverà davanti ad un’opera d’arte o ad un oggetto di artigianato li guarderà con la stessa intensità con cui farebbe un bambino i cui sensi siano stati istruiti da un buon “apprendistato” che passa attraverso il ritmo, del gioco, delle ninne nanne e delle fiabe, attraverso cui egli cresce e diventa adulto.

Marta Gabriel


[1] Montessori M., Educazione alla libertà, (a cura di M. Luisa Leccese Pinna), Roma-Bari, Editori Laterza, 1999, pp. 68-81.
[2] Ingold T., Ecologia della cultura, Roma, Meltemi, 2004.
[3] Focillon H., Elogio della mano, Universidad Nacional Autònoma de México, México, 2006.
[4] Angioni G., Fare, dire, pensare in AngioniG., Da Re G., Pratiche e saperi. Saggi di antropologia, Cagliari, CUEC, 2003, p. 36.
[5] Emiliani A., L’artigianato, i suoi modelli culturali, la città storica in AA.VV., La salvaguardia delle città storiche in europa e nell’area mediterranea, Bologna, Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, 1983.
[6] Pinto Minerva F., L’arte per reinventare il mondo in AA.VV., Arte e creatività. Le fiabe e i giochi di Maria Lai, Franca Pinto Minerva Maria Vinella, Cagliari, A.D. Arte Duchamp, 2007, pp. 15-23.

mercoledì 7 settembre 2011

Il sentiero della memoria: un viaggio a ritroso nel tempo nell'isola dell'Asinara

10 agosto 2011, ore 9:00, ha inizio un’altra giornata di lavoro. La motonave Lem si appresta a traghettare noi operatori del Parco e una folla entusiasta di turisti dal porto di Stintino al molo di Fornelli, approdo meridionale dell’isola dell’Asinara. Una volta sbarcati prendiamo la macchina, destinazione Cala Reale e Cala d’Oliva. Oggi il mio turno sarà alla Casa del parco, l’ex ospedale dell’antico lazzaretto istituito nel lontano 1885 insieme alla colonia penale agricola. Giunta a casa del Parco, mi sistemo alla scrivania con la compagnia di un buon libro e aspetto l’arrivo di qualche visitatore. Verso le 11 arriva una coppia di anziani, in tenuta da spiaggia, con al collo l’immancabile macchina fotografica per immortalare il ricordo della visita nel parco nazionale, mi chiedono qualche informazione sui sentieri escursionistici, mostro loro i relativi depliants e la loro attenzione è catturata dal titolo del sentiero numero 5, “il sentiero della memoria”. Non mi ero mai fermata a riflettere del perché proprio questo sentiero, che da Cala Reale arriva sino all’Ossario, sia stato intitolato alla memoria dato che qui all’Asinara ogni pietra, ogni edificio è un inno alla memoria, un inno silenzioso, percepibile che narra di un passato i cui eventi storici hanno visto come protagonisti popoli di diversa etnia (greci, fenici, romani, turchi, genovesi, pisani, spagnoli, sardi, ponzesi, napoletani ecc.) che hanno costruito come un puzzle l’identità complessa dell’isola.
Il sentiero della memoria percorre la zona di Cala Reale e arriva sino a Campu Perdu dove c’è l’Ossario austro-ungarico: in questi luoghi, più di un secolo fa, vi erano le strutture dell’ex colonia penale agricola e la stazione sanitaria di quarantena per gli equipaggi delle navi in cui si era diffusa (o vi era il sospetto) una malattia infettiva (peste, colera, tubercolosi ecc.). In questa isola sperduta e poco abitata, preclusa per la presenza dei detenuti e per il lazzaretto, venivano dirottate le navi all’Asinara, per evitare che l’epidemia si propagasse sulla terraferma, gli infetti, una volta sbarcati su un molo di legno, venivano spogliati e disinfettati nelle apposite docce e distribuiti nei vari edifici distinti in tre periodi in cui si scontavano le tre fasi della contumacia; alcune di queste strutture sono state rifunzionalizzate ma conservano l’architettura di un tempo: l’edificio a due piani sede della direzione sanitaria, con foresteria, alloggio del medico e uffici, il fabbricato con cucina e sala da pranzo per i passeggeri di 1° e 2° classe, quello per i viaggiatori di 3° classe, la lavanderia (oggi sede del ristorante gestito da sognAsinara), l’ospedale (oggi Casa del Parco), la farmacia e il laboratorio batteriologico (oggi museo del mare), il forno crematorio con sala cineraria (trasformato negli anni ’50 in chiesa).
Nel corso della Grande Guerra (1915-1916) la zona di Cala Reale ospitò un campo di concentramento per i prigionieri di guerra austro-ungarici che dall’Albania furono deportati all’Asinara a bordo di vari piroscafi. Secondo il diario del generale Ferrari ne giunsero 30 mila di cui 8 mila morirono di colera e tifo. Il generale Ferrari diresse l’organizzazione del campo e l’accoglienza attivandosi per salvare la vita a molti di questi soldati denutriti, stremati dalle malattie, giunti sull’isola senza forze in preda alla disperazione: fece allestire accampamenti, tende, procurò viveri di ogni genere, vestiti, scarpe, coperte. L’Asinara accolse un esercito multietnico, multilingue, ma ogni soldato era legato agli altri da un comune destino: la prigionia in una terra lontana, condizioni umane precarie, desolazione, malattia, morte. Molti morirono e le loro ossa furono sepolte in fosse comuni o in cimiteri di cui ancora oggi rimangono croci e lapidi logorate dal tempo come il Cimitero degli Italiani a Campo Faro. I sopravvissuti furono grati al generale Ferrari e all’Italia perchè li aiutarono a riprendersi la loro vita, a recuperare la loro dignità umana attraverso il lavoro: furono così impiegati nella coltivazione dei campi, nella sistemazione dei giardini, nell’allevamento degli animali della colonia penale agricola, molti poi si impegnarono in attività artigianali e artistiche, grazie al loro estro furono costruiti all’Asinara cappelle, monumenti funebri e statue. Questi monumenti della memoria sono ancora lì, testimoni di quel passato: difronte all’ex ospedale fu eretta una piccola cappella, costruita dai prigionieri austroungarici nel 1916, sopra il portale vi è l’iscrizione latina che recita lapidariamente “Vos omnes qui transitis per viam attendite et videtes est dolor sicut dolor meus”, A Campu Perdu c’era una statua celebrativa scolpita dal prigioniero ungherese Georg Vemess, rappresentava un eroe con ai piedi una folla di uomini nudi e disperati, volta a significare da un lato la sofferenza patita in guerra e l’estenuante marcia da Nich a Valona (la marcia della morte) dall’altro il trionfo della speranza, della solidarietà umana e della fratellanza, una specie di ringraziamento agli italiani che aiutarono quei soldati a rimanere aggrappati alla vita. Alla fine del percorso intitolato alla memoria, si staglia sopra una collina l’Ossario austro-ungarico che raccoglie i resti ossei dei prigionieri ritrovati nelle numerose fosse comuni e deposti nelle teche all’interno di tale struttura bianca a forma di croce.
La memoria secondo la definizione che troviamo nel dizionario italiano di De mauro è «la facoltà della mente umana di conservare, ridestare in sé e riconoscere nozioni ed esperienze del passato; capacità dell’uomo di ricordare». L’uomo sente il bisogno di attingere al proprio passato attraverso i ricordi, ossia immagini sfumate, indefinite, confuse conservate nella mente e rievocate per mezzo di immagini, musiche, odori e profumi, parole: questa è la memoria individuale, quella legata all’esperienza di vita di ciascun individuo. Il ricordo è un’esperienza emotiva forte poiché riporta alla luce fatti gioiosi e felici che suscitano nostalgia, ma anche esperienze negative, traumi che talvolta vengono rimossi e conservate a livello inconscio poiché portatori di sofferenza.
Il sentiero della memoria tracciato all’Asinara può definirsi un vero e proprio luogo della memoria, concetto storiografico elaborato dallo storico francese Pierre Nora nella monumentale opera “Les lieux de mémoire » :
«Un luogo della memoria è uno spazio che si contraddistingue per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici dove un gruppo, una comunità o un intera società riconosce se stessa e la propria storia, consolidando in questo modo la propria memoria collettiva. Luogo della memoria può essere dunque un museo, un archivio, un monumento, un anniversario, certi territori o località segnati da eventi storici significativi, ma anche i simboli e i miti, le strutture e gli eventi, i personaggi e le date (…) a cui gli uomini attribuiscono una sacralità da proteggere, una sorta di aurea simbolica» (Legoff, 1982).
I luoghi della memoria sono stati definiti dei “mnemotopi” (spazi del ricordo) e dei “relitti” del passato dove il ricordo viene ordinato nella mente e fissato in uno spazio fisico dai limiti precisi, al confine con l’oblio (Assmann, 1992). I ricordi latenti vengono riportati alla luce mediante stabilizzatori della memoria ossia l’emozione, il simbolo e il trauma che fanno da mediatori tra i luoghi della memoria e i non luoghi, questi ultimi definiti da Marc Augè come spazi non identitari, né relazionali, né storici, zone intermedie in cui il tempo si dilata, non connotati culturalmente (Augè, 2009).
La memoria storica, che diventa memoria collettiva, parte integrante dell’identità di un popolo o di un gruppo, non viene tramandata soltanto attraverso i libri di storia, i documenti depositati in archivi di stato, ma essa viene fissata attraverso diversi mezzi orali, materiali e simbolici: racconti popolari, miti, canzoni, opere musicali, monumenti celebrativi, opere scritte, cimeli, fotografie, feste e riti che trasmettono i valori culturali di un popolo e ricordano gli eventi più significativi della loro storia per proteggerli dall’oblio e trasmetterli alle future generazioni; ai tradizionali supporti nella nostra epoca si sono aggiunti i supporti digitali su cui si registrano filmati e interviste. La memoria fissata diviene così incancellabile, sottratta all’azione del tempo e quindi all’oblio, salva il passato per dare lezioni di vita nel presente e per costruir un ponte verso il futuro. La memoria è “il presente del passato” che per mezzo del ricordo ha la capacità di restituire all’esperienza individuale o collettiva presente un qualcosa di assente. La coscienza del passato attraverso la memoria e il ricordo garantisce all’individuo e alla collettività una propria continuità temporale (Legoff, 1982)..
La memoria ha, tra le proprie funzioni quella di fondare l’identità culturale, religiosa o politica di un particolare gruppo sociale. Essa è portatrice di significati. Poiché una società è costituita da diversi gruppi sociali e minoranze etniche, questi elaborano la propria memoria collettiva, fondano la propria identità e adottano una serie di simboli per rendere visibile la propria presenza nel mondo e tramandare ai posteri la loro storia. Così fecero quei prigionieri austro-ungarici all’Asinara, che in terra straniera, lontani dalla patria si accese in loro il desiderio di tramandare la loro storia marchiata da sofferenza, malattia e morte, e in questa isola, perla del Mediterraneo, trovarono la loro ancora di salvezza dai patimenti della guerra e vollero lasciare una testimonianza del loro passaggio e del loro triste destino. “Il luogo fisico della memoria è connotato dal trauma che fissa la violenza in una dimensione spaziale dove il tempo non trascorre, richiama costantemente il passato invisibile e silenzioso con cui si mantiene un contatto” (Assmann 1999).
Concludo questa mia riflessione con una citazione tratta dalla celebre opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi, testimone diretto della disumanità dei lager nazisti: In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria.

Maria Laura Abozzi


Bibliografia

«L’isola dell’Asinara: la storia, l’ambiente e il parco», a cura di M. Gutierrez, A. Mattone, F. Valsecchi, Poliedro editore, Nuoro, 1998;

Jacques Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, Torino 1982

Aleida Assmann, Ricordare, il Mulino, Bologna, 2002

Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 2005.

Marc Augè, I non luoghi, Eleuthera, Milano, 2009