venerdì 29 aprile 2011

Més que una partida

Lo stato nazionale è una costruzione politica, economica e socio-culturale. È, ritengo, abbastanza valido il celebre aforisma attribuito al linguista yiddish Max Weinreich – che avrebbe sentito in una conversazione privata – secondo cui «una lingua è un dialetto che possiede un esercito, una marina ed un'aviazione» (1945: 13). Si crea un ente il quale poi può anche divenire lo Stato hegeliano, sopra il cittadino, che è, comunque, una produzione culturale e non un esserci a priori. I confini, le frontiere – che l'antropologia non manca mai di scavalcare da una parte all'altra – sono costruzioni geometriche, o barriere naturali definite sulla base di esigenze contingenti. Ho visto Real Madrid-Barcellona. Le interpretazioni che uno può dare del calcio sono diverse: 22 ragazzi con omosessualità latente che inseguono un testicolo idolatrato come feticcio; un rito che ricalca il calendario agropastorale; l'internazionalizzazione marxista e/o la globalizzazione capitalista; spettacolo estetico; solitudini di portieri brisiliani del 1950 (cfr Soriano 2006), o 5 poesie sublimi (Saba 1945), o una raccolta di racconti (Hornby 2006) o «un linguaggio coi suoi poeti e prosatori» (Pasolini 1999). Io, in ogni caso, sono ossessionato dal concetto culturale di derby o di "classico". E Real-Barcellona è un "clásico". Due storie diverse, due bacini di fruizione diversi. C'è chi ha detto che il Barça è l'istituzione catalana più conosciuta al mondo. Non è un caso che – insieme a diversi e numerosi altri aspetti e simboli, naturalmente – contribuisce alle dinamiche riguardanti la catalanità, a cominciare dall'inno, in catalano, per finire alla simbolica vittoria extra calcistica, ma totalmente sociale e culturale, di una partita di calcio col Madrid; che contiene, a volte, più di quanto si pensi. Spesso una squadra, che però è qualcosa di più che una semplice società sportiva, si fa portavoce di un'identità (Celtic vs Rangers; Boca vs River; Athletic Bilbao per citarne alcune) che trascende lo sport meramente inteso: è un affare di Stato, riconosciuto o meno; è un affare politico, sociale: è un affare culturale. Sono due culture che si affermano. La castiglianità, l'accentramento, gli echi franchisti ancora presenti sul simbolo (cfr Salvi e Savorelli 2008) – e i simboli hanno le loro menzogne e verità – contro la catalanità, la pretesa romantica di esserci-nel-mondo, l'Ode alla Catalogna e la repubblica e la bandiera catalana con la croce di Sant Jordi – libri e rose per Shakespeare e Cervantes  (http://www.gencat.cat/catalunya/santjordi/cas/index.htm).
Il Celtic, la working class, gli emigrati per eccellenza, quelli che effettivamente hanno portato la croce, i celti (quelli "veri", stavolta) contro i ricchi, gli indigeni civilizzati, quelli angli e sassoni e fedeli alla corona (cfr Bruce 1998). Eccoci di fronte a un altro, che esiste, ma i cui simboli sono definitivamente altri, portatori di valori, di cultura e storia e, perché no, di arte, come quella dei culés:
i primi tifosi [del Barcellona], particolarmente parsimoniosi, assistevano alle partite della loro squadra arrampicandosi dall'esterno, nemmeno troppo furtivamente, su di un alto muro di cinta del campo di gioco e sedendovisi sopra, offrendo così le loro terga alla visione imbarazzata di chi li osservava dal basso passando per la via che costeggiava il campo (Salvi – Savorelli 2008: 144).

 Domenico Branca

BIBLIOGRAFIA

BRUCE S.
1998    Conservative Protestant Politics, Oxford University Press, Oxford.
HORNBY N.
2006    Il mio anno preferito, collana Narratori della fenice, Guanda, 2006.
PASOLINI P. P.
1999    Saggi sulla letteratura e sull’arte, Meridiani Mondadori, Milano.
SABA U.
1945    Goal (1940-1947), Firenze, S.E.      
SALVI S. - SAVORELLI A.
2008    Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione, Firenze, Le Lettere.
SORIANO O.
2006    Fútbol. Storie di calcio, Milano, Einaudi.
WEINREICH M.
1945    "Der YIVO un di problemen fun undzer tsayt",in YIVO Bletter, vol. 25 nr. 1, (Jan-Feb 1945, p.13).

mercoledì 27 aprile 2011

Salviamo i Beni Culturali (e l'Antropologia) in Sardegna!

Con molta rabbia e molta frustrazione ci è giunta la triste notizia che, dall'anno accademico prossimo, non verrà più attivato il corso di Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia a Sassari, l'unico in Sardegna.
È noto a tutti che i beni culturali in Italia sono l'ultimo dei problemi, ma crediamo fortemente in quello che studiamo, e lo facciamo con molta fatica soprattutto in vista di un posto di lavoro che nulla a che fare con il nostro percorso di studi. Ed è molto frustrante il fatto che la nostra materia, come l'Archeologia e l'Archivistica (altre discipline a rischio, sempre che non le abbiano già eliminate), sia lasciata in mano a pseudostudiosi che tolgono ad essa ogni valore scientifico, ma che fanno presa sul grande pubblico. La Sardegna ha bisogno dello studio dei beni culturali, ha bisogno di formazione e di persone competenti. E se dopo una Laurea non si riesce a trovare lavoro, non credo sia giusto imputare tutte le responsabilità a quel Corso, ma al territorio che non ha saputo sfruttare quel capitale umano. Un territorio che lascia la gestione dei beni culturali a persone che, con tutto il rispetto, hanno solo un diploma e che non sono formate dal punto di vista scientifico, non è un territorio che si merita di crescere, né dal punto di vista culturale né dal punto di vista turistico.
I politici parlano di valorizzazione del nostro patrimonio per il turismo, ma se al turista si fa vedere una mostra, una manifestazione, un sito archeologico senza la guida di persone esperte, quel turista non tornerà mai più. Ed è da qui che poi arriva la fine di tutto. Sentiamo troppe volte la frase "Dobbiamo puntare al turismo culturale, all'occupazione dei giovani laureati" e intanto noi, giovani laureati/laureandi, siamo allo sbando. Questa è una denuncia forte, che abbiamo da troppo tempo sulla gola. Siamo stanchi di sentirci dire che siamo uno "spreco di risorse pubbliche", che "con la cultura non si mangia". Viviamo in una delle regioni del Mediterraneo tra le più ricche di feste popolari, usi e costumi che, nonostante i forti cambiamenti, rimangono vivi. Abbiamo un patrimonio archeologico che rischia troppe volte di essere cementificato, un patrimonio museale da preservare e valorizzare. Se ci chiudete le porte, se non ci date futuro, come possiamo produrre ricchezza? Lo spreco non siamo noi, studenti di Beni Culturali, lo spreco lo create voi, politici, ministri, cittadini indifferenti che ignorate la nostra Storia, la nostra Arte e la nostra terra.

Ultimo appunto: L'antropologia è la scienza che dimostra l'inesistenza delle razze, che tutela le differenze, che insegna il rispetto di tutte le culture.Viviamo in un paese dove la caccia al "diverso" è diventata baluardo delle politiche del governo, dove tutto ciò che produce Cultura, deve essere annientato. Ci sarà un nesso tra la chiusura dei corsi di Antropologia in Italia e le pubblicazioni, sempre più numerose negli ultimi anni, contro il razzismo, per la difesa dei rom, sul dibattito natura-contronatura? Siamo sicuri che sia un "taglio" meramente economico?

Valentina Mura (che sa che con la cultura si può mangiare)

Esempi di bibliografia antropologica antirazzista:
Aime M., 2009, La macchia della razza. Lettera alle vittime della paura e dell'intolleranza, Milano, Adriano Salari Editore.
Aime M., 2004, Eccessi di culture, Torino, Einaudi.
Aime M., 2009, Una bella differenza. alla scoperta della diversità del mondo, Torino.
Barbujani G., Cheli P., 2008, Sono razzista ma sto cercando di smettere, Roma-Bari, Laterza.
Piasere L., 2009, I Rom d'Europa. Una storia moderna, Roma-Bari, Laterza.

martedì 26 aprile 2011

Deragliamenti culturali


In situazioni di rotture storiche, sociali, culturali, etnocidi, stragi, si resta con i brandelli di quello che era il proprio habitus. Si rimane nudi, spogliati del proprio essere stati qualcosa. Una rottura determina lo stravolgimento brusco, nervoso, violento, di determinati aspetti, siano essi sociali o culturali. Un etnocidio fa deragliare i treni. I binari sui quali viaggia una civiltà che cammina nella storia – non intendo una filosofia della storia determinata, finalistica – sono sbarrati, interrotti. Queste rotture determinano, appunto, un deragliamento dai binari, nonché una reinterpretazione di se stessi come comunità. I brandelli di identità si riuniscono con altri brandelli fino a creare una terza identità, un collage di memoria (Bastide 1970). Quello che è successo, ad esempio, in Sud America, dove uomini provenienti da parti diversissime del mondo, ognuno con i suoi brandelli di storia e identità, ha contribuito a creare un universo culturale dinamico e funzionale. Dell’amore e di altri demoni di García Márquez (1994), racconta bene questa situazione: la bambina bianca, figlia dei padroni, parla yoruba, vive con gli schiavi e ne condivide la ritualità. 

Bibliografia

BASTIDE R.
1970    "Mémoire collective et sociologie du bricolage, in Année sociologique, (repris in Bastidiana 1994).

GARCIA MARQUEZ G.
1994    Dell'amore e di altri demoni, Milano, Mondadori.

domenica 24 aprile 2011

OSSERVAZIONE PARTECIPANTE: OGGI E' IPOTIZZABILE?



L'”osservazione partecipante” è il metodo di lavoro sul campo utilizzato da Malinowski e celebrato nella sua monografia etnografica Argonauti del Pacifico Occidentale (1922). Questa metodologia prevede lo studio di un gruppo sociale nel suo territorio in maniera quotidiana da parte dello studioso. Lo studioso non cerca solo di capire l'oggetto del suo studio, ma cerca egli stesso di farne parte per poterlo meglio capire.
Ora, l'osservazione partecipante ha da tempo ricevuto le sue buone critiche. Si presume, infatti, che un individuo di una diversa cultura non riesca a trasformarsi, dall'oggi al domani, in un “altro” cambiando non solo i suoi stili di comportamento, ma anche il suo modo di pensare e la sua morale (vedi i diari postumi di Malinowski).
Alla luce di questo vi è dell'altro. La questione è molto più ampia. E' possibile studiare un mondo culturale a noi estraneo senza imbatterci in manifestazioni dello stesso volutamente falsate o forzate?
Qualcuno mi risponderà che tutto ciò che vi era da studiare è stato studiato; altri mi diranno al contrario di si, che nel generale esiste sempre un particolare su cui ancora soffermarsi e indagare.
Ho provato quindi a pensare proprio a Bronislaw Malinowski. L' ho immaginato nelle isole Trobrian mentre prova a identificarsi come facente parte del sistema culturale dei nativi della Nuova Guinea. Lui, venuto da fuori, un bianco sconosciuto ai nativi, nel suo studio verso l' "altro" (inteso come cultura diversa dalla sua), nel suo cercare di essere parte di quel gruppo sociale che lo ospita. Non cerca solo di integrarsi, cerca di diventare un nativo.
Poi ho pensato a un Malinowski di oggi, desideroso di applicare sul campo l'osservazione partecipante.
Non riesco più a considerare giusta la formula dove: una CULTURA si estranea da se stessa per diventare l'ALTRA CULTURA che vuole studiare, integrandosi nel suo ambiente.
Oggi sarebbe poco ipotizzabile soltanto l'idea.
E' molto più probabile che la cultura “altra” conosca già la cultura venuta da lontano che essa ospita per via della globalizzazione. L'incontro tra studioso e nativo si avrà su un piano diverso. Da una parte lo studioso avrà una qualche nozione su l'oggetto del suo studio, dall'altra, e cosa non da trascurare, l'oggetto stesso avrà una sua conoscenza del soggetto che gli si presenta davanti. Il nativo non domanderà più allo studioso che viene da lontano se esso sia "un dottore,... un prete, ...o uno del governo", come accadde a Roy Wagner, semplicemente non si farà più domande.
Prima la cultura ospitante si comportava in maniera non libera, quasi timorosa verso il nuovo arrivato, lo straniero. Era una maniera tuttavia consona al suo comportamento, che si manifestava in determinate situazioni e passibile di probabile osservazione e studio. Davanti al nuovo arrivato, così diverso, gli atteggiamenti erano si condizionati ma veri. Ora non è più così. L'ospite, lo studioso, lo straniero, non è più uno sconosciuto agli occhi della cultura ospitante ma è un turista. I comportamenti sono legati ancora una volta alla percezione che sia ha del nuovo. Ancora una volta non sono liberi. Ma diversamente da prima sono portati nel cercare di apparire al come l'altro (il turista) si aspetta che essi siano.
Ho pensato a questo proposito a tutti i film che ho visto ambientati nelle Hawaii. La scena è sempre la stessa. Il turista che arriva (spesso l'arrivo è idealizzato nell'aeroporto), viene accolto dalle bellezze locali che con grossi sorrisi gli donano una collana di fiori. Anticamente questo fatto era sicuramente una forma culturale di ospitalità verso il nuovo visitatore. Ora è diventato un marchio. Un' immagine turistica. I locali non donano più collane di fiori al visitatore (inteso come amico venuto da lontano), ma al turista. Verrebbe da dire che infondo è la stessa cosa. Ma non lo è. Ora è un fatto automatico, è il volere mostrarsi nella maniera in cui l'altro si aspetta.
Un Malinowski moderno che oggi volesse operare con l'osservazione partecipante (conscio dei limiti che già a suo tempo essa presentava) rischierebbe forse di studiare solo il se stesso visto da altri. Ossia le manifestazioni che un qualsiasi turista si aspetta di vedere e che l'oggetto decide di mostrargli, come un attore davanti al suo pubblico.

Mauro Pirisinu

Cultura e finanziamenti...è proprio necessario l'intervento dei privati?

Prendendo spunto da questa riflessione della quale condivido anche la virgole (leggetevi anche questo blog "Il pensiero selvaggio", ricambio i complimenti con piacere!) ne approfitto per dire la mia sui finanziamenti privati ai Beni Culturali. Non sopporto leggere la parola sponsor a fianco della parola mostra o museo o sito archeologico. Rabbrividisco all'idea che una grossa scritta di una nota marca di scarpe sovrasti il Colosseo. E rabbrividisco al solo pensiero di dover fare compromessi con le imprese per farmi aprire o gestire un museo. Da laureata in Beni Culturali e specializzanda in Antropologia Culturale sostengo fortemente l'indipendenza della Cultura dalle logiche di mercato. Non è questione di snobismo ma di lesione della natura stessa della cultura. Vivendo in Sardegna, cerco di seguire il più possibile manifestazioni folcloriche, sagre, mostre, festival e noto troppo spesso le conseguenze dei finanziamenti a certe manifestazioni piuttosto che ad altre. Si arriva alla mercificazione, all'invenzione della tradizione per motivi turistici e al prendere in giro la nostra Storia e l'intelligenza dei visitatori (che non sono CLIENTI o ACQUIRENTI!). Sperando in tempi migliori, ovvero in qualche maggiore attenzione degli enti pubblici e dello Stato al sostegno del nostro patrimonio, continuo a leggere, tappandomi il naso, come si cercano finanziamenti e...sponsor.
Mi aspetto già i commenti del tipo: "Ma siamo in Italia, se non ti finanzi così chiudiamo tutto!" e rispondo preventivamente con: "Io non sono d'accordo alla prostituzione culturale...sono cosciente del fatto che viviamo in un Paese che non investe su niente, ma appunto per quello fatemi sperare in tempi migliori!".

P.S. data la mia avversione fisiologica alle materie economiche si accettano suggerimenti e opinioni sull'argomento soprattutto da parte di economisti!

giovedì 21 aprile 2011

Globalizzazione, xenofobia, identità locale. Il crocefisso e l'Italia.

Ispirata dall’antropologia interpretativa di Clifford Geertz (1926-2006), vorrei analizzare un caso specifico e cercarvi un significato più ampio per comprendere meglio la particolarità del fenomeno. Mi riferisco ad un tema molto attuale: la controversia sollevata in Italia dalla presenza del crocefisso nei luoghi pubblici, chi in difesa della tradizione cattolica italiana, chi in difesa della multietnicità e della libertà religiosa.

Le considerazioni sociologiche e antropologiche che potremmo elaborare sono numerose, ma mi soffermo su un unico elemento: quello specifico del crocefisso come simbolo identitario della tradizione cattolica e quindi, quasi per osmosi, della stessa cultura italiana. Sorvolando sull’ambiguità del concetto d’identità, analizzerei invece il fatto che, evidentemente, non si fa riferimento unicamente al principio religioso. Perché si parla d’identità italiana e non, semmai, unicamente di identità cristiano-cattolica?

L’Italia è uno dei maggiori bacini d’accoglienza dell’immigrazione straniera, in particolare dell’Europa orientale, del nord Africa (soprattutto Marocco) e del continente asiatico. Seppur i gli stranieri cristiani sono i più numerosi, aumenta la presenza di fedeli di altre religioni, in maggioranza musulmani. Di fronte alla globalizzazione e ad uno delle sue conseguenze più evidenti (l’immigrazione appunto), gli Stati nazionali sentono la necessità di conferire a oggetti specifici un particolare valore simbolico con lo scopo di veicolare l’idea di comunità nazionale[1]. Per riportare le parole di Marc Augé (1935): «Oggi non si tratta più di “edificare” degli individui, di istruirli e di costruirli affinché si identifichino progressivamente con l’ideale cristiano e morale condiviso, ma piuttosto di identificare delle collettività, di radicarle nella storia, di sostenere e rafforzare la loro immagine, di mitizzarle affinché degli individui a loro volta possono identificarvisi, a cominciare dagli stranieri»[2].

In conclusione, potrebbe essere questa, dunque, una possibile interpretazione del fatto esaminato: se di fronte alla temuta forza omologante della globalizzazione e alla paura dell’altro, si tende ad affermare la propria località ostentandola, se - come sosteneva Emile Durkheim (1858-1917) - la religione rappresenta la società stessa, i simboli religiosi sono proiezioni del gruppo e la società nel venerare il simbolo religioso venera sé stessa e consolida la propria identità collettiva[3], la diatriba sul crocifisso parrebbe una lotta simbolica, giocata con il significato che l’oggetto (il simbolo cristiano) veicola.


Elisa Biosa


Bibliografia.

M. Augé (1994), Storie del presente. Per una antropologia dei mondi contemporanei, ed. it., Il Saggiatore, Milano, 1997.
U. Bonanate, Antropologia e religione, Loescher Editore, Torino, 1975. 
J. Friedman a cura di F. La Cecla e P. Zanini, La quotidianità del sistema globale, Bruno Mondadori editore, Milano, 2005.
U. Hannerz, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato, Il Mulino, Bologna, 1998.
F. Lai, C. Bilotta a cura di G. Mondardini Morelli, La produzione della località. Saperi, pratiche e politiche del territorio, CUEC, Cagliari, 2005.
F. Lai, La creatività sociale, Carocci editore, Roma, 2006. 
N. Martino, Antropologia culturale, Antonio Vallardi Editore, Milano, 2006.
A. Signorelli, Migrazioni e incontri etnografici, Sellerio editore, Palermo, 2006.


[1] F. Lai, C. Bilotta 2005, p. 116.
[2] M. Augé 1997, p. 96
[3] U. Bonanate 1975, pp. 29-34.

mercoledì 20 aprile 2011

L'antropologo Winston Smith


Ho trovato una similitudine tra la ricerca di Winston Smith, protagonista di 1984 di George Orwell, e quella dell'antropologo. Si tratta di questioni di metodo. Anche Smith ri-cerca qualcosa. L'informatore tende a divagare, spaziare, scappare dalla domanda. Bisogna sondare, gradatamente arrivarci, prima impacciati poi, forse, capaci di ridisegnare un quadro tramite la memoria. In questo brano Winston – per altre ragioni, lontane anni luce da quelle dell'antropologo – fa qualcosa di simile; lui ha bisogno di un passato, di definirlo, di abbozzarne grosso modo i confini e va alla ricerca di qualcuno che lo possa aiutare. Lo trova «nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi». È interessante anche l'approccio, molto vicino alla mia esperienza sul campo, per quanto riguarda l'impatto: infatti, Winston entra nel locale e «appena entrato il baccano delle voci scese a metà del volume. Poteva sentire, alle sue spalle, gli occhi di tutti fissi alla sua tuta azzurra. Alcuni, che stavano giocando a freccette all'estremità opposta della stanza, si fermarono per almeno trenta secondi» (Orwell 2006: 93). Mi è capitato di dover affrontare questa sorpresa, io, elemento alieno. Poi scemano gli sguardi, «per un attimo la presenza di Winston venne dimenticata» (Ivi: 94). Winston Smith comincia ad ambientarsi. Cerca ancora qualcuno che possa ridisegnare un passato in cui immaginarsi. Un vecchio litiga con il barista perché ora una pinta non è più una pinta, mentre prima... Eccolo. «Posso offrirti da bere?» (Ivi: 93) chiese Winston al vecchio. Questi accetta. Individuato un informatore. «Ne devi aver visto di cambiamenti da quando eri giovane» disse Winston «tastando il terreno» (Ivi: 94). «La birra era migliore» (Ibidem). «Sei molto più vecchio di me [disse Winston]. Dovevi essere già adulto quando io sono nato e forse ti ricordi com'era la vita a quel tempo [...]. Quelli della mia generazione non sanno nulla di quei tempi (Ivi: 95). Il vecchio allontanava il fuoco del discorso, per cui Winston doveva costantemente cercare di riportarlo entro i confini  ed «ebbe l'impressione che stessero parlando ognuno per i fatti suoi» (Ivi: 96). E ancora «Winston si sentì assalito da una specie di sconforto» (Ivi: 97). Il vecchio non fu di grande aiuto per Winston.
Questo brano mi ha ricordato il lavoro di intervista, la difficoltà di far comprendere cosa si vuole sapere dai nostri informatori e la necessità di incrociare le informazioni raccolte, per ricostruire un quadro di senso.

Bibliografia:

ORWELL G.
2006    1984, Milano, Mondadori.

                                                                                                                      Domenico Branca

giovedì 14 aprile 2011

L'Antropologia e lo Show del Guinness...delle figuracce!

Non sarà un lungo post, ma solo una semplice constatazione. Non credo ci voglia una laurea in Antropologia Culturale o in Storia delle Religioni per evitare di fare gaffe come quella commessa pochi minuti fa allo Show dei Record. Non ho seguito i discorsi, avevo le cuffie, ma mi è bastato solo vedere una sposa (presumo di "origine occidentale") vestita di bianco e una bambina indiana vestita allo stesso modo. Non pretendo di avere una cultura tale da poter insegnare il "galateo" o le regole di ogni cultura o religione, ma non mi sarei mai immaginata di vedere una bambina indiana vestita di bianco per farla sembrare una sposa, tutto questo in televisione, con chissà quali conseguenze. Per dovere di cronaca, il bianco in India è colore di lutto!

Valentina Mura

lunedì 11 aprile 2011

Antologia della Femmina Agabbadora: presentazione a Luras.



Sabato 9 Aprile 2011, palestra delle scuole elementari di Luras, ore 18 e 30, presentazione del libro “Antologia della femmina Agabbadora” di Piergiacomo Pala. Oltre all'autore hanno collaborato alla presentazione il sindaco Marisa Careddu, l'antropologo Bachisio Bandinu, il musicista Gesuino Deiana e il giornalista Giacomo Serreli.
Davanti a un pubblico piuttosto numeroso ha da subito preso la parola il sindaco. Il suo intervento è legato per lo più all'importanza del museo etnografico Galluras che, grazie al suo reperto più importante, il Martello de sa Femmina Agabbadora, ha dato maggiore notorietà al paese. L'intervento si chiude con l'auspicio di una collaborazione di Pier Giacomo Pala, proprietario del museo, per la creazione di un museo archeologico che in futuro verrà allestito a Luras.
A seguire Giacomo Serelli, che ha il ruolo di “presentatore” della serata, passa la parola a Bachisio Bandinu. L'intervento dell'antropologo può, prendendo in prestito la sua citazione, avere come titolo “antropologia del silenzio”.
La domanda che si pone lo studioso è: Sa Femmina Agabbadora è veramente esistita?
Dalle parole dell'antropologo sembrerebbe che la tesi dell'esistenza di questa misteriosa figura possa avere dei validi sostegni. Cita ad esempio La Marmora che nella prima edizione del suo Voyage en Sardaigne (1826) accennava all'esistenza di questa figura. Nella seconda edizione dell'opera (1839), però, il suo autore omette questa parte. Perché? A questa domanda il Bandinu risponde così: prima di tutto spiega al pubblico che il La Marmora era una persona intelligente, uno studioso serio che annotava le proprie osservazioni in maniera scrupolosa, e ciò che decideva di pubblicare nei suoi libri era il risultato di vero studio e quindi da considerarsi attendibile. E'strano che un personaggio così attento e preciso, nella prima edizione del suo lavoro sulla Sardegna, accenni a un qualcosa al quale neanche lui crede, verrebbe da dire. Secondo Bachisio Bandinu, nella seconda edizione, per motivi forse politici, fu costretto a non riportare quelle informazioni, per cercare di presentare la Sardegna, allora considerata sconosciuta e selvaggia, più civile.
Vittorio Angius, scrittore e ricercatore sardo, fu uno dei primi a parlare di questa misteriosa figura nel 1883 localizzando Bosa come uno dei villaggi dove questa forma di eutanasia veniva “segretamente” eseguita; ma come per la seconda edizione dell'opera del La Marmora, rivisitata per non screditare la Sardegna e i sardi, intervenne in difesa del suo popolo Giuseppe Pasella, avvocato, magistrato e direttore dell' “Indicatore Sardo” con un articolo nel quale negò l'esistenza di questa figura e, cercando di screditare l'Angius, lo accusò di presentare come barbara la Sardegna agli occhi dell'Italia.
Ma allora, continua Bachisio Bandinu, come facciamo a credere all'esistenza di questa figura se la documentazione che reperiamo è carente o smentita, se la nostra ricerca sul campo si scontra con dei sentito dire e dei non ricordo?
Bisogna interpretare l'antropologia del silenzio. Molto spesso la gente preferisce non dare informazioni su determinati argomenti essendo questi pericolosi o moralmente sbagliati. La pratica dell'agabbadora era una forma, già nell'800, di eutanasia illegale. La si eseguiva nel silenzio, nella riservatezza, per questo di documenti ufficiali (vedi nella letteratura sarda dei secoli scorsi) se ne trovano pochi, e chi sapeva, di certo, non andava a raccontare tranquillamente in giro.
L'antropologia del silenzio è proprio questa: indagare su un qualcosa del quale si ha sentore dell'esistenza e imbattersi nel silenzio di chi sa.
A seguire l'intervento di Gesuino Deiana, musicista del gruppo Cordas et cannas, ricercatore delle antiche sonorità sarde ed ex studente di antropologia alla Sapienza, sull'importanza di non perdere le proprie tradizioni. Un intervento e un relatore che secondo me potevano anche essere omessi, personalmente mi è parso più un voler far numero per allargare il parterre dei relatori. L'intervento non ha raccontato nulla di nuovo ma, ripetuto ciò che ogni persona legata al suo territorio in cuor suo condivide: l'importanza culturale del non dimenticarsi.
Pier Giacomo Pala, l'autore del libro, dopo una breve introduzione sul ritrovamento del martello e sulla sua attività di ricerca iniziata nel 1981, lancia una piccola polemica sugli “studiosi che hanno studiato”, poichè spesso i loro lavori nascono, non da ricerche condotte sul campo, ma dallo studio del sapere di altri studiosi. Spesso i libri dei “nuovi studiosi” sono dei collage delle opere di altri autori legate da riflessioni personali. Lo stesso vale per i docenti universitari che, il più delle volte, le loro ricerche sul campo le commissionano ai loro studenti. Lui che invece è uno studioso”che non ha studiato” ha lavorato sul campo. Ha fatto ricerche sul territorio, interviste, ha analizzato l'etimologia del nome agabbadora che proviene dalla Spagna, si è recato nella penisola Iberica alla ricerca di una figura simile a quella che abbiamo qui in Sardegna senza però riuscire a trovare nulla. O quasi. Su alcuni documenti analizzati proprio in Spagna ha scoperto l'esistenza a Cuba di una figura simile a quella trattata nel suo libro: la Desperadora.
Conclude l'intervento accennando che ben due preti di Tempio Pausania gli confermarono la presenza negli archivi della Diocesi di alcuni documenti che potrebbero attestare l'esistenza dell'agabbadora.
Dopo un paio di domande del pubblico presente sulla figura di questa donna e sul suo martello, il convegno termina. Sono le 20:30.


Mauro Pirisinu

domenica 10 aprile 2011

Pellegrinaggi: breve storia fra viaggio e fede

Il pellegrinaggio è sempre stato un momento significativo nella vita dei credenti, rivestendo nelle varie epoche espressioni culturali diverse.. Esso evoca il cammino personale del credente sulla orme del Redentore...” Con queste parole Giovanni Paolo II, nella Bolla Incarnationis Mysterium collocava il pellegrinaggio al primo posto fra i “segni” che attestano la fede ed aiutano la devozione del popolo cristiano.
Il termine latino peregrinatio, derivato da “per ager” (attraverso il campo) [1] , mentre il verbo “hagg” significa andare verso. Dall’analisi del termine è possibile evincere che la semantica ci orienta verso la definizione di pellegrino come di “un viaggiatore che ha lasciato la propria dimora per prendere la strada che lo porterà ad un altro luogo”.
L’esame del fenomeno universale costituito da questo importante fenomeno mostra che il luogo a cui tende è l’incontro del mistero.
La materia dell’atto di pellegrinaggio è lo spazio nel quale si svolge l’avvenimento. Si pensi ad esempio alla carta dei cammini di Santiago [2]. Su ognuno di questi cammini i pellegrini vivono una sorta di vera e propria avventura biblica, liturgica e culturale che li porta da un ospizio a un monastero, da un rifugio ad un santuario o ad una cattedrale incontrata lungo la via.
Uno degli aspetti principali del pellegrinaggio è che ogni pellegrino fa esperienza dell’accoglienza, della celebrazione eucaristica, della preghiera e dell’incontro con altri pellegrini.
In un simile contesto, l’itinerario è già sacralizzato. Ogni pellegrino scopre una geografia sacra, uno spazio sacrale in cui vive un popolo santo. Ed è proprio la presa di coscenza di questa sacralità che ha dato ai pellegrini l’energia per vivere lo sforzo prolungato della lunga distanza, che deve essere affrontato soprattutto nei pellegrinaggi a lunga distanza quali Gerusalemme, Roma, Compostela.
Nello spazio sacro il pellegrino ha coscienza di trovare un centro d’incontro con il mistero, con il divino, capace di aiutarlo nella sua vita quotidiana, nel suo comportamento, nelle sue relazioni, nel suo passato carico di errori, nella visione del suo avvenire, nella salute del suo corpo e della sua anima.
Vi sono una serie di caratteristiche che determinano il carattere sacrale dello spazio si pellegrinaggio che si delimita rispetto all’ambiente circostante per il fatto di essere il luogo di incontro con il divino, con il mistero.
Lo spazio sacrale cristiano è riconoscibile per una serie di segni distintivi che non ingannano:
-          il cimitero attorno alla chiesa [3];
-          le cappelle devozionali accanto al santuario principale del luogo di pellegrinaggio;
-          la pratica di processioni lungo circuiti ed itinerari determinati scritti nella memoria collettiva:
-          presenza di croci all’aria aperta, di croci nude e di Viae Crucis.

Lo studio del santuario principale è di fondamentale importanza per comprendere il senso del pellegrinaggio e scoprire alcuni aspetti antropologici caratterizzanti.
Questo perché la presenza di santi terapeuti, protettori o ausiliatori, fa scoprire le angosce e i bisogni delle popolazioni e dei pellegrini. Gli stessi ex-voto sono testimonianze tangibili di malattie ed epidemie.
Lo spazio sacrale del pellegrinaggio si è articolato intorno ai bisogni dei pellegrini.
Alphons Dupront [4], a proposito della natura dei luoghi sacri ai quali si congiungono i pellegrini, li classifica in quattro categorie:
-          luoghi che consacrano un fenomeno della natura fisica;
-          luoghi che si riferiscono a una storia;
-          luoghi sacri a carattere escatologico [5];
-          luoghi della sovranità o delle fonti.
Alla prima categoria appartengono le montagne sacre con i loro santuari.
Alla seconda categoria appartengono gli avvenimenti più importanti delle religioni dei popoli.
I luoghi di concepimento escatologico  si trovano soprattutto in Egitto (Abydos), a Gerusalemme, in
India e nell’Islam.
Il pellegrinaggio non è un’invenzione della modernità. E’ interessante anzitutto porsi delle domande su come nasca e quali siano i fondamenti posti dalla Chiesa per poter identificare un pellegrinaggio come tale. A tal proposito si possono citare quelli presenti sul sito ufficiale della Chiesa Cattolica, secondo cui:
Il viaggio inizia dalla dimora domestica e finisce  alla dimora divina, compiendo un esodo spaziale e temporale che va dal profano al sacro, dal finito all’infinito, dal contingente all’eterno, da un luogo di partenza a un luogo di arrivo, in un lasso di tempo determinato. Per questo  caratteristico percorso di senso, il “viaggio” si chiama “santo”. Santo per le fatiche penitenziali assorbite, per la sobrietà, e frugalità dell’alimentazione, Santo per i compagni di viaggio, per le preghiere incessanti per i digiuni e le astinenze. [6]
Sant’ Agostino scriveva: “i cristiani sulla terra vagabondano come in pellegrinaggio nel tempo cercando il regno dell’eternità”. Secondo l’interpretazione di Sant’Agostino, essere pellegrini nel tempo significa che questa è la nostra condizione nella normalità, nella vita quotidiana.
Vivere da pellegrini significa dare una direzione al vagabondare senza meta dell’uomo. Il pellegrino non cammina ma “può camminare verso..”. Pertanto il pellegrinaggio verso Dio o la Madonna è un esercizio o una tappa della costruzione del sè.
Sia che l’uomo compia un pellegrinaggio di penitenza, ringraziamento o implorazione, in quel tempo tutto si ferma, la famiglia, il lavoro, le relazioni sociali, per fare spazio ad un altro tempo dove altre sono le logiche che scandiscono le ore del giorno e della notte.
Quando si compie un pellegrinaggio con altri, si cammina insieme, ci si sostiene si condividono fatiche e disagi, si creano solidarietà, e soprattutto si va insieme verso una stessa meta..
Da un punto di vista antropologico e sociologico l’atto del peregrinare favorisce la comunicazione fra popoli e culture diverse, crea, appunto, una rete di solidarietà che va oltre l’esperienza dello stesso comunicare insieme. La stessa religiosità del pellegrinaggio interessa in maniera trasversale tutti i diversi gruppi sociali, anzi talvolta diviene punto di comunicazione fondamentale fra classi diverse [7].
La tradizione delle peregrinatio medievale si sviluppa fra la seconda metà del 500 e il 600, età della Controriforma [8].
In epoca Barocca diminuisce il numero dei pellegrinaggi isolati mentre aumenta quello di quegli organizzati per lo più dalle confraternite. Il viaggio religioso viene fatto con spirito trionfante piuttosto che con spirito penitenziale.
Durante l’Illuminismo i pellegrini e le pratiche religiose tradizionali sono poco apprezzate, talvolta addirittura derise e represse.
In epoca contemporanea, nei secoli XIX e XX, continuano le devozioni popolari e i pellegrinaggi. Quello che viene a modificarsi sono soprattutto le mete: il pellegrino di età contemporanea preferisce ai tradizionali santuari [9], luoghi in cui vi sono state apparizioni mariane. Prendono così nuovo avvio pellegrinaggi verso mete quali Lourdes, Mejugorje , Fatima e altri ancora.
La Chiesa Cattolica nei Fondamenti del Pellegrinaggio, cita anche la cosiddetta moderna forma di pellegrinaggio, che secondo l’interpretazione della stessa Chiesa si propone come “via e strumento di umanesimo”, ricco di memoria e di tradizione, promotore inconscio di “umanesimo mistico”.
Come già detto, il pellegrinaggio non perde attualità nemmeno in epoca moderna, quando, accanto alle motivazioni religiose si aggiungono anche stimoli culturali, inquietudini esistenziali, scelte di vita che fanno in molti casi dell’uomo contemporaneo un viator , un pellegrino per eccellenza.[10]
Maria Lucia Mette



[1] Evoca la strada o il cammino del pellegrino.
[2] Dall’XI secolo quattro cammini a Santiago attraversavano la Francia raccogliendo i pellegrini giunti sia dalla Francia che da tutta Europa , Inghilterra, Scandinavia, Germania, Svizzera e Italia.
[3] Testimonianza della credenza nella risurrezione dei morti e nella fede dei vivi, che trattano i loro affari in vicinanza dei defunti.
[4] A.Dupront, Du Sacrè. Croisades et Pèlegrinages. Images e Languages, Parigi,1987, pp.378-389.
[5] L’ Escatologia è la riflessione che si interroga sul destino ultimo dell’essere umano e dell’universo.
[6] Tratto dal sito ufficiale della Chiesa Cattolica, articolo sui Fondamenti del Pellegrinaggio.
[7] In realtà seppur fenomeno di massa, anche nel pellegrinaggio era spesso netta la distinzione fra ricchi e poveri, così come documentato dai rilievi della facciata del Duomo di S. Donnino a Fidenza.
[8] In questo periodo si sviluppa un forte recupero del pellegrinaggio e della religiosità popolare, legati  alle apparizioni della Madonna, al culto mariano.
[9] Concentrati sulla venerazione della tomba di un santo o di una reliquia.
[10] Tratto dal sussidio per le famiglie della Diocesi di Tempio-Ampurias “VENITE ALLA FESTA”, pag.25.


Bibliografia
AA.VV., La sacra città. Itinerari antropologico-religiosi nella Roma di fine millennio (a cura di ) L.M. Lombardi Satriani, Meltemi, Roma 1999;

P. APOLITO, Internet e la Madonna. Sul visionarismo religioso in Rete, Feltrinelli, Milano, 2002;

C. C. CANTA, Sfondare la notte. Religiosità, modernità e cultura nel pellegrinaggio notturno alla Madonna del Divino Amore, ed. Franco Angeli, Milano, 2004

I. CANTU’, Pellegrinaggio in Italia del Marchese di Beauffort, Milano, 1857

J. CHELINI – BRANTHOMME, Le vie di Dio. I pellegrinaggi nel mondo moderno. Dalla fine del medioevo ai giorni nostri, ed. Jaca Book, Parigi, 1982

G. CHERUBINI, Pellegrini, Pellegrinaggi, Giubileo nel medioevo, ed. Liguori, Napoli, 2005

G. P. DORE, Sulle “orme” dei pellegrini, ed Zonza, Cagliari, 2001

A.DUPRONT, Du Sacrè. Croisades et Pèlegrinages. Images e Languages, Parigi,1987

A.F. FALCONETTI, Isola di Sardegna, Venezia, 1847

F. FERRAROTTI, Partire, tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Donzelli, Roma 1999;

E. LORIA, Salute e magia attraverso i secoli,ed. Piccin Librerie, Padova, 2004;

M.I. MACIOTTI, Pellegrinaggi e giubilei. I luoghi del culto, Laterza. Roma-Bari, 2000;

M. MAXIA, La diocesi di Ampurias, ed. Chiarella, Sassari, 2007

M. MILANESE (a cura di), Lo scavo del cimitero di San Michele ad Alghero (fine XIII – inizi XVIIsecolo), Felici Editore, Ghezzano (PI), 2010

V. e E. TURNER, Il pellegrinaggio, Argo, Lecce 1997.



Maria Lucia Mette

martedì 5 aprile 2011

La giovinetta, lo spirito, il fico: una favola (reale) di possessione

Agosto inoltrato. Tre del pomeriggio. Conversazione informale con un'informatrice di 85 anni, portati benissimo. Col tono della nonna che ti racconta la favola della buonanotte inizia a raccontare:
"Mio padre mi raccontava sempre un episodio che gli era capitato.
Chicca era in campagna... babbo stava lì. Facciamo subito i conti... Chicca era del '4, aveva diciotto anni quando le è successa questa cosa, quattro, quattordici, ventidue... è così? Se non erro...
Sotto un albero di fico, questa Chicca ha cominciato a dire queste cose nè pensate nè viste... Ma sembrava che non le volessero credere. Il fratello stava domando una puledra [...] E allora, per domare la puledra, aveva riempito una sacca piena di pietre. Va lei, la solleva, la porta giù dalle scale. "E com'è possibile?" si chiede quello "non ce la faccio io a..." E basta, solleva questa sacca e tutti si meravigliano che ha cominciato a fare queste cose.
Una notte erano coricati e Chicca dice al fratello: «Eh, tu già sei coricato, vai alla fontana che ci trovi delle pecore morte». I fratelli salgono e questa cosa era vera, ha iniziato così, Chicca, a… a die queste cose.
«Tottò» dice il fratello a mio padre «Chicca si comporta in modo strano, portiamola in paese a curarla». Babbo la siede in groppa al cavallo, era forte babbo, era uno degli uomini in paese tra i più forti, prova ne sia il fatto che lo chiamavano “Mazza di ferro”. Se la siede in groppa, arriva ad un certo punto della strada, e niente da fare. Non riusciva a portarla in paese. Sai come ci sono riusciti? L’hanno dovuta legare come un fascio di legna.
Arrivano a casa, e chiamano il dottore. Il dottore la guarda e dice: «Non è malattia che possono curare i dottori. Cercate, che non è malattia che possiamo curare noi”. Quando è entrato, infatti, aveva staccato il marmo del comodino e glielo aveva lanciato contro!
In poche parole, non era in sé. Ed hanno cercato gente, gente che poteva, gente di coraggio.
E il prete diceva a questi uomini forti che lo aiutavano: «State attenti, intervenite quando serve, ma state da parte”. Così quell’uomo leggeva le preghiere, gli scendeva il sudore dalla fronte, mentre le leggeva, e faceva domande [rivolgendosi allo spirito, n.d.r.] «Ma si può sapere perché sei venuto qui?»
«Perché qui sto bene»
«Ma dove l’hai trovata?»
«Sotto un albero di fico»
Chicca si siede, mette una gamba sopra l’altra, faceva il suono della chitarra e cantava. Con una voce che era una melodia. Perché quello che aveva incorporato era un grande cantadore. E poi ha raccontato come era morto. Era la notte della festa della Madonna di Seunis. Quando gli uomini erano ubriachi, andavano ad orinare.. sono scesi sull’orlo della roccia. Non si sa come sono andate le cose, girandosi, oppure per sbaglio… un uomo l’ha gettato giù. E lo spirito ha detto nome e stirpe dell’uomo che l’ha gettato giù.
«Se sei solo caduto, perché…»
«Perché son caduto sull’orlo della roccia e girandomi per alzarmi» ha detto «ho bestemmiato»
Allora il prete ha tentato di convincere lo spirito, che doveva passare alcuni anni errando, ad uscire dal corpo di Chicca. Alla fine lo spirito ha detto: «Va bene, me ne vado, ma almeno una tegola dal tetto butto giù, e non riuscirete più a camminare dritti» E nessuno dei presenti è più riuscito a camminare normalmente.
E babbo mi faceva sempre questo racconto, della fatica che aveva preso quell’uomo, il sacerdote… e delle cose che rispondeva lei… Lei non era lei che parlava, era lui… Che l’aveva aspettata nell’albero del fico… Perché quella pianta attira il… non so… come funzioni…
E lei, Chicca, dopo non si ricordava di nulla. Ma lo spirito ha detto, ha raccontato la sua storia, persino il nome e cognome di chi per sbaglio l’aveva gettato dalla rupe… lui si era condannato, perché nel tentativo di rialzarsi, aveva bestemmiato…

La narrazione da me raccolta possiede molti degli elementi della narrativa popolare: la protagonista della vicenda compie imprese straordinarie, i personaggi sono dipinti con tratti vivi e caratteristici, a volte persino epici (è il caso del padre dell’informatrice, dotato di un vero e proprio nome di battaglia, “Mazza di ferro”). La ragazza assume il ruolo di un’eroina il cui aiutante magico (lo spirito) le permette di compiere imprese straordinarie, la dota del dono della preveggenza, di una forza sovraumana e di un incredibile talento musicale. Allo stesso modo, ogni personaggio della storia (i fratelli, il medico, il sacerdote) assume un ruolo ben definito e contribuisce alla lieta conclusione della vicenda. Il fatto stesso che la storia venga presentata come la narrazione di una narrazione (“Mio padre mi raccontava sempre”) confermano questa impressione.
Eppure, sarebbe un errore ricondurre completamente la narrazione all’ambito favolistico. I nomi dei luoghi e delle persone vengono citati con dovizia di particolari e possono essere facilmente riscontrati. Nella mente dell’informatrice l’accaduto è realtà, exemplum di qualcosa che non solo ha avuto luogo, ma potrebbe persino facilmente ripetersi. Ciò che viene raccontato è un episodio reale, trasfigurato dal sincero tentativo dell’informatrice di trovare una mediazione tra ciò che ella pensava essere realmente accaduto e ciò che invece io avrei potuto accettare come fatto reale, realmente accaduto e realmente verificabile.
Alla luce di queste considerazioni, analizzare la storia della giovane Chicca come un vero e proprio caso di possessione si presentava assolutamente interessante. Identificata negli studi antropologici come “l’idea che spiriti di defunti, eroi, divinità animali e non meglio definite forze sovraumane possano impossessarsi di determinati individui per parlare ed agire da parte di essi” la possessione “può venire identificata con le sue funzioni religiose, sociali, politiche, psicoterapeutiche, comunicative, estetiche” [PENNACINI C., 2001]

Sarebbe dunque utile domandarsi quali siano cause e modalità che hanno determinato la situazione di possessione. All’atto dell’esorcismo lo spirito si presenta con dovizia di particolari e narra la storia del proprio decesso: durante un’occasione di allegria egli sarebbe stato spinto involontariamente da un amico giù da una rupe, e la bestemmia da lui proferita nell'atto del cadere
Con queste parole lo spirito tende a ripristinare le vere cause oggettive della propria morte: in questo modo la possessione mira a ristabilire l’equilibrio della verità in qualche modo venuto a mancare. Per bocca della ragazza non parla solo lo spirito, ma la verità di un fatto accaduto e da tutti taciuto. Ciò che di questa narrazione colpisce l’antropologo non è la necessità di scoprire se la possessione abbia avuto luogo o meno, quanto il meccanismo sociale sotteso al racconto.
Con la sua possessione la ragazza non solo svela una verità scomoda, un tragico incidente di cui viene fatto il nome del colpevole, ma, in accordo a quella che I.M. Lewis definisce “epidemiologia della possessione”, ci permette anche di stabilire quale fosse l’orizzonte sociale in cui la posseduta si trovava a vivere.
La vicenda raccontata dallo spirito per bocca della ragazza, che condanna la propria anima alla dannazione bestemmiando in punto di morte, “è un esempio sociale, raccontato e recitato davanti al suo pubblico da un attore sofferente”. [GALLINI 1977]
Inoltre, lo status di posse permette di poter esprimere, senza tema di censura sociale, atteggiamenti e comportamenti oltremodo censurabili: nel suo stato di possessione la giovane ragazza compie atti ed esprime attitudini che nella normalità del quotidiano non le sarebbero stati ammessi: compie lavori manuali come e meglio degli uomini, si esprime in un linguaggio scurrile, è persino violenta. Una serie di libertà che, a livello sociale, non può padroneggiare in quanto donna.
A livello popolare, tuttavia, le ragioni dell’avvenuta possessione vengono rintracciate nel fatto che la giovane sia sostata sotto un albero di fico, che sembrerebbe esser connotato come la dimora dello spirito. Senza voler troppo entrare in dettagliati studi simbologici, ci si limita a considerare il fatto che il ruolo “metamorfosante del vegetale è in molti casi quello di prolungare o suggerire il prolungamento della vita umana” [DURAND 1972]. Ancor di più l’albero del fico viene popolarmente considerato come albero-tramite, in grado di poter “attirare”, per usare le parole dell’informatrice, e incorporare gli spiriti.
Un’altra informatrice, interrogata a proposito della vicenda, si esprime negli stessi termini: “Chicca è andata a mezzogiorno sotto un albero di fico, si è alzata una folata di vento, lei ha avuto paura e l’anima è entrata dentro di lei. Tutti dicevano che gli alberi del fico sono sempre tentati da anime o da diavoli che stanno lì e dicono pure che le ore più propizie per vedere queste anime e questi spiriti siano mezzogiorno e mezzanotte.” La simbologia del fico, in quanto pianta lattifera, in grado di produrre un frutto che, giunto a maturazione, rimanda visivamente alla carne umana, è ampiamente studiata e documentata (tra tutti, si veda DURAND 1972)
Una fiaba, spesso, non è solo una fiaba. A volte i “frammenti indigesti” del magico, di quel mondo che a torto si pensa sia stato dimenticato, emergono con una propria forza, pronti ad essere svelati e compresi, a chiunque ne abbia l’interesse.

BREVE BIBLIOGRAFIA INDICATIVA:
- GALLINI C., Tradizioni sarde e miti d’oggi. Dinamiche culturali e scontri di classe, Sassari: Edes, 1977
- DE MARTINO E., Sud e magia, Milano: Feltrinelli 1996 [6°]
- DURAND G., Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari: Dedalo, 1972
- LEWIS I.M., Possessione, stregoneria, sciamanismo; Napoli: Liguori, 1993
- PENNACINI C., Introduzione a La possessione, Antropologia I, Meltemi: Roma 2001


Gianna Saba