lunedì 29 ottobre 2012

Intrecci. Due righe di presentazione.

Questo che state – virtualmente – sfogliando è il primo numero di una nuova rivista di antropologia culturale.
Molti di voi si chiederanno il senso di un’iniziativa simile in un momento come questo. La crisi dell’antropologia in Italia è sotto gli occhi di chiunque la voglia vedere: chiusura dei corsi, sbocchi professionali praticamente nulli, neanche quelli, come l’insegnamento nei licei delle Scienze Umane o come l’impiego come funzionario per i beni DEA nelle Soprintendenze, che sembrerebbero fuori discussione. Anche le scuole di dottorato si sono drasticamente ridotte, così come le borse di studio nelle poche che sono rimaste.
Sui forum e sui blog che si occupano di antropologia il ritornello è sempre uno: l’Italia non è un paese per antropologi. Ma può essere questa la soluzione? Al di là della libera scelta di ognuno, può la fuga dei cervelli essere l’unica prospettiva per chi vuole proseguire in questo campo? Certo, le politiche che gli ultimi governi hanno portato avanti sono a dir poco avvilenti. “Dalla cultura non si mangia”, ha detto l’ex ministro Giulio Tremonti.
Eppure la risposta che diamo è un risoluto NO!
È urgente – ed è in atto – una riflessione sulla nostra disciplina e su come possa inserirsi nelle dinamiche della società nel quale viviamo, non solo dal punto di vista lavorativo. Nella valorizzazione del patrimonio culturale, nelle policy nel campo delle migrazioni, nella pianificazione urbanistica: sono tanti i
settori in cui potremo intervenire con competenza e cognizione di causa. A queste tematiche abbiamo scelto di dedicare una rubrica fissa all’interno della rivista – Lavoro – in cui raccontare esperienze di antropologia applicata e professionale o proporre riflessioni di carattere più generale, anche fortemente critiche, come quella pubblicata in questo numero, contro la formazione accademica e i suoi limiti.
Ma l’intento di Intrecci va oltre, offrendo la possibilità a studenti alle prime armi di confrontarsi con i meccanismi delle pubblicazioni scientifiche ben più autorevoli della nostra. Una delle cose che manca nella formazione antropologica italiana è la pratica di scrittura, soprattutto nella forma di articolo. Eppure è principalmente attraverso questo strumento che avviene la comunicazione scientifica, nel settore antropologico come in qualunque altro. Alla domanda “Che cosa fa l’antropologo?” Clifford Geertz rispondeva “Scrive”. È ovvio che c’è molto altro, ma è anche indiscutibile che mettere al corrente del lavoro fatto – o che si sta facendo – deve essere un obbligo, così come quello di sottoporsi al giudizio “tra pari”. Per questo le prime due rubriche
di cui è composto Intrecci – Proposte e Ricerche – presentano contributi inediti e sottoposti a peer review, attraverso il procedimento del double blind.
Quella che proponiamo è un’idea di antropologia culturale ampia, inclusiva, che superi certi steccati che le scienze sociali e umanistiche hanno artatamente costruito e che costituiscono spesso un ostacolo alla comprensione delle pratiche culturali. In questo senso, il sottotitolo “Quaderni di antropologia culturale” è da intendere in senso lato. Già in questo primo numero potrete leggere un articolo di storia sociale ed uno al confine dei cultural studies.
Insomma, Intrecci vuole essere uno strumento di crescita per chi si affaccia al mondo dell’antropologia in Italia e vuole crescere a sua volta, dotandosi già dal prossimo numero di un comitato scientifico e aprendosi a contributi anche internazionali.
Le nostre intenzioni non possono essere che delle migliori.

Il primo numero della rivista è consultabile on line
http://www.intrecci-rivista.com/

venerdì 13 aprile 2012

Culturas ìbridas

Questo scritto è un esperimento. Cercare di costruire un sardo che sia in grado di stare nella modernità con la dignità di una lingua completa e complessa. Chiaramente, in alcuni casi il glossario dovrà essere creato, laddove non esistono determinate parole. Ma questo esperimento è una ricerca che mira a poter parlare di antropologia culturale in lingua sarda, cercando di uniformare il più possibile le parole e la grafia. Per questo scopo si è scelto di utilizzare la cosiddetta LSC (Limba sarda comuna).

"Cales sunt, in sos annos Noranta, sas istrategias pro intrare e essire dae sa modernidade? Ponimus sa dimanda de custa manera ca in Amèrica Latina, in ue sas traditziones non sunt galu iscumparidas e sa modernidade istentat a arrivare, no ischimus si si modernizare depet èssere a beru s'obietivu printzipale, comente prèigant sos polìticos, sos economistas, e sa publitzidade de sas novas tecnologias. Àteros setores sotziales, constatende che sos salàrios torrant a su podere de acuistu chi teniant bint'annos faghe, e che su produtu internu brutu1 de sos paisos prus ricos – che a s'Argentina, su Brasile e su Mèssicu – est abarradu firmu durante sos annos Otanta, si preguntant si sa modernidade non siat divènnida inatzesibile pro sa majoria de sa populatzione.
Si podet pensare puru chi a si fàghere modernos no apat prus sensu in un'època in ue sas filosofias de sa post-modernidade dispretzant sos movimentos culturales chi promitent utopias e àuspicant sa benida de su progressu.
Pro acrarire2 custas discrepantzias, non bastat ricùrrere a sas diversas contzeziones econòmicas, polìticas o culturales de sa modernidade. Paris cun sa chistione teòrica, sunt in mesu dilemmas polìticos. Balet a promòvere s'artigianadu, restaurare e impreare3 sa sienda4 istòrica, acunsentire s'intrada in tropa de sos istudiantes in sas facultades umanìsticas o ligada a fainas5 non prus in impreu6 de s'arte elitària o de sa cultura populare? Tenet sensu – individualmente e colletivamente – investire metas annos de istùdiu pro nche l'acabare in postos pagos remunerados, chi perlongat7 s'esistèntzia de tecnicas e connoschèntzias8 disavesados9, imbetzes de si dedicare a sa microelettrònica o a sas telecomunicatziones?
E no est bastante, pro cumprendere sa diferèntzia tra sas bisiones de sa modernidade, ricùrrere a cussu printzìpiu de su pensu moderno segundu su cale sas divergentzias ideològicas diant èssere provocadas dae su disaguale atzessu a sos benes dae parte de comunes tzidadinos e òmines polìticos, traballadores e imprenditores, artisanos e artistas. Sa primària ipòtesi de custu libru est chi s'intzertesa in su sensu e su valore de sa modernidade derivet non solu dae su chi separat sas natziones, sas etnias e sas classes, ma finas a sas rugradas10 sotzioculturales in sa cale s'ammisturant su traditzionale e su modernu [...]".

Tratto da

García Canclini, N., 1998, Culturas híbridas: estrategias para entrar y salir de la modernidad, Buenos Aires, Paidós (ed. it. 2001, Culture ibride. Strategie per entrare e uscire dalla modernità, Milano, Ed. Angelo Guerini), p. 13.
1 Lordo.
2 Illustrare.
3 Usare. Siè scelto questo termine per ampliare lo spettro dei termini. Esiste anche il verbo usare.
4 Patrimonio.
5 Attività. Vedi nota 3.
6 Uso.
7 Prolungare.
8 Saperi. Il termine è desunto dal verbo ischire.
9 Desueto.
10 Incrocio.
Traduzione di Domenico Branca

lunedì 26 marzo 2012

Comunicato stampa

L’Associazione culturale Demo Etno Antropologica ASS.D.E.A. accoglie con soddisfazione la notizia della sospensione del bando di selezione pubblica per l’incarico di bibliotecario-documentalista presso l’archivio SUAP del Comune di Sassari e segue con vivo interesse il dibattito che questa iniziativa ha suscitato.
L’indignazione degli studenti e laureati in Beni Archivistici e Librari, cui vengono negate le possibilità di tradurre i propri studi in prospettive occupazionali, è compresa e condivisa anche dagli studenti e laureati in Antropologia Culturale ed Etnologia.
Il settore demo-etno-antropologico vive nella medesima incertezza, risentendo della mancanza di riconoscimento della nostra specifica professionalità, sottovalutata e fraintesa. Come per altre “professioni della cultura”, il nostro settore soffre atavicamente della “concorrenza sleale” di pseudoricercatori, spesso del tutto privi di qualunque adeguato titolo di studio. La formazione accademica, pur se largamente perfettibile, è, a nostro parere, indispensabile. Non possiamo che fare nostra l’affermazione contenuta nel documento congiunto firmato da  ALeF SASSARI, AIB SARDEGNA, ANAI SARDEGNA e ANA SARDEGNA, che ribadisce “l’assoluta imprescindibilità del fatto che il titolo di studio e le qualifiche professionali costituiscono elemento fondante nei criteri di selezione per i bandi pubblici”.
In questo quadro, la possibilità che i titoli di studio perdano di valore legale non fa che aggravare la già pesante situazione, cui si somma la soppressione dell’unico corso di laurea magistrale LM1 in Sardegna, tappa basilare del percorso formativo nel settore demo-etno-antropologico.
Le affermazioni di principio di Enti pubblici e privati, in primis la Regione Autonoma della Sardegna, che presentano e promuovono l’isola come terra ricca di tradizioni e cultura, non si concretizzano in un adeguato impegno volto al coinvolgimento attivo delle professionalità del settore formate dall’Università.

La nostra associazione, pur se giovane, si è da subito impegnata su queste tematiche ed è attualmente al lavoro, con l’associazione Antrocom onlus, per la creazione di momenti di incontro e dibattito sulle modalità di riconoscimento della professione dell’antropologo.
L’associazione ASS.D.E.A. concorda quindi pienamente con l’urgenza dell’apertura “di un dibattito franco sul ruolo delle “professioni della cultura” nel nostro territorio”. Antropologi, archivisti, bibliotecari, archeologi, storici dell’arte, pur con specificità proprie, vivono problematiche simili. È quindi necessario e improcrastinabile che uniscano le loro voci ed elaborino momenti di riflessione ed azione condivisi.

Il presidente
Valentina Mura

mercoledì 29 febbraio 2012

OTA BENGA, il pigmeo dello zoo.

C’è una triste pagina dell’antropologia che giace dimenticata negli scaffali delle biblioteche più fornite. Oltre un secolo fa, nel 1904, l’attenzione mondiale si sposta sulla storia di un uomo ormai dimenticato il cui nome è Ota Benga (il nome significa amico).
La storia o forse sarebbe più corretto l’odissea di Ota Benga meglio conosciuto come il “Pigmeo dello Zoo del Bronx” (The Pygmy in the zoo) inizia nel 1904 quando il suo villaggio e la sua famiglia vengono sterminati e orrendamente mutilati da alcuni seguaci della Publiques Force del governo belga. Risparmiato per il solo fatto di non essere presente nel villaggio al momento del massacro venne catturato e venduto come schiavo in un villaggio lontano.
Philips Verner, missionario del Congo, era stato incaricato, sotto la spinta degli studi intrecciati fra darwinismo e antropologia, di fornire un gruppo di pigmei da presentare nell’esposizione Universale di Antropologia che si tenne a St. Louis nel 1904.
Nel marzo del 1904 il missionario Philips Verner scoprì il congolese Ota Benga in un mercato degli schiavi acquistandone la libertà per un chilo di sale e un rotolo di stoffa. Ota Benga venne esposto al museo di St. Louis come rappresentante dei selvaggi.
Nel 1906 fu trasferito nel Bronx Zoo di New York City. Inizialmente il suo compito consisteva nel nutrire e accudire gli animali presenti nello zoo, ma fu la scritta sotto la gabbia “Ota Benga il pigmeo africano” ad attirare l’attenzione dei visitatori e far si che l’eccentrico direttore dello zoo William Thornaday ne facesse un’attrazione primaria e mondiale. Thornaday credeva infatti che gli animali avessero pensieri quasi umani oltre che la stessa personalità, pertanto era convinto che si potessero studiare gli animali più vicini all’uomo attraverso un uomo “con scarsa capacità di apprendimento”. La mostra aveva infatti come obiettivo primario quello di promuovere i concetti contemporanei di evoluzionismo e di razzismo scientifico. L’intento era quello di giustificare la superiorità della razza “bianca” e questa poteva trovare una sua dimostrazione attraverso il concepimento di uno zoo umano.
Ota Benga inizialmente presentato come il vincolo transizionale più vicino all’uomo, fu esibito come un esemplare vivente dei più antichi antenati umani, questo soprattutto grazie ad alcune caratteristiche fisiche dello stesso Ota il quale presentava denti appuntiti “simili a quelli delle belve”.
La mostra divenne immensamente popolare e controversa. La comunità nera venne oltraggiata così come venne osteggiato l’intento della mostra anche da parte della Chiesa che temeva che il popolo si potesse lasciar indottrinare dalle teorie evoluzioniste di Darwin.
Decine di migliaia di visitatori affollavano lo zoo per vedere l’attrazione primaria. Ota Benga venne deriso, sbeffeggiato, schernito dai visitatori. In The Pygmy in the Zoo, si raccontano scene in cui Ota Benga veniva “picchiato, deriso, alcuni visitatori gli facevano lo sgambetto”.
La sua esperienza allo zoo finì quando, costruito un rudimentale arco con le frecce, iniziò a sparare sulla folla di visitatori, lasciando così il parco per sempre.
Dopo la sua esperienza nello zoo diverse istituzioni cercarono di aiutarlo. Inizialmente finì in Virginia in un seminario, lasciando la scuola per andare a lavorare in una fabbrica di tabacco.
La crescente nostalgia di casa fece si che nel 1916 Ota Benga, da molti considerato come l’ultimo schiavo, arrivò al suicidio a soli 32 anni.
Questo mio post si conclude con una riflessione, non mia, ma che sento tale come studiosa di Antropologia. Così come giustamente ha affermato una mia collega di fronte a questa storia “non dovremmo dimenticarci di imparare da queste vicende”. Mai.
"La vita di Ota Benga venne utilizzata per dimostrare la supremazia bianca sia dal punto di vista antropologico che culturale, ma la sua esperienza dovrebbe soltanto costringere chiunque a chiedersi chi sia il vero selvaggio in questa storia" .

Maria Lucia Mette
Bibliografia
Phillips Verner Bradford, harvey Blumes, The pygmy in the Zoo”, 1993

lunedì 30 gennaio 2012

Calcio con passamontagna

Il calcio è lo sport più popolare nei territori zapatisti [1]. Lì tanto gli uomini come le donne giocano dando calci ad un pallone nonostante non abbiano nessun campo. Non hanno scarpe da calcio e qualcuno nemmeno le calze adeguate. Però tutti, dal portiere fino all'ala sinistra, indossano sul volto il passamontagna [2] di sempre. Sullo sfondo nero delle loro maglie, le grandi lettere rosse nel petto indicano che l'undici non è altro che la selezione dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) [3]. L'emblema è la stella rossa [4] e salutano il pubblico sugli spalti portandosi la mano sinistra a un estremo della fronte.

L'esercito ribelle, sia dentro che fuori del campo, consegna le armi. Nel marzo del 1999, gli zapatisti realizzarono la "marcia del colore della terra" [5] e la "consulta nazionale per i diritti indigeni". E tra tante attività si concretizzò la prima partita di calcio. Da una parte, i ribelli; dall'altra, ex giocatori allenati dal selezionatore messicano Javier Aguirre [6]. La partita terminò con un combattivo 5-3 a favore degli ex professionisti, ma il motto zapatista era chiaro: l'unica sconfitta è non continuare a lottare. Javier Aguirre in merito a questa partita commentò: "Gli zapatisti vennero al campo senza scarpette, con scarponi militari, per cui dovemmo prestarglieli noi. Non si vollero togliere il passamontagna per giocare".

6, 7 anni fa il subcomandante Marcos [7] (Comandante dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale EZLN) invitò l'Internazionale ad una partita amichevole con la selezione zapatista: "Le scrivo per invitarla (a Massimo Moratti) formalmente ad una partita tra la sua squadra e la selezione dell'EZLN nel luogo, data e ora che definiremo. Visto il grande affetto che nutriamo per voi, siamo disposti a non sconfiggervi con una goleada e darvi un dispiacere, ma a battervi con un solo gol in modo che i suoi nobili tifosi non vi abbandonino", ironizzò il ribelle. Lo stesso Javier Aguirre collaborò all'organizzazione della partita, e Marcos propose che facesse il guardalinee, insieme a Jorge Valdano [8]; l'arbitro sarebbe stato Diego Maradona mentre la telecronaca sarebbe stata a carico di Eduardo Galeano e Mario Benedetti [9]. Alla fine la partita non fu mai giocata.

L'amicizia con i sopraccitati è reale visto che la delegazione Interista ha dato appoggio con denaro, medicine e magliette. Javier Zanetti, il capitano neroazzurro, disse: "Crediamo in un mondo migliore, in un mondo non globalizzato, ma arricchito dalle culture e dai costumi di ogni popolo. È per questo che vogliamo appoggiarvi in questa lotta per mantenere le vostre radici e combattere per i vostri ideali". Il Pupi Zanetti confessò, insieme ai suoi compagni, di essere convinto di condividere gli stessi principi e ideali "che riflette lo spirito zapatista".


Dalla sua sollevazione armata il 1 gennaio del 1994, il movimento nascosto tra selve e montagne del sud est messicano non combatte solo due governi. Lo zapatismo inoltre raccoglie appoggi in tutto il pianeta. E l'interesse per quello che succedeva in Chiapas commosse in maniera decisa direttivo e giocatori dell'Inter di Milano quando nell'aprile del 2004 un gruppo di paramilitari attaccò e ferì diverse famiglie - base di appoggio zapatista - e danneggiò il sistema di trasporto dell'acqua agli indigeni a Zinacantán [10].

Grazie a un dirigente, Bruno Bartolozzi, il grave incidente arrivò all'orecchio del capitano interista Javier Zanetti, fondatore e mecenate della Fondazione Pupi, entità che dedica sforzi e denaro a curare pibes [11] in estrema povertà in Argentina. Insieme a sua moglie, Paula, il transandino [12] è anche un fervente indigenista [13]."Con la Fondazione Pupi appoggiamo la lotta del popolo mapuche [14] della Patagonia, a cui stanno togliendo le terre", racconta da Milano la signora Zanetti. In ogni caso, con il Chiapas la questione fu diversa. "Visto che Javier è il capitano dell'Inter, appena Bartolozzi parlò con lui, i giocatori destinarono duemilacinquecento euro per riparare l'acquedotto danneggiato nell'attacco", afferma Paula. Tempo dopo inoltre donarono una grande quantità di denaro per riparare un'ambulanza e aiutare un ospedale con infrastrutture e medicine.

La risposta zapatista agli sportivi arrivò nel maggio del 2004. "Ci rallegra, sappiamo di non essere soli nella nostra lotta. Siamo felici perché in tutto il mondo ci sono fratelli e sorelle come voi che hanno coscienza e che vogliono costruire un mondo di giustizia e dignità", scrissero dalla selva Lacandona [15]. L'autonomia zapatista, strutturata in cinque Giunte di Buon Governo, fino ad oggi non riceve aiuto alcuno dallo Stato messicano. Per questo, l'enorme rete d'appoggio mondiale ha un ruolo rilevante. L'Inter è uno in più.


Palla nella selva

In Chiapas ci sono 39 comunità indigene zapatiste o Municipi Autonomi stabiliti in cinque regioni, chiamati Caracoles. Sono ribelli e, a volte, organizzate, attributi di grandi squadre e calciatori. Il giorno in cui in Chiapas si dedicheranno, anche, a giocare a calcio non ci sarà squadra che potrà sconfiggerli. Per ora questo tuttavia manca, ma è dovuto ad altre mancanze. Si racconta in uno dei Caracoles: "Successe che un giocatore italiano che morì lasciò la sua eredità perché si costruisse un campo di calcio in un villaggio zapatista. Questo campo poteva essere utilizzato solo dalla gente di Guadalupe Tepeyac [16], per questo parlammo con tutto il villaggio e gli spiegammo che c'erano altre necessità più urgenti per il beneficio di tutti gli abitanti, per esempio uno spazio dove potessero lavorare le compagne che si dedicavano alla medicina tradizionale. La popolazione comprese e disse che andava bene, che era giusto destinare il denaro alla salute di tutti; il secondo passo fu quello di parlare con i donatori e questi all'inizio non volevano che si usasse il denaro per altre cose, ma alla fine accettarono". Fino ad oggi, nel mondo non ci sono campi zapatisti. Il calcio dovrà aspettare che l'erba renda il campo più degno, più uguale e più libero. La volta che si giocherà lì, il trionfo sarà assicurato.


Pubblicato originariamente in spagnolo da Hinchas Antifascistas, su:
Traduzione e note a cura di Domenico Branca

Note

[1] Per "territori zapatisti" si intendono sostanzialmente i territori dello stato messicano del Chiapas (73887 km², 4255709 ab.), che confina a sud col Guatemala e ad est col Belize, si affaccia ad ovest sull'Oceano Pacifico; confina con gli stati messicani di Oaxaca, a nord ovest, e Tabasco, a nord. La capitale e città più grande è Tuxtla Gutiérrez, circa 500000 abitanti. Cfr il sito istituzionale dello Stato all'Url http://www.chiapas.gob.mx/ (consultato il 30/01/12).

[2] Il passamontagna è uno dei simboli dell'EZLN. I combattenti lo indossano insieme ad un fazzoletto legato intorno al collo.

[3] Ejército Zapatista de Liberación Nacional, EZLN. È un movimento armato d'ispirazione marxista e indigenista (cfr nota 13) del Chiapas. Zapatista è un termine che si riferisce al guerrigliero messicano Emiliano Zapata Salazar (San Miguel Anenecuilco, Morelos, 8 agosto 1879 – Chinameca, Morelos, 10 aprile 1919), fra i capi della rivoluzione messicana degli anni '10 del Novecento. L'Ejército è formato soprattutto da discendenti di popolazioni autoctone maya, persegue una politica vòlta all'affermazione dei diritti degli indigeni, alla dignità e alla costruzione di una società basata su libertà, giustizia e democrazia. È un movimento fortemente anti-liberista (la bibliografia sull'argomento è sterminata: cfr, su tutti, Hernández Millán, A., EZLN. Revolución para la revolución (1994-2005), Editorial Popular, 2007).

[4] La bandiera dell'EZLN consiste in una stella rossa posta al centro del drappo su sfondo nero.

[5] La Marcha del color de la tierra (marcia del colore della terra), così denominata la marcia di oltre 250000 persone che, partita dal Chiapas attraversò pacificamente a piedi tutto il Messico, per arrivare alla capitale e dire Aquí estamos, qui stiamo, col significato di affermare la presenza degli indigeni nella vita politica del Messico (cfr Minà, G., 2001, Marcos: aquí estamos (un reportage in due puntate sulla marcia degli indigeni Maya dal Chiapas a Città del Messico con una intervista esclusiva al Subcomandante realizzata insieme allo scrittore Manuel Vazquez Montalban).

[6] Javier Aguirre, (Città del Messico, 1 dicembre 1958), ex calciatore e allenatore messicano.

[7] Subcomandante Marcos o Subcomandante Insurgente Marcos è uno dei capi dell'EZNL. Il termine "Subcomandante" si riferisce al fatto che i comandanti sono i rappresentanti eletti dal popolo chiapaneco. Figura carismatica, non indigeno, non ha mai mostrato il suo volto, sempre coperto – come tutti i comandanti dell'EZLN – da un passamontagna. Il 9 febbraio 1995 i servizi segreti messicani si sono detti sicuri che Marcos sia in realtà l'ex ricercatore universitario Rafael Sebastián Guillén Vicente (Tampico, Messico, 19 giugno 1957). Interessante su questo argomento un video fatto circolare dagli zapatisti su internet: http://www.youtube.com/watch?v=thAiSkX4qwo (Url consultato il 30/01/12). Su Marcos, cfr fra gli altri, Ramonet, I., 2001, Marcos. La dignità ribelle, Asterios; di Marcos, cfr fra gli altri, 1995, Io, Marcos. Il nuovo Zapata racconta, Feltrinelli, e 2006, Libertad y dignitad. Scritti sulla rivoluzione zapatista e impero, Datanews.

[8] Jorge Alberto Valdano Castellano (Las Parejas, Santa Fe, 4 ottobre 1955), dirigente sportivo, allenatore ed ex giocatore di calcio argentino.

[9] Eduardo Germán María Hughes Galeano (Montevideo, 3 settembre 1940), giornalista scrittore e saggista uruguaiano; tra le sue opere principali cfr 1971, Las vienas abiertas de América Latina, Siglo XXI e 1995, El fútbol a sol y sombra, Siglo XXI. Mario Orlando Hardy Hamlet Brenno Benedetti Farrugia (Paso de los Toros, Uruguay, 14 settembre1920 – Montevideo, 17 maggio 2009), scrittore e poeta uruguaiano; tra le opere cfr 2000, Primavera con una esquina rota, Sudamericana e 1979, Pedro y el Capitán, Santillana.

[10] Città di circa 30000 abitanti, ubicato tra le montagne della Sierra Madre, in Chiapas.

[11] "Bambini".

[12] Si riferisce alla sua origine argentina, transandina (Ande) rispetto al Messico e al Chiapas.

[13] L'indigenismo è un movimento letterario, antropologico, cinematografico, artistico e musicale nato inizialmente in Perù e sviluppatosi poi in tutta l'America Latina, incentrato sulla figura dell'indio come individuo sociale e culturale in situazione di subalternità e degrado. Per quanto riguarda la letteratura, cfr su tutti Arguedas, 1996, I fiumi profondi, Fabbri Editore; per quanto riguarda l'antropologia, cfr tra gli altri, Aguirre Beltrán, G., 1967, Regiones de Refugio, Instituto Indigenista Interamericano, México, Bonfil, G., 1970, "Del indigenismo de la revolución a la antropología crítica", en De eso que llaman antropología mexicana: 39-65, México, Nuevo Tiempo, Favre, H., 1998, El indigenismo, Fondo de Cultura Economica USA; per quanto riguarda il cinema, cfr fra gli altri, Sanjinés, J., 1966, Ukamau; per quanto riguarda la musica, cfr fra gli altri, Alomía Robles, D., 1913, El cóndor pasa; per quanto riguarda la pittura, cfr fra gli altri l'opera della pittrice Julia Manuela Codesido y Estenós (Lima, 1892-1979).

[14] I mapuche sono una popolazione autoctona sudamericana stanziata nel Cile meridionale e nell'Argentina del sud ovest; cfr, fra gli altri, Bengoa, J., 1999, [1985], Historia del pueblo mapuche: siglo XIX y XX, Santiago de Chile, LOM Ediciones.

[15] La Selva Lacandona è una zona dello stato messicano del Chiapas, quartier generale dell'EZLN.

[16] Villaggio di circa 800 abitanti situato nel Municipio di Pantelhó, stato del Chiapas.