mercoledì 25 maggio 2011

Di tradizioni e invenzioni...

È da un po' di tempo che mi chiedo come un antropologo si debba porre di fronte all'invenzione di una tradizione. Vivendo in Sardegna, poi, è una situazione che ci troviamo di fronte quasi ogni giorno. Le proteste dei Mamuthones di Mamoiada e del gruppo folk di Gavoi danno segno del problema dei nuovi “falsi”. I primi hanno detto chiaramente basta all'uso indiscriminato del loro nome creando anche un marchio, i secondi hanno rinunciato alla partecipazione della Cavalcata Sarda con motivazioni sia di tipo economico che di tipo culturale: il sindaco si è lamentato del fatto che ogni anno nascono nuovi gruppi senza che vengano fatte ricerche scientifiche serie da parte di chi ha il titolo per farle: etnografi, storici, antropologi, veri studiosi di tradizioni popolari.

Ma è davvero un problema così grave l'invenzione di sana pianta di una tradizione? Forse sì e per vari motivi. Credo innanzitutto che ogni singola comunità abbia le sue potenzialità culturali e quindi non abbia nessun bisogno di inventarsi un abito, una maschera o una festa. In secondo luogo non credo sia rispettoso, né per i turisti tanto meno per gli autoctoni, inventare un qualcosa che non faccia parte del proprio bagaglio culturale, soprattutto se in ballo ci sono motivazioni di tipo economico. Inoltre le ricostruzioni/invenzioni sono poco credibili in termini di tempo delle ricerche e in termini dell'uso di fonti poco attendibili.


L'argomento potrebbe sembrare scomodo e pericoloso ma vorrei lanciare una provocazione. Se si è così sicuri (e di certo sarà così) che nel proprio paese ci sia stata una maschera, perché affidare gli studi a se stessi e a pseudostudiosi creando dei clamorosi falsi, e non invece ingaggiare chi si occupa sudando su libri e facendo ricerche serie? Sappiamo che molte delle maschere create in questi ultimi anni sono state ricostruite sulla base di poesie di Bonaventura Licheri, missionario gesuita di cui è dubbia la data della sua nascita, figuriamoci la proprietà di quegli scritti. Non so se dietro ci siano esigenze di carattere politico come quelle che hanno spinto all'invenzione delle origini celtiche dei padani o esigenze di carattere più culturale che spingono le persone a creare se stesse per la paura di perdersi, o persino esigenze di moda che fanno pensare “Ce l'hanno gli altri quindi devo averla pure io”, o, ancora, tutte e tre le cose insieme. Se poi mettiamo a confronto la questione delle nuove maschere con l'altra invenzione della fine del secolo scorso, ovvero l'accabadora, il problema credo si allarghi.


È vero che ci sarà anche l'altra faccia della medaglia. Le persone che hanno creato queste maschere potrebbero giustificarsi con il fatto che ci si diverte a mascherarsi, che è l'ennesimo motivo di convivialità e di festa. E questo discorso ci sta se però non si spaccia quella festa come “vera”, “storica”, “tradizionale”.

Ai posteri l'ardua sentenza...


Valentina Mura


"Le tradizioni che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un'origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta". Eric J. Hobsbawm



martedì 17 maggio 2011

Geertz e la meccanica quantistica

Cosa c’entra l’antropologia culturale con la meccanica quantistica? Nulla, direte voi.. e invece alcune sue riflessioni che hanno spalancato le porte ad una revisione del metodo etnografico e agli ultimi sviluppi dell’antropologia culturale sembrano richiamare alcuni importanti aspetti della fisica contemporanea.

Considerate la luce. I risultati sperimentali dicono che per essa vale il principio di complementarietà: essa si comporta cioè sia come onda che come particella. Cosa vuol dire non sto qui a spiegarvelo, anche perché prima lo dovrei capire io.

La cosa interessante sta negli esperimenti che hanno permesso di arrivare a questa verità oggi scientificamente acquisita.

Questo video è di quelli for dummies e spiega in termini semplici (e soprattutto senza equazioni) l’esperimento e la sua interessante conclusione: se osservate le particelle produrranno un effetto differente rispetto a quello ottenuto se non osservate. Lasciate perdere i riferimenti che il video fa ad una sorta di ‘volontà’ dell’elettrone, che sembra, secondo le parole che vengono usate, accorgersi dell’osservatore. Il fatto è che

per vedere l’elettrone dovete fargli qualcosa, ad esempio illuminarlo, cioè colpirlo con dei fotoni. A scale ordinarie i fotoni sono piccole sonde trascurabili che rimbalzano su alberi, quadri e uomini senza sostanzialmente modificare lo stato di moto di questi grandi agglomerati di materia. Ma gli elettroni sono anch’essi piccoli. Per quanto siate cauti nel controllare la fenditura dal quale un elettrone è uscito, lo colpirete con fotoni che alterano il suo moto successivo, e questo cambia i risultati dell’esperimento (Greene 2003: 94).

In sostanza quindi possiamo dire che la presenza di un osservatore produce un’interferenza con il fenomeno da osservare.

Ora riportate questa riflessione nell’ambito del dibattito antropologico.

In un suo interessantissimo saggio Leonardo Piasere (2009) racconta alcune sue esperienze di ricerca tra gli zingari e indica gli approcci metodologici seguiti nell’approcciarsi allo studio della loro cultura.

La prima ricerca è stata condotta con un approccio oggettivista, “che dice che la realtà c’è, è li fuori da te, sta a te scoprirla e scoprirne le leggi e le riposta; che dice che la realtà è sempre quella e non muta al variare dell’osservatore” (ivi: 69).

La sua seconda ricerca ha seguito invece il metodo dell’etnoscienza che cerca di studiare “il modo o i modi di conoscere di una popolazione, partendo dalle categorie che essa si forgiava […], di vedere il mondo con gli occhi dell’indigeno” (ivi: 71).

Pur con enormi differenze concettuali entrambi i metodi, almeno nel resoconto del loro utilizzo che ne fa Piasere, hanno portato al medesimo risultato: la sparizione, nei testi etnografici frutto di quelle esperienze, della figura dell’antropologo, come se il fatto stesso di essere o meno presente sul campo come osservatore non avesse il minimo effetto sulle dinamiche culturali in atto.

Oggi sappiamo che non è così. Le intuizioni di Geertz hanno aperto la strada ad un nuovo modo di fare etnografia. Questa è prima di tutto l’incontro tra due figure (il ricercatore e l’informatore) che costruiscono dialogicamente un orizzonte condiviso che influenzerà in maniera determinante l’esito della ricerca e le possibilità di conoscenza.

Pensare che la realtà esista in maniera assolutamente oggettiva indipendentemente da noi che la guardiamo non ha alcun senso: noi siamo presenti sul campo e volenti o nolenti costituiamo un elemento nuovo che crea equilibri nuovi; pretendere di ‘guardare il mondo con gli occhi del nativo’ è altrettanto illusorio perché noi NON siamo il nativo, NON siamo dei soggetti privi di schemi culturali che possono assorbire senza problemi i dettami culturali di altri popoli.

E allora rassegnamoci al fatto che la ricerca etnografica funziona grossomodo come gli esperimenti sul fascio di elettroni: il fenomeno osservato è differente da quello non osservato, perché l’azione stessa dell’osservazione cambia il terreno in cui il fenomeno si manifesta.

Alessandro Pisano

Bibliografia

Greene B.

2003 L’universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la ricerca della teoria ultima, Torino, Einaudi (ed. or. 1999, The elegant universe. Superstrings, hidden dimensions, and the quest for the ultimate theory).

Piasere L.

2009 L’etnografia come esperienza”, in Vivere l’etnografia, a cura di F. Cappelletto, Firenze, SEID, pp. 65-95.

Bauman e sue considerazioni sull'individuo e sulla società...

Mi è capitato da poco di sentire un intervento di Giulietto Chiesa a Sassari (all’ex questura occupata) e, pur avendo dei toni estremamente catastrofistici ed essendo di un orientamento politico molto marcato che influenza visibilmentela sua analisi politica, economica e sociale ha evidenziato dei punti critici a mio avviso molto interessanti (e inquietanti)
Nonostante abbia dei toni e una prospettiva un po’ diversi (Giulietto Chiesa è più politico) mi ha fatto venire in mente un libro di Baumann che ho letto da poco (l’unico diciamo : P) che analizza la società postmoderna in una prospettiva naturalmente più sociologica rispetto a quella di Giulietto Chiesa ma che ha in comune con lui una fortissima carica contestataria e una grande lucidità nell’evidenziare alcuni punti estremamente problematici della società occidentale contemporanea, quella appunto che viene chiamata “postmoderna”.
Tra le molte cose di cui parla dice che i diritti politici, se non sono accompagnati dai diritti sociali non servono a nulla
<<Senza diritti sociali per tutti un largo e, con ogni probabilità, crescente numero di persone troverebbe i propri diritti politici inutili e non meritevoli della loro attenzione. Se i diritti politici son necessari per istituire i diritti sociali, i diritti sociali sono indispensabili per mantenere i diritti politici operativi. I due tipi di diritti hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere: la loro sopravvivenza può essere soltanto una conquista comune.>>[1]
Parla dell’importanza di istituire e difendere uno stato sociale forte perché davvero una comunità possa avvalersi delle energie, della creatività e della presenza di tutti i suoi elementi, anche e soprattutto di quelli più deboli.
Parla di come uno stato sociale forte non sia affatto in contrasto con l’economia capitalistica ma al contrario, paesi del nord europa che si avvalgono di questo modello, come la Svezia, abbiano un’economia e dei consumi molto alti. Si tratta semplicemente di difendere la società dai “danni collaterali” terribili che questo tipo di economia e società causerebbe, come difatti causa, se non è controllata.
Questo discorso ne porta dietro un altro ancora più profondo e radicale. Fa una riflessione sul concetto di comunità e, senza idealizzare affatto il mondo contadino, su come enormemente questo concetto sia cambiato nella società contemporanea.
Parla del fatto che l’idea di individualismo, di individuo capace di potersela cavare e affermarsi con le sue sole forze, se entro certi limiti può essere molto propositiva oltre questi diventa devastante: l’individuo è infatti lasciato solo a risolvere problemi che non può risolvere perché sono problemi sociali strutturali e collettivi di cui non si può far carico il singolo. Viene meno qualsiasi idea di solidarietà e di umanità, i rapporti umani finiscono per seguire le stesse esatte regole economiche. L’economia e le regole di mercato finiscono per diventare parte costitutiva dei rapporti umani che diventano veloci, molteplici e non vincolanti, rapporti usa e getta.
La parte più devastante di questa analisi è costituita dal fatto, perché poi continua, che l’individuo prima di essere cittadino è trasformato non in consumatore, come si dice sempre ma, addirittura, in merce. Ma non solo in quanto viene considerato tale dall’economia di mercato ma in quanto , secondo Baumann viene alterata la percezione profonda che l’individuo ha di se e della propria identità.
E’ questo naturalmente è molto più grave, è una società in cui “nessuno può diventare un soggetto senza prima trasformarsi in merce”[2] . La costruzione della soggettività non è più legata a qualcosa di interirore ma viene proiettata all’esterno sulle merci.
Manca qualsiasi tipo di riflessione e introspezione, l’individuo diventa una sorta di attaccapanni sul quale appuntare ogni tipo di merce e status symbol per il solo fatto che questo diventa indispensabile per la costruzione della propria identità e dell’immagine che si ha di se stessi.
La soggettività dei consumatori dice, è fatta di scelte d’acquisto e la descrizione di questa soggettività prende la forma di una lista della spesa.
Quello di cui lui parla è semplicemente di ridiventare cittadini (e , probabilmente, più semplicemente“persone”) e di vivere in una società ( che non per forza è antitetica a questo tipo di economia) in cui il benessere di tutti è affare di tutti, in cui si percepisca come prezioso un individuo al di là della propria capacità di acquisto, in cui ci sia una forte rete di istituzioni condivise cui
<<può essere attribuito con fiducia e con una ragionevole attesa di successo, il compito di garantire la solidarietà e l’affidabilità delle misure di assicurazione collettiva di fonte statale>>
E l’applicazione di questo principio potrebbe aiutare a combattere la povertà e far si che la società diventi una fonte di solidarietà e non un treno in corsa che produce esclusione e
<<il terrore di vedersi negato il rispetto che si deve agli esseri umani>>[3]
Riporta anche un brano del programma social-democratico svedese del 2004:
<<Ogni persona, a un certo punto, diventa fragile. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro. Viviamo le nostre vite qui e adesso, assieme agli altri, esposti al cambiamento. Saremo tutti più ricchi se a tutti noi sarà permesso di partecipare e nessuno sarà escluso. Saremo tutti più forti se c’è sicurezza per tutti e non solo per pochi.>>
((Giulietto Chiesa che parla in modi e tempi diversi qui oggi, trae, per certi versi le sue conclusioni, discutibili, apocalittiche e forse, un po’ esagerate (ma non è detto) di alcune di queste cose.)
Secondo Bauman questo cambiamento passa per vie politiche, è di certo in parte è così, ma quello di cui si avrebbe bisogno è anche, e forse soprattutto, una profonda , lentissima introspezione e una riflessione dell’uomo su se stesso e su quali sono, o sarebbe auspicabile che siano i rapporti interumani.
Alessia Sini



[1] Baumann, Individualmente insieme, ecc.. p. 65
[2] Ibi, p.58
[3] Ibi, p.64

domenica 15 maggio 2011

E Johnny perse il fucile

Capita di sentire qui nel caro vecchio occidente la notizia al telegiornale, o in quotidiani e riviste della morte in guerra – valorosamente, in pieno stile cavalleresco – di un giovane soldato, perito da eroe, emblema di una nazione e di una cultura, di un way of live, del way of life politicamente, economicamente, culturalmente congruo, esatto, etico, morale, umano, buono. La notizia disegna l'eroe culturale, quasi un Prometeo, come la piena manifestazione personificata dei valori nazionali. Egli ha un nome che però potrebbe essere quello di qualunque altro suo connazionale. Trasmessi, quindi, i valori pedagogici volti ad assicurare che tutti gli organi del corpo funzionino (patriottismo, ideologia, Verità, volontà divina etc.) la notizia continua: «morto il soldato americano (o italiano) John Smith (o Mario Rossi)... e altri 15 iracheni / afghani», o quel che passa la contingenza storica. Qui si sottolinea la differenza di essere; si reitera la morte dei morti de-umanizzandoli, disumanizzandoli. Sarà per l'oggetto di studio mischiato a considerazioni politiche, ma avverto più intensamente questa asimmetria. L'anonimo soldato americano ( o italiano) ha ottenuto da morto il privilegio di essere-stato, in quanto americano (o italiano), giusto. I 15 morti per l'occidente – forse nuovo-neo-colonialista sotto la bandiera dell'esportazione della democrazia – non rivestono quell'importanza tale da venire ricordati o raccontati; essi sono /erano distinti culturalmente, altri, alieni nell'accezione forte del termine. Così all'identità – sia individuale che nazionale – viene assegnato il proprio nome: qui, vicino John Smith = Occidente, Stati Uniti, Cultura; , lontano 15 iracheni / afghani = non-Occidente, alteri-terra, incultura.

Forse, è vero che la fortuna è un fatto geografico e, aggiungo, culturale. Ahimé, abbiamo perso (noi, occidentali, se mai l'abbiamo realmente avuta o ci abbiamo mai creduto) quell'universalità della cultura che ci aveva insegnato Tylor. Oggi, più che allora, esistono Culture e Uomini, culture e uomini.

sabato 7 maggio 2011

La memoria delle cose

Nell’anno 2010 ho svolto il Servizio Civile Nazionale presso il Comune di Bortigiadas, nell’ambito del progetto “Invecchiare bene…invecchiare insieme” che si proponeva tra i suoi obiettivi la sperimentazione di attività che favorissero “lo scambio di esperienze e la rottura dell’isolamento intergenerazionale esistente tra le classi di età più giovani e quelle più anziane”.
L’intero percorso è stato una continua ricerca in cui alla componente umana, che inevitabilmente riempie di sé un rapporto di stretta vicinanza con una persona anziana, si è accompagnato un senso di profonda consapevolezza della funzione che gli oggetti del passato potevano svolgere nella vita di queste persone.
La precarietà di un corpo consumato dagli anni, si intuisce con maggiore acutezza quando l’anima si manifesta attraverso i ricordi di una memoria che, tenacemente, si aggrappa ad ogni fune che le venga lanciata. E se dall’altra parte della fune a tirare c’è un bambino, la tensione cresce e si fa “processo”, di trasmissione di saperi e di instaurazione di un legame che sottrae entrambe queste due categorie alla propria “precarietà”.
La cultura materiale è un universo che porta con sé qualcosa di assolutamente immateriale, ovvero, il vissuto delle persone.
La quotidianità alla quale malattia e solitudine abituano gli anziani si riempie di un tempo infinito quando gli compare davanti un oggetto del loro passato: lu brusgia-caffè, il tosta-caffè, la mazinedda, il macina-caffè, la prancia a calboni, il ferro da stiro a carbone, lu siazzu, il setaccio, lu culiri, il crivello, … ognuno di questi oggetti evoca odori, suoni e relazioni dell’uomo con le “cose”, che lo hanno accompagnato per tutta la vita e con gli altri, che di queste “cose” condividevano l’aspetto funzionale e sociale.
L’oggetto innesca un processo di “drammatizzazione” che coinvolge tutte le facoltà dell’uomo, fisiche e mentali, in una disciplinata rievocazione di gesti e parole. Non assistiamo ad una riproposizione di ricordi slegati tra loro ma ad una precisa esposizione di azioni e denominazioni che altro ordine non potrebbero seguire se non quello che impone loro il principio di funzionalità che li ha generati.
“Le creature, gli oggetti che vengono al mondo, o vengono posti in essere, ci appaiono come delle entità-oggetti, quasi come fossero sempre esistite (in un mondo di idee, appunto), classificate nei nostri scaffali come cose inerti, in realtà, non sono altro che “specie” combinatorie generate nel gioco incessante delle dinamiche, delle ergonomie, delle sensibilità manuali” (Solinas, 2007: 119).
Oltre alla realtà ergonomica che essi evocano, gli oggetti godono di uno statuto sociale che reintegra l’uomo a se stesso e gli consente di riappropriarsi della sua identità. Gli oggetti, a loro volta, riacquistano dignità e vigore sottraendosi al silenzio cui li relega la loro natura inanimata.
Tutto questo ha a che fare con l’antropologia? Queste brevi riflessioni sono il frutto di una singolare ricerca sul campo in cui cultura materiale, materia culturale ed umana hanno innescato un processo di interazione le cui conseguenze possono essere valutate secondo un criterio qualitativo che soddisfa più prospettive, compresa quella, a mio parere, antropologica.

Marta Gabriel

BIBLIOGRAFIA

Rigotti Francesca
2007 Il pensiero delle cose, Milano, Apogeo.

Semprini Andrea
1996 L'oggetto come processo e come azione. Per una socio-semiotica della vita quotidiana, Bologna, Progetto Leonardo.


Solinas Pier Giorgio
2007 SCRIPTA INDICA: status, rituale, dipendenza, Dispensa per il corso di Etnologia, Unisi.


Viney Linda L.
2007 L'uso delle storia di vita nel lavoro con l'anziano. Tecniche di terapia dei costrutti, Gardolo (TN), Erickson (ed. or. 1993 Life Stories, England, John Wiley&Sons Ltd).






venerdì 6 maggio 2011

Ci saranno le tradizioni di domani?

Questa riflessione prende spunto dal, quanto mai attuale, saggio di Pietro Clemente e Fabio Mugnaini, Oltre il Folklore del 2001.
Nell’introduzione a : “la tradizione di domani”, Mugnaini apporta alcune considerazioni che reputo siano di fondamentale importanza nel panorama attuale degli studi demo-etnoantropologici.
Lo storico che fra cento anni si cimentasse in una ricerca sulle tradizioni popolari italiane del nuovo millennio, scoprirebbe che quelle stesse tradizioni avevano subito modificazioni così radicali da essere quasi irriconoscibili. Viene spontaneo chiedersi le motivazioni di questa “diversità” rispetto al passato.
Occorre allora indagare sulla relazione fra “studioso” e “portatore di tradizione”. E’ ancora possibile fare una distinzione fra i due soggetti? Identità sociali, condizioni economiche, patrimoni culturali, gli stessi orientamenti ideologici si presentano oggi articolati in configurazioni instabili, basate su solidarietà parziali nelle quali lo studioso deve via via orientarsi, interrogandosi sul senso sociale della sua funzione.
Quegli studi che definiamo “demologici” debbono in ogni caso fare i conti con la realtà socio culturale contemporanea trasformandoli in conseguenza, per dirla alla Cirese.
Contrariamente a quanto accade per altre discipline, la produzione saggistica nell’ambito degli studi di folklore è praticamente e costitutivamente al di fuori di ogni possibilità di controllo. Questo in parte è dovuto alla costante, e sempre crescente, domanda di libri sulle tradizioni popolari, e da vita a un continuum nel quale questa pratica della disciplina, un tempo teoricamente e metodologicamente responsabile, sfuma verso altre forme di produzione intellettuale che, se da un lato vanno verso la divulgazione semplificata e spesso la vera e propria contraffazione, dall’altro assumono la portata e il valore propri “della ricerca territoriale”, che risponde a bisogni o strategie di politica culturale localizzati.
Il rinnovamento delle discipline antropologiche ha messo in crisi quei modelli di rappresentazione della società e gli schemi teorici totalizzanti, avviando una revisione dei confini fra scienza e letteratura. Inoltre non si possono non considerare le trasformazioni sul piano sociale e culturale in atto che agiscono anche sulle comunità a cui si riferiva solitamente lo studioso di folklore. I suoi oggetti sono meno riconoscibili, in alcuni casi sfuocati ed in altri ENFATIZZATI (ne sono esempio tutti quei mestieri del passato riproposti nelle feste paesane) e in certi casi ancora vengono inseriti in categorie MERCEOLOGICHE DEL MERCATO CULTURALE. I ceti solitamente considerati portatori di tradizioni si fanno progressivamente marginali e residuali.
Per conoscere e comprendere nella loro dinamicità l’insieme della cultura popolare contemporanea e i suoi singoli generi o prodotti occorre allora estendere l’attenzione dai “testi”, dagli “istituti”, dagli “oggetti” ai processi che li determinano, agli oggetti sociali che ne fanno uso e ai contesti che ne registrano o provocano l’insorgenza e l’adozione.
Rudolf Schenda nel saggio Folklore y cultura de masas affronta uno stereotipo molto diffuso: quello che vorrebbe la cultura popolare e tradizionale legata solo al passato e incompatibile con l’industria culturale di massa e con le attuali condizioni di comunicazione sociale. Ricordiamo che il patrimonio folklorico si è avvalso per secoli del supporto della tecnica, attingendo non solo alle opportunità meccaniche di diffusione e di conservazione ma appoggiandosi anche a quel circuito di diffusione che la stampa era in grado di innescare.

Maria Lucia Mette

lunedì 2 maggio 2011

Chi può dirsi antropologo?

Credo che sia arrivato il momento di tirare le somme della mia esperienza formativa… non ho ancora completato la laurea magistrale in Antropologia culturale ed etnologia, ma a pochi esami dalla fine (con tesi in parte definita ma ancora da iniziare) si può già fare un bilancio, soprattutto per quanto riguarda le possibilità di lavoro…


Io e la maggior parte dei miei colleghi quando pensiamo al nostro futuro lo sogniamo nel mondo dell’antropologia ma più realisticamente teniamo aperta qualunque altra possibilità… qualcuno di noi appena laureato ha già appeso l’antropologia al chiodo e sta già facendo altro.


Ma perché è così difficile lavorare in questo settore?


Perché non è che non ci lavori nessuno. Non so bene come funzioni dalle altri parti ma da noi esistono cooperative che gestiscono siti archeologici o musei, liberi ‘professionisti’ che propongono e a cui vengono finanziati progetti di ricerca di vario ambito. Qual è il problema? Che per buona parte né le cooperative né i liberi ‘professionisti’ hanno alcun tipo di formazione accademica. In sostanza la stragrande maggioranza di chi si occupa del settore, ovviamente al di fuori dell’ambito accademico, non ha fatto studi che lo preparassero. Se la maggior parte dei medici o degli ingegneri o degli architetti o degli avvocati esercitasse la propria professione senza avere la laurea (e per molti serve anche l’iscrizione ad un albo) si griderebbe allo scandalo.


Perché invece per l’antropologia non funziona alla stessa maniera? Perché non si grida alla lesa maestà quando ci viene sottratto un lavoro che potenzialmente potremo svolgere noi?


Forse c’è dietro una rassegnazione atavica che affonda le sue radici stesse dell’antropologia. D’altronde l’antropologo è stato per lungo tempo solo una delle figure che si rapportavano con le altre culture: lo hanno fatto amministratori coloniali e missionari, ovviamente con differenti fini e altrettanto differente formazione. Ma oggi la situazione è completamente diversa rispetto a quella dei nostri ‘padri’ e non si tratta di doversi conquistare il diritto ad esistere… l’antropologia culturale è ormai una disciplina scientifica a tutti gli effetti. Ma evidentemente il riconoscimento accademico non basta a garantire quello ‘popolare’. Nel pensiero di molti per occuparsi di antropologia, e specialmente di ricerca folclorica, non serve una preparazione accademica: chiunque è potenzialmente antropologo o folclorista. Niente di più falso, se è vero che nei nostri corsi di studio impariamo oltre a tanta teoria anche un metodo di ricerca da applicare poi nel concreto.


E le occasioni di applicare nel concreto teorie e metodologie apprese non è che manchino… viviamo in un’epoca segnata da un’attenzione a volte persino esagerata verso quella che chiamiamo identità. Globalizzazione e migrazioni internazionali stanno mettendo a dura prova sistemi culturali e stanno creando contraddizioni facilmente strumentalizzabili da movimenti apertamente o subdolamente xenofobi. Tutto diventa terreno di scontro: anche un innocente panino alla mortadella viene etichettato come ‘tradizionale’ e viene contrapposto al ‘non-tradizionale’ kebab. I meccanismi che stanno dietro questa ‘ossessione identitaria’, come la definisce Remotti, sono oggetto di profonde discussioni che coinvolgono tutta la comunità antropologica, dal’emerito professore sino all’ultimo dei blog come questo. In un mio post precedente e in altri di colleghi abbiamo cercato di dare un modesto contributo a questa tematica, ovviamente senza pretese di approfondimento (questo è pur sempre un blog…).


La materia su cui lavorare quindi c’è…


Ma chi ci deve lavorare? E qui ritorniamo alla domanda espressa nel titolo di questo intervento: chi può dirsi antropologo? Sicuramente chi si occupa di antropologia all’interno delle università (docenti, ricercatori, dottorandi, specializzandi) e delle soprintendenze.


Ma solo loro? A mio avviso no. L’università ha formato diverse generazioni di laureati. Conosco la mia e so che è perfettamente in grado di svolgere lavori di ricerca, perché ha imparato facendo esperienze importanti ma anche errori grossolani in ricerche per esami. Errori che, opportunamente analizzati in sede di esame, ha imparato a non commettere più. Il che non vuol dire che non possa commetterne di nuovi… ma la perfezione non è mai stata richiesta neanche a Malinowski, figuriamoci a noi…


La carriera universitaria inoltre segue percorsi propri che a volte, purtroppo, non necessariamente tengono conto del merito, per cui attribuire la qualifica di antropologi solo a chi riesce ad intraprenderla trasformerebbe la richiesta di una legittima tutela in un privilegio di casta.


Perché di questo si tratta: di una richiesta di legittima tutela! Ho scoperto, frugando su internet tanti siti, forum, gruppi su facebook che molti, in maniera più o meno diretta, si pongono lo stesso mio problema: cosa farò una volta laureato? E la risposta che viene data da utenti ormai totalmente disillusi è generalmente quella di lasciar perdere o di andare all’estero. Ma ho trovato su Google anche un tentativo di disegno di legge datato 2006 per l’istituzione dell’ordine degli antropologi. Il problema è dunque vivo e sentito.


Ma che ne è stato di quel tentativo? Sicuramente non è andato a buon fine, altrimenti non si continuerebbe a richiedere tutela. Ed è la soluzione migliore? Sinceramente non ne sono così sicuro.


Ma sono sicuro che sia opportuno riprendere seriamente questo dibattito. Altrimenti la mia generazione sarà l’ennesima che dovrà appendere l’antropologia al chiodo e fare altro.




Alessandro Pisano