venerdì 4 novembre 2011

Il carnevale di Halloween a Derry


Derry,Irlanda (del Nord), 1 novembre 2011.
Cominciò il 28 ottobre. Immaginatevi di essere atterrato col vostro zaino in un posto tutt'altro che familiare, solo. Immaginatevi di avere limiti con la lingua e capire il 10% di quello che vi dicono. Immaginatevi di vagare per le strade della città murata, Derry, senza ben sapere cosa fare, cosa cercare, ma volerlo trovare, poiché il tempo è prezioso. Allora ci si lascia trasportare dal flusso di eventi, dalla quotidianità di una cittadina del nord e piano piano anche i suoni diventano parole, le strade conosciute, le facce viste. I negozi specializzati che vendono solo maschere, costumi, accessori per Halloween; i supermercati con le vetrine che espongono zucche, streghe e pipistrelli; i pub con le insegne arancioni e nere e gli scheletri che ammiccano. Come recita il ritornello di una canzone dance di dubbio gusto, che ho ascoltatao qua: "this is Halloween", questo è Halloween.
Il commercio, il consumo; anche qui non è diverso. Ad un primo sguardo, Halloween a Derry è solo questo. Ma parlando coi ragazzi, nei pub, scopro qualcosa di più. Lo dicono anche loro che è un fenomeno molto consumista e commerciale; ma questo è il contorno di quello che è veramente importante: la festa, la sfilata, la parata, il mascherarsi, l'ubriacarsi, senza controllo, in maniera accettata.
Allora aspetto la parata per capire e, nel frattempo intervisto chiaccherando la gente, molto disponibile. "Trick or treat?" No, noi dicevamo "anything for halloween"; "trick or treat" non e' irlandese, ma americana", mi dicono due anziani che guardano con faccia disgustata un concerto pop, uno dei tanti per il "carnival" di halloween organizzato dal Derry City Counsil. "Hai già ascoltato musica irlandese nei pub? Vai vai, altro che questa roba", mi dice uno dei due.
La gente continua a comprare, e si cominciano a vedere i primi superman e zombies che gironzolano per le strade o si riparano dalla pioggia nei pub.
Una signora mi dice: "quando ero piccola chiedevamo "any nuts for halloween" (qualche noce per halloween), o "anything for halloween" (qualcosa per halloween). Ci mascheravamo, ma più spesso ci pitturavamo la faccia, e andavamo in giro per le case. Ci davano noci, mele, quando eravamo fortunati un penny e qualche dolce. Ma tu aspetta la sfilata e la notte", mi dice.
Quando parlo coi ragazzi la parola che piu' ricorre per descrivere la parata è: "crazy", qualcosa di folle.
Patrick O'Donnel, 70 anni, di Derry mi scrive sul taccuino la canzone che cantava da bambino quando andava a fare halloween con gli amici:
Halloween is coming and the geese are getting fat.
Please put a penny in the old man's hat.
If you haven't got a penny a ha' penny will do
if you haven't got a ha' penny GOD BLESS YOU.
E poi, dopo tre giorni di manifestazioni per turisti o "indigeni" (lettura di fiabe di terrore, anche in gaelico, tours guidati per la città di notte, eventi sportivi, ad esempio), la sfilata.
Non avevo idea materiale di cosa potesse essere. Pensavo ad una invasione di fantasmi, vampiri e morti-viventi; certo, c'erano anche loro. Ma c'erano soprattutto Gheddafi e Bin Laden, infermiere sexy e Babbo Natale, Stalin e un cavallo vestito da imprenditore, soldati e Batman. E "carri", congegni costruiti e mossi dai partecipanti stessi, assurdi, ingegniosi. Un ragno gigante che camminava, un motociclista stile Easy Rider, zucche giganti, per citarne alcuni. Poi i fuochi d'artificio sul fiume Foyle. L'atmosfera era inebriante, ma una ragazza mi ha detto che quest'anno la manifestazione era sottotono per via dei problemi economici dell'Irlanda.
Finiscono i fuochi e l'enorme marea si dirige compatta verso i pub o il palco dove suona una "famosa" band irlandese. Migliaia e migliaia di maschere si rintanano nei pub. La mia maschera favorita era un bagnante: un ragazzo che, con 6 gradi circa, indossava solo il costume da bagno. Nei pub musica irlandese e pinte di birra, è il carnevale di Halloween.
Credo che sia mille miglia distante dalla considerazione che noi abbiamo di questa festa, qua in Irlanda.
Qualche giorno prima, un uomo sui 40 anni a cui ho chiesto indicazioni, mi disse: "quando ero piccolo io non si faceva questo festival. Andavamo solo in giro, la notte, mascherati a chiedere "Anything for Halloween", e a casa facevamo i giochi tradizionali, come prendere con la bocca una mela che galleggia in una tinozza, e mia madre faceva sempre la torta di mele. Io non sono contro il cambiamento, ma voglio che anche le nostre feste e tradizioni non vengano perse. Io voglio che le mie figlie vadano a chiedere "qualcosa per halloween", è la nostra tradizione".
In Irlanda o in Sardegna, è sempre Halloween che muta. O che è mutata.

domenica 25 settembre 2011

Il bambino "apprendista"

Il potere di concentrazione di piccoli bambini da tre a quattro anni di età non ha riscontro altro che nel genio.

Maria Montessori, Educazione alla libertà, 1950.

Per cercare di spiegare cosa significa realizzare la “libertà del bambino” Maria Montessori [1] fa riferimento anche all’attenzione “verso un materiale sensoriale” che lo guida attraverso l’esperienza che ne fa, in vista di un suo utilizzo razionale, che “lo rende padrone di una cultura” e ne forma il carattere.
Il bambino posto di fronte ad un “oggetto” lo usa “secondo lo scopo per cui è stato costruito” e ripete l’esperienza innumerevoli volte. Tutto ciò che accade in pratica è mosso da “un impulso interiore primitivo, quasi un vago senso di fame interna” che lo induce a ripetere la stessa operazione esercitando le sue attività psichiche e favorendo “uno sviluppo interiore”.
Si tratta di un’operazione che si rivela piacevole e che soddisfa un’esigenza interiore del bambino, “infatti l’attenzione del piccolo bambino non è stata nel nostro esperimento, trattenuta artificialmente da un «maestro», ma fu un «oggetto» che trattenne e fissò l’attenzione del piccolo bambino, come se corrispondesse ad un impulso interiore; (…)”.
L’impulso interiore del bambino corrisponde nelle cose a quelli che Ingold [2] definisce “prinicipi generativi incorporati nelle condizioni materiali” (Ingold, 2004: 206) di produzione degli oggetti. Nel caso della conchiglia “il principio è quello della proporzione invariante” cioè esso “attraverso una semplice iterazione, genererà sempre e invariabilmente una spirale logaritmica”, così per il cesto vale il principio che “ogni incremento di estensione longitudinale è attaccato, lato a lato, a quello precedente nel senso trasversale” e dunque genererà “sempre e invariabilmente una spirale aritmetica” (Ingold, 2004: 206).
Questa tensione tra uomo e materia si manifesta sin dai primi anni d’età quando i bambini “sembrano l’infanzia di uomini straordinari nei loro poteri di attenzione” (Montessori, 1999: 71).
Se al bambino vengono presentati gli oggetti “col loro cumulo di attributi” egli non elabora un proprio ordine interno di considerazioni e la sua interpretazione del reale non ha un fondamento sicuro, si basa bensì sulla confusione, su una elaborazione “passiva” che si allontana dal compito del maestro di “mantenere sempre viva quella luce in lui che si chiama l’intelligenza”.
“…come il Centauro saggia i venti e le fonti…Non è lo stesso per il bambino? …l’uomo fatto interrompe tali esperienze e, essendo appunto “fatto” cessa di farsi”. Il processo di apprendimento di un’abilità manuale, quale avviene in un contesto artigiano, include la prospettiva di Maria Montessori e quella contenuta nelle parole di Henri Focillon, nella sua opera Elogio della mano [3], di cui è stato riportato un breve estratto, poiché emerge da entrambi l’intrinsichezza dell’uomo con la materia.
La trasmissione del sapere nel contesto artigiano avviene by watching, by doing e by using.
Il “sistema tecnico” attraverso il quale il sapere artigiano viene trasmesso di generazione in generazione consiste nella trasmissione di “un tipo di realtà già di per se stessa organizzata in parti, in momenti e in operazioni che sono il risultato di operazioni razionali di organizzazione della realtà esterna e interna all’uomo operatore”.[4]
Gli oggetti hanno una storia: sono realizzati da qualcuno, in un determinato contesto e vengono impiegati da qualcun altro che ne sperimenta la funzionalità. L’artigiano conosce la storia dell’oggetto perché è lui a crearlo. L’oggetto è il risultato dell’impiego di una determinata materia prima secondo un paradigma d’azione che egli segue con rigore pratico e coerenza logica.
L’apprendistato come “modello formativo ed educativo” [5] (Emiliani, 1983: 205) è andato scomparendo nell’età industriale e non esiste un’istituzione ufficiale che abbia mantenuto il valore della trasmissione orale del sapere, un sapere come quello artigiano che non poggia sui libri ma sull’esperienza che si fa della materia in un contesto fortemente caratterizzato come la bottega di un artigiano: “(…) proprio nelle cose, negli oggetti, nelle pietre, si libera una nozione di tempo che non è vincolata a strutture mentali, morali, esemplari: ma piuttosto esistenziali e antropologiche” (Emiliani, 1983: 208).
Maria Lai elabora un “pensiero pedagogico” nel quale il bambino viene considerato come essere complesso in evoluzione nel tempo e nello spazio, la cui sensibilità deve essere educata in modo da renderlo disponibile all’esperienza della vita: “la crescita sale quando lo sguardo trova una guida e la possibilità di lunghi esercizi”. [6]
Giunti all’età di tre anni i bambini “maneggiano tutte le materie che riescono ad afferrare avidamente: carte, creta, sabbia, etc. iniziano così a ragionare: con gli occhi e con le mani (Pinto Minerva, 2007: 20). A coloro che li educano il compito di procuragli terreno fertile sul quale possano muovere autonomamente i propri passi verso l’arte di osservare: “Occorrerà indagare lungamente per quali ragioni e attraverso quali strade fin dalla seconda metà del secolo scorso la scuola, l’avviamento scolastico e pedagogico, abbiano fallito sostanzialmente il loro iniziale compito primario, che era appunto quello di surrogare e sostituire l’oralità dell’apprendistato (…)” (Emiliani, 1983: 205).
Il ramaio Giovanni Mura di Isili (Giovanni Mura, Isili, 1923, ramaio), esprime in una frase sia l’esperienza concreta di questo “apprendistato spontaneo” che il bambino compie, sia la consapevolezza del suo valore nella vita adulta dell’artigiano: “perché il laboratorio ce l’abbiamo avuto sempre a casa (…) da piccolino, voi mi insegnate, appena che cominci a camminare a piedi (…) vai a frugare e cosa frughi”? La manipolazione degli oggetti comincia sin dalla prima infanzia e se non viene inibita da un sistema educativo che vincola l’individuo imponendogli dei limiti piuttosto che assecondarne l’indole creativa, dura, in forme diverse, tutto il tempo della vita dell’uomo. Un’educazione che tenga conto della “necessità creativa” dell’uomo dovrà educare il suo sguardo sul mondo. Quando l’occhio, affinato da un processo di apprendimento in continua crescita, si troverà davanti ad un’opera d’arte o ad un oggetto di artigianato li guarderà con la stessa intensità con cui farebbe un bambino i cui sensi siano stati istruiti da un buon “apprendistato” che passa attraverso il ritmo, del gioco, delle ninne nanne e delle fiabe, attraverso cui egli cresce e diventa adulto.

Marta Gabriel


[1] Montessori M., Educazione alla libertà, (a cura di M. Luisa Leccese Pinna), Roma-Bari, Editori Laterza, 1999, pp. 68-81.
[2] Ingold T., Ecologia della cultura, Roma, Meltemi, 2004.
[3] Focillon H., Elogio della mano, Universidad Nacional Autònoma de México, México, 2006.
[4] Angioni G., Fare, dire, pensare in AngioniG., Da Re G., Pratiche e saperi. Saggi di antropologia, Cagliari, CUEC, 2003, p. 36.
[5] Emiliani A., L’artigianato, i suoi modelli culturali, la città storica in AA.VV., La salvaguardia delle città storiche in europa e nell’area mediterranea, Bologna, Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, 1983.
[6] Pinto Minerva F., L’arte per reinventare il mondo in AA.VV., Arte e creatività. Le fiabe e i giochi di Maria Lai, Franca Pinto Minerva Maria Vinella, Cagliari, A.D. Arte Duchamp, 2007, pp. 15-23.

mercoledì 7 settembre 2011

Il sentiero della memoria: un viaggio a ritroso nel tempo nell'isola dell'Asinara

10 agosto 2011, ore 9:00, ha inizio un’altra giornata di lavoro. La motonave Lem si appresta a traghettare noi operatori del Parco e una folla entusiasta di turisti dal porto di Stintino al molo di Fornelli, approdo meridionale dell’isola dell’Asinara. Una volta sbarcati prendiamo la macchina, destinazione Cala Reale e Cala d’Oliva. Oggi il mio turno sarà alla Casa del parco, l’ex ospedale dell’antico lazzaretto istituito nel lontano 1885 insieme alla colonia penale agricola. Giunta a casa del Parco, mi sistemo alla scrivania con la compagnia di un buon libro e aspetto l’arrivo di qualche visitatore. Verso le 11 arriva una coppia di anziani, in tenuta da spiaggia, con al collo l’immancabile macchina fotografica per immortalare il ricordo della visita nel parco nazionale, mi chiedono qualche informazione sui sentieri escursionistici, mostro loro i relativi depliants e la loro attenzione è catturata dal titolo del sentiero numero 5, “il sentiero della memoria”. Non mi ero mai fermata a riflettere del perché proprio questo sentiero, che da Cala Reale arriva sino all’Ossario, sia stato intitolato alla memoria dato che qui all’Asinara ogni pietra, ogni edificio è un inno alla memoria, un inno silenzioso, percepibile che narra di un passato i cui eventi storici hanno visto come protagonisti popoli di diversa etnia (greci, fenici, romani, turchi, genovesi, pisani, spagnoli, sardi, ponzesi, napoletani ecc.) che hanno costruito come un puzzle l’identità complessa dell’isola.
Il sentiero della memoria percorre la zona di Cala Reale e arriva sino a Campu Perdu dove c’è l’Ossario austro-ungarico: in questi luoghi, più di un secolo fa, vi erano le strutture dell’ex colonia penale agricola e la stazione sanitaria di quarantena per gli equipaggi delle navi in cui si era diffusa (o vi era il sospetto) una malattia infettiva (peste, colera, tubercolosi ecc.). In questa isola sperduta e poco abitata, preclusa per la presenza dei detenuti e per il lazzaretto, venivano dirottate le navi all’Asinara, per evitare che l’epidemia si propagasse sulla terraferma, gli infetti, una volta sbarcati su un molo di legno, venivano spogliati e disinfettati nelle apposite docce e distribuiti nei vari edifici distinti in tre periodi in cui si scontavano le tre fasi della contumacia; alcune di queste strutture sono state rifunzionalizzate ma conservano l’architettura di un tempo: l’edificio a due piani sede della direzione sanitaria, con foresteria, alloggio del medico e uffici, il fabbricato con cucina e sala da pranzo per i passeggeri di 1° e 2° classe, quello per i viaggiatori di 3° classe, la lavanderia (oggi sede del ristorante gestito da sognAsinara), l’ospedale (oggi Casa del Parco), la farmacia e il laboratorio batteriologico (oggi museo del mare), il forno crematorio con sala cineraria (trasformato negli anni ’50 in chiesa).
Nel corso della Grande Guerra (1915-1916) la zona di Cala Reale ospitò un campo di concentramento per i prigionieri di guerra austro-ungarici che dall’Albania furono deportati all’Asinara a bordo di vari piroscafi. Secondo il diario del generale Ferrari ne giunsero 30 mila di cui 8 mila morirono di colera e tifo. Il generale Ferrari diresse l’organizzazione del campo e l’accoglienza attivandosi per salvare la vita a molti di questi soldati denutriti, stremati dalle malattie, giunti sull’isola senza forze in preda alla disperazione: fece allestire accampamenti, tende, procurò viveri di ogni genere, vestiti, scarpe, coperte. L’Asinara accolse un esercito multietnico, multilingue, ma ogni soldato era legato agli altri da un comune destino: la prigionia in una terra lontana, condizioni umane precarie, desolazione, malattia, morte. Molti morirono e le loro ossa furono sepolte in fosse comuni o in cimiteri di cui ancora oggi rimangono croci e lapidi logorate dal tempo come il Cimitero degli Italiani a Campo Faro. I sopravvissuti furono grati al generale Ferrari e all’Italia perchè li aiutarono a riprendersi la loro vita, a recuperare la loro dignità umana attraverso il lavoro: furono così impiegati nella coltivazione dei campi, nella sistemazione dei giardini, nell’allevamento degli animali della colonia penale agricola, molti poi si impegnarono in attività artigianali e artistiche, grazie al loro estro furono costruiti all’Asinara cappelle, monumenti funebri e statue. Questi monumenti della memoria sono ancora lì, testimoni di quel passato: difronte all’ex ospedale fu eretta una piccola cappella, costruita dai prigionieri austroungarici nel 1916, sopra il portale vi è l’iscrizione latina che recita lapidariamente “Vos omnes qui transitis per viam attendite et videtes est dolor sicut dolor meus”, A Campu Perdu c’era una statua celebrativa scolpita dal prigioniero ungherese Georg Vemess, rappresentava un eroe con ai piedi una folla di uomini nudi e disperati, volta a significare da un lato la sofferenza patita in guerra e l’estenuante marcia da Nich a Valona (la marcia della morte) dall’altro il trionfo della speranza, della solidarietà umana e della fratellanza, una specie di ringraziamento agli italiani che aiutarono quei soldati a rimanere aggrappati alla vita. Alla fine del percorso intitolato alla memoria, si staglia sopra una collina l’Ossario austro-ungarico che raccoglie i resti ossei dei prigionieri ritrovati nelle numerose fosse comuni e deposti nelle teche all’interno di tale struttura bianca a forma di croce.
La memoria secondo la definizione che troviamo nel dizionario italiano di De mauro è «la facoltà della mente umana di conservare, ridestare in sé e riconoscere nozioni ed esperienze del passato; capacità dell’uomo di ricordare». L’uomo sente il bisogno di attingere al proprio passato attraverso i ricordi, ossia immagini sfumate, indefinite, confuse conservate nella mente e rievocate per mezzo di immagini, musiche, odori e profumi, parole: questa è la memoria individuale, quella legata all’esperienza di vita di ciascun individuo. Il ricordo è un’esperienza emotiva forte poiché riporta alla luce fatti gioiosi e felici che suscitano nostalgia, ma anche esperienze negative, traumi che talvolta vengono rimossi e conservate a livello inconscio poiché portatori di sofferenza.
Il sentiero della memoria tracciato all’Asinara può definirsi un vero e proprio luogo della memoria, concetto storiografico elaborato dallo storico francese Pierre Nora nella monumentale opera “Les lieux de mémoire » :
«Un luogo della memoria è uno spazio che si contraddistingue per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici dove un gruppo, una comunità o un intera società riconosce se stessa e la propria storia, consolidando in questo modo la propria memoria collettiva. Luogo della memoria può essere dunque un museo, un archivio, un monumento, un anniversario, certi territori o località segnati da eventi storici significativi, ma anche i simboli e i miti, le strutture e gli eventi, i personaggi e le date (…) a cui gli uomini attribuiscono una sacralità da proteggere, una sorta di aurea simbolica» (Legoff, 1982).
I luoghi della memoria sono stati definiti dei “mnemotopi” (spazi del ricordo) e dei “relitti” del passato dove il ricordo viene ordinato nella mente e fissato in uno spazio fisico dai limiti precisi, al confine con l’oblio (Assmann, 1992). I ricordi latenti vengono riportati alla luce mediante stabilizzatori della memoria ossia l’emozione, il simbolo e il trauma che fanno da mediatori tra i luoghi della memoria e i non luoghi, questi ultimi definiti da Marc Augè come spazi non identitari, né relazionali, né storici, zone intermedie in cui il tempo si dilata, non connotati culturalmente (Augè, 2009).
La memoria storica, che diventa memoria collettiva, parte integrante dell’identità di un popolo o di un gruppo, non viene tramandata soltanto attraverso i libri di storia, i documenti depositati in archivi di stato, ma essa viene fissata attraverso diversi mezzi orali, materiali e simbolici: racconti popolari, miti, canzoni, opere musicali, monumenti celebrativi, opere scritte, cimeli, fotografie, feste e riti che trasmettono i valori culturali di un popolo e ricordano gli eventi più significativi della loro storia per proteggerli dall’oblio e trasmetterli alle future generazioni; ai tradizionali supporti nella nostra epoca si sono aggiunti i supporti digitali su cui si registrano filmati e interviste. La memoria fissata diviene così incancellabile, sottratta all’azione del tempo e quindi all’oblio, salva il passato per dare lezioni di vita nel presente e per costruir un ponte verso il futuro. La memoria è “il presente del passato” che per mezzo del ricordo ha la capacità di restituire all’esperienza individuale o collettiva presente un qualcosa di assente. La coscienza del passato attraverso la memoria e il ricordo garantisce all’individuo e alla collettività una propria continuità temporale (Legoff, 1982)..
La memoria ha, tra le proprie funzioni quella di fondare l’identità culturale, religiosa o politica di un particolare gruppo sociale. Essa è portatrice di significati. Poiché una società è costituita da diversi gruppi sociali e minoranze etniche, questi elaborano la propria memoria collettiva, fondano la propria identità e adottano una serie di simboli per rendere visibile la propria presenza nel mondo e tramandare ai posteri la loro storia. Così fecero quei prigionieri austro-ungarici all’Asinara, che in terra straniera, lontani dalla patria si accese in loro il desiderio di tramandare la loro storia marchiata da sofferenza, malattia e morte, e in questa isola, perla del Mediterraneo, trovarono la loro ancora di salvezza dai patimenti della guerra e vollero lasciare una testimonianza del loro passaggio e del loro triste destino. “Il luogo fisico della memoria è connotato dal trauma che fissa la violenza in una dimensione spaziale dove il tempo non trascorre, richiama costantemente il passato invisibile e silenzioso con cui si mantiene un contatto” (Assmann 1999).
Concludo questa mia riflessione con una citazione tratta dalla celebre opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi, testimone diretto della disumanità dei lager nazisti: In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria.

Maria Laura Abozzi


Bibliografia

«L’isola dell’Asinara: la storia, l’ambiente e il parco», a cura di M. Gutierrez, A. Mattone, F. Valsecchi, Poliedro editore, Nuoro, 1998;

Jacques Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, Torino 1982

Aleida Assmann, Ricordare, il Mulino, Bologna, 2002

Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 2005.

Marc Augè, I non luoghi, Eleuthera, Milano, 2009


venerdì 19 agosto 2011

San Giovanni a Olbia. Appunti su una festa postmoderna

La festa di San Giovanni a Olbia è una festa di sintesi. Se non si parte da questo presupposto non la si può comprendere, ha ben poco di diverso da raccontare rispetto a più note e più affermate festività sarde.

Olbia è una città estremamente complessa, in cui convivono una pulsione alla modernità e pratiche che, se non fosse un termine antropologicamente ‘pesante’, si potrebbero definire sopravvivenze. In Olbia convivono tracce di un’economia agricola su cui si è innestata la colonia di marinai ponzesi. Entrambe le comunità avevano le proprie feste, i propri spazi, le proprie pratiche. Il secondo dopoguerra ha portato il turismo e i soldi e con essi la voglia di scrollarsi di dosso tutto quello che appariva vecchio e legato ad un tempo che si voleva nascondere. Il destino della festa di San Giovanni è stato questo, abbandonata per diversi anni nel nome di una modernità che non tollera il passato e riscoperta alla ricerca di radici in un mondo globale che sembra non permetterne.

Infine le ultime migrazioni. Nuovi ricchi italiani e vecchi poveri dai cinque continenti hanno portato con loro nuovi colori, nuovi sapori, nuove pratiche.

È presto per dire come cambierà il volto di Olbia, città multiculturale con la propria sezione della Lega, ma è indubbio che stia cambiando. I primi a saltare i fuochi la notte di san Giovanni, rompendo quel momento di imbarazzo in cui nessuno si muoveva e dando inizio alla festa, sono stati i figli degli immigrati. L’hanno fatto dando al gesto significati diversi da quelli che la tradizione gli attribuisce… non si chiameranno ‘compare’, non si legheranno attraverso un legame stretto quasi come la parentela biologica, magari era solo un gioco o una prova di coraggio, ma l’hanno fatto, hanno dato il loro contributo allo svolgimento del rito.

Una festa di sintesi, dicevo, proprio perché tante chiavi di lettura si possono adottare: il recupero e la rifunzionalizzazione in chiave identitaria, la devozione popolare, l’imperante economia turistica, una società sempre tendente al multiculturalismo. Tutto questo trova espressione nella festa, dandole quella complessità che solo un approccio olistico può cogliere rendendola, pur simile a tante altre, a suo modo unica.

Il link che segue porta alla pagina facebook di AssDEA, dove ho caricato alcune foto sulla festa di San Giovanni. Questo breve reportage (mi perdonino i veri fotografi per l’uso del termine) propone alcuni scatti che non hanno né pretesa di essere capolavori né di raccontare in maniera esaustiva la festa. Prendetele come sono, come degli istanti presi in prestito per essere condivisi.

giovedì 11 agosto 2011

“La presunta santità” di Frazer: i curiosi sviluppi dell’antropologia postmoderna*

L’entusiasmo del non addetto ai lavori, lo sbadiglio dello studente, la critica (talvolta feroce) del professore: in tutta la storia della letteratura antropologica sono pochi i libri capaci di creare tante divergenze quanto The golden bough. Edito tra 1890 e 1915, il lavoro è un neonato già pronto per il funerale: la filosofia su cui si basa è antiquata, il metodo comparativo è inadeguato, la prosa è troppo leziosa.
1.  Frazer, ponendo alla base della sua teoria la filosofia di Hume, considera erronea la mentalità selvaggia, frutto di un’errata applicazione del principio dell’ Associazione di idee. Come fa Frazer a conoscere l’esatto sviluppo del pensiero, da dove ricava l’evoluzione magia-religione-scienza che progredisce dal selvaggio allo scienziato? Perché applica un ragionamento del tipo “se io fossi un cavallo?” si chiede Evans-Pritchard. E quanto è ingenuo indugiare nell’erroneità della mente selvaggia:  come può l’errore, trascurabile, di ontologizzare un’idea fondare un intero sistema di pensiero, un’intera concezione del mondo? Non può, risponde Wittgenstein, e “Frazer sarebbe capace di credere che un selvaggio muoia per errore”
2.    Frazer si dedica anima e corpo a collocare in una concezione organica un’immensa mole di dati provenienti dalla ricerca sul campo? “Il risultato finale dell’esposizione è una specie di mostro di Frankestein con un occhio destro preso dalle isole Figi, un occhio sinistro dall’Europa, una gamba dalla terra del Fuoco e una da Tahiti, e dita delle mani e dei piedi da regioni ancor più diverse” chiosa la Benedict.
3.     Lo stile di Frazer è avvincente, la prosa elaborata? “Frazer stesso pensava di fare della letteratura, non della storia o della scienza: i dati erano per lui semplicemente materiali grezzi da scrivere bene” afferma Edmund Leach
Una sconfitta su tutta la linea, quella di Frazer, che rifiuta di scrollarsi di dosso la polvere dell’antropologo da tavolino andandosi a battezzare alla fonte miracolosa della ricerca sul campo (e poco importa se, in realtà, quella di Frazer è stato una scelta consapevole, dovuta alla convinzione della necessità di separare i due momenti, raccolta dei dati e teorizzazione, allo scopo di evitare reciproche contaminazioni). Eppure, se osserviamo i recenti sviluppi dell’antropologia postmoderna, ci accorgiamo che l’infante è stato resuscitato: alla luce del rifiuto del realismo funzionalista, col suo tentativo di rendere comune l’esotico, quello opposto di Frazer, di esotizzare il comune, risulta un approccio più moderno del modernismo. Ora che anche il realismo etnografico è stato sacrificato sull’altare della rivalutazione della soggettività del ricercatore, sulla necessità di abbandonare la monografia, sull’urgenza di ridefinire i rapporti con l’alterità, vicina e lontana, le condizioni discorsive su cui procede il premoderno Frazer sembrano singolarmente appropriate alla descrizione del villaggio globale, della koinè culturale di scala planetaria che caratterizza la fine del ventesimo secolo [Dei].
Almeno, fino alla prossima rivoluzione antropologica.

GIANNA SABA

* Questa breve riflessione scaturisce dalla lettura di due lavori di F.Dei, “Metodo mitico e comparazione antropologica” e “ La discesa agli inferi. James G. Frazer e la cultura del Novecento”, liberamente consultabili su www.fareantropologia.it. Si rimanda a questi per un’esauriente bibliografia sull’argomento


L’antropologia “mi ha cambiato la vita”.

E’ passato ormai un mese e mezzo dalla laurea e dopo un primo momento di disorientamento sto cercando di mettere ordine nella mia testa. Sono tanti i dubbi e le incertezze legate sia alle scelte passate che alle possibilità future ma di una cosa sono assolutamente certa, l’importanza che ha assunto per me l’antropologia. Non parlo dell’antropologia in senso “accademico” in quanto solo da due anni mi sono accostata a tale disciplina di studio, ma all’antropologia come “stile di vita”, come modo di pensare e di vedere il mondo. E’ sorprendente come in pochissimo tempo io sia cambiata sviluppando una sensibilità nuova, un’empatia che prima non possedevo o che magari non riconoscevo in me. Il potere pacifico e sano dell’antropologia è davvero straordinario ed è un peccato che non venga “sfruttato” al meglio per tentare di cambiare certi modi di pensare meschini che ogni giorno riempiono la nostra quotidianità. A mio parere, l’antropologia dovrebbe diventare una materia di studio già dalla scuola secondaria di primo grado; in tal modo i più giovani potranno avere la possibilità di entrare in contatto con quel bagaglio di conoscenze che hanno permesso una piccola “rivoluzione” nel mio sguardo sul mondo a 25 anni e che, in più tenera età, potranno sicuramente influenzare positivamente quelle che poi diventeranno le generazioni del domani, un domani, si spera ancora, migliore.

mercoledì 10 agosto 2011

La panificazione in Sardegna. Fra tradizione e mercato

I gesti tradizionali legati alla produzione dei pani e dei dolci assurgevano al ruolo di “comunicazione sociale non verbale”(Diana, 2001). Ciò è vero in modo particolare per quanto attiene la preparazione dei pani festivi cerimoniali; i quali se da un lato consentivano alla donna di confermare le doti di “buona massaia”, d'altro canto, in occasione di particolari ricorrenze, costituivano dei veri e propri oggetti votivi che venivano visti come simboli rappresentativi dell'intero gruppo sociale comunitario. Dalle interviste emerge l’importanza assegnata dal gruppo sociale al “saper fare femminile” estrinsecato nella produzione dei pani e dei dolci. L’importanza della “buona fattura” dei pani e dei dolci aumentava, naturalmente, nei contesti cerimoniali, come il caso del pane di San Giovanni a Fonni da me esaminato, che li vedevano protagonisti: elementi simbolici atti a scandire il momento festivo e a “segnare” il tempo sacro. Molti momenti della panificazione erano legati alla religiosità: a partire da quando le donne si segnavano, fino a quando il segno della croce veniva fatto sul lievito e poi sul pane stesso. Né va dimenticato che particolari pani cerimoniali invalsi a livello tradizionale vengono tutt'ora preparati in occasione delle feste in onore di santi (per Santa Rita nel caso di Torralba), o in occasione della festa di Sant'Antonio (17 Gennaio), per esempio, dove ovunque è una vera e propria sfilata, attorno ai fuochi accesi, di pani in vario modo dolcificati resi appetibili con miele e mosto cotto (Sa saba).Meravigliosi sono anche i pani riservati alle occasioni nuziali: con forme e motivi che rappresentano il sole, o a forma di rosone, di cuore, oppure finiti con elaborate composizioni di colombelle. Il bello e il buono sono presentati in ogni caso come risultati individuali iscritti in un codice di significati e di valori socialmente riconosciuti ed apprezzati. Le donne intervistate hanno, quindi, ripetutamente sottolineato la discrepanza tra il “fare tanto per fare”, considerato un fare generico e privo di significati e valori, e il fare bene. Le donne che sanno e che vogliono svolgere al meglio le loro attività lavorative e sociali, sono apprezzate sia dagli uomini che dalla donne. I comportamenti gestuali tradizionali si inscrivevano in un saper fare mutuato attraverso lo sguardo, per questo, dagli studiosi definito “tacito” o “implicito”, piuttosto che attraverso il linguaggio verbale. La dimensione della trasmissione di contenuti verbalizzati appare, piuttosto un fenomeno moderno.

Il saper fare nell’orizzonte delle informatrici più anziane, che hanno vissuto la dimensione del contesto tradizionale, si accompagnava ai contenuti sociali, a un patrimonio etico, che oggi diviene parte integrante della nostra memoria culturali. Oggi il cibo non è più legato alla sussistenza, e produttori e consumatori non coincidono come nel passato. Se prima si mangiava solo ciò che si aveva e i piatti tipici erano creati dalle mani sapienti delle donne, che si servivano dei prodotti del duro lavoro dei contadini e pastori, e loro stesse erano parte attiva nei lavori agricoli, oggi la situazione è mutata. Non si verificano più gli scambi dei prodotti, tutti hanno già tutto e vi è meno spazio per l’estrinsecazione del valore della reciprocità. Tutto è abbondante e i cibi non parlano più solo la lingua della tradizione, e quelli che ancora la parlano ne hanno modificato un po' l'accento. La realtà quotidiana è rappresentata dall'impoverimento della cucina domestica in cui i piatti delle tradizione costituiscono un'eccezione, e la regola è l'appiattimento sulle proposte industriali della grande distribuzione.

Questo, però, è solo uno dei volti della globalizzazione. Se è vero, infatti, che il contesto globalizzato conduce all’omologazione anche alimentare, tuttavia, è anche in grado di scatenare, per una sorta di “effetto-paradosso” la nostalgia nei confronti di quanto è localmente connotato (Mondardini, 2005) .

La nostalgia del locale è evidente anche e soprattutto in ambito turistico e al turismo gastronomico nella fattispecie, per il fenomeno che c’interessa.

Non c'è pietanza, anche la più umile, che non sia stata riscoperta, raccontata e riproposta (Rami Ceci 2005).

La riproposizione del tradizionale a scopo turistico e commerciale, però, deve avvenire a patto di non tradire quel contenuto etico ed etnico al quale abbiamo fatto riferimento in precedenza. Ciò che chiamiamo tradizione, infatti, rappresenta la nostra identità culturale. Il lavoro di documentazione etnografica ci aiuta in questa impresa di preservazione della memoria culturale.

Naturalmente custodire e tramandare la memoria non significa negare i cambiamenti e l’innovazione, come, ad esempio dimostra l’intervista condotta a Bitti. L'azienda presso la quale ho condotto l'indagine è specializzata nella produzione del pane tipico sardo “carasatu”, ed è un'azienda che cerca di mandare avanti la tradizione, e al tempo stesso di garantire la qualità del pane avvalendosi anche dell'innovazione.

Nel campo della produzione del pane e dei dolci tradizionali ad esempio le nuove tecniche di packaging o le tecnologie volte ad aumentare la durata di vita, ossia la freschezza dei prodotti alimentari tradizionali, rappresentano una modalità per far “dialogare” in maniera più efficace la nostra cultura con l’esterno, pur senza tradirne i contenuti.

martedì 9 agosto 2011

La nave dei morti

Il bagaglio di miti, leggende e storie della tradizione dell'arcipelago di Chiloé (Cile), appare frutto di un contesto culturale e sociale ancorato al luogo che le ha originate ma, allo stesso tempo, si avvertono in questi racconti, inevitabilmente, gli influssi spagnoli – ed europei in generale – che hanno in certo modo arricchito, in maniera anche rilevante, il paesaggio di leggende e miti, come sottolinea Mansilla Torres, per il quale si è venuto a creare un forte sincretismo tra l'immaginario tradizionale indigeno e quello spagnolo, che ha dato vita a leggende meticce, con elementi europei e americani (Mansilla Torres 2007). In maniera non diversa anche Cárdenas Álvarez ritiene che abbiano contribuito alla creazione del vasto paesaggio culturale chilota due indirizzi, uno indigeno e l'altro coloniale: come sostiene lo studioso, «la raíz fundamental del mito chilote es mapuche. Pero fuertemente determinado por la ideología del cristianismo de las culturas occidentales» (Cárdenas Álvarez 1997: 5). Il Caleuche è un

Buque de características extraordinarias que puede hacerse invisible; transformarse en objetos animados o inertes; desplazarse a grandes ve­locidades. Su aspecto es el de un buque escuela, comple­tamente iluminado y con música que encanta. Sus tri­pulantes rescatados de naufragios o raptados de la ri­bera chilota alivianan su inmortalidad con fiestas y otras entretenciones humanas que le dispensan sus co­labo­radores de tierra. Su aparición ocurre preferente­mente de noche o cuando hay neblina (Ivi: 11).

Sono diverse le versioni conosciute di questo racconto folklorico, fonte di ispirazione anche per narratori e scrittori, soprattutto cileni1; ad esempio, Francisco Coloane, che la conobbe in gioventù: «la leggenda dell'errante vascello fantasma Caleuche e dei suoi marinai con l'uniforme bianca, con un piede infilato nella schiena e la testa girata dall'altra parte, fu trasmessa da una nonna a sua madre e da lei la imparò nei giorni della sua infanzia» (Bravo Elizondo 2004: 136-137); secondo la leggenda riportata da Coloane, il Caleuche appare come un «vascello fantasma che scivola sui mari interni dell'arcipelago di Chiloé» (Coloane 2006: 107), con «ancore d'oro, con gavitelli2, sartiame3 d'alluminio e alberi dotati di antenne invisibili che captano le microonde permettendo loro di comunicare tramite le vibrazioni con altri "caleuchani" che vagano nelle correnti marine4» (Ivi: 108). Riprende, inoltre, anche una delle tradizioni per cui la funzione del Caleuche è quella di raccogliere «i naufraghi nell'ora fatidica, lanciando loro un salvagente tondo, perché passino attraverso quella cruna d'ago e approdino sui nostri ponte e coperta istoriati di re di triglie» (Ivi: 110), in un chiaro riferimento al passaggio fisico-semiotico attraverso il cerchio (cfr Van Gennep 2002). Nel racconto Coloane utilizza un artificio letterario per cui si immedesima in un marinaio diventato membro della ciurma del buque de arte5, e spiega quali siano le dinamiche, una sorta di rito di passaggio, attraverso cui gli annegati vengono raccolti dal veliero fantasma e diventano – dopo un periodo di prove da superare – caleuchani. «Probabilmente tutto ciò risulta grottesco per i comuni mortali, perché non capiscono che abbiamo dovuto affrontare una lunga preparazione prima di diventare uomini di questo equipaggio» (Ivi: 108). I naviganti, i marinai, i morti in mare, naufragati in condizioni in cui il mare è in tempesta, mutano strutturalmente il loro essere e, dopo un periodo di liminarità, vengono riaggregati in un'altra condizione. Dopo il naufragio della loro barca, i protagonisti passivi di questo racconto Vicente, Víctor e Olga6 furono vittime di un naufragio in cui perirono. Vicente racconta che, dopo il naufragio, lui e Víctor restarono lì «sotto la chiglia [...] finché dal Caleuche – loro avevano visto il nostro naufragio – ci lanciarono, tra i gorghi, due ciambelle salvagente legate a un filo di luce invisibile, e passandoci attraverso, in un millesimo di secondo ci trasformammo da comuni mortali di Lliuco7 in cahuelches8 di Queniao9». A questo punto, Coloane descrive i passi che un "normale" deve affrontare per diventare cahuelche;

quindi, dovemmo affrontare tutte le trasformazioni richieste per diventare un membro dell'equipaggio del Caleuche. Dagli alberi alla deriva si estraeva la "scienza" che ci veniva inoculata per tramutare la linfa terrestre in acqua marina: lavaggi del cervello per abbandonare le nozioni dei "normali" e apprendere l'algebra dei "cahuelches" che, senza sotterfugi legali o illegali, racchiude tutti gli arcani del finito e dell'infinito (Ivi: 114).

L'autore si sofferma ancora sulla pratica del passaggio dalla condizione di "normale" a quella del cahuelche, affermando che:

il cerusico di bordo mi fece la prima iniezione [...], poi ci buttò in mare facendoci fare più volte il giro attorno alla chiglia, dalla prua alla poppa, una notte intera alle intemperie finché non ci sentimmo come degli azulejos, gli squali che seguono la corrente di Humboldt. [...] Appesi ai pennoni del vascello fantasma, simili a grosse lacrime contorte, apprendemmo a stringere i denti per non urlare, perché, se ci sfuggiva un solo lamento, finivamo un'altra volta a fare il giro della chiglia, sott'acqua da babordo a tribordo (Ivi: 115).

L'etimologia della parola Caleuche, secondo Cárdenas Álvarez, è da ricercarsi nel termine mapuche «CALEU[TüN] 'mutare, trasformarsi' + CHE 'gente'. Si è preteso rintracciare l'origine di questa leggenda nella sparizione della nave "El Calanche" dell'olandese Vicente Van Eucht, nei mari australi» (Cárdenas Álvarez 1997: p 11). L'alterità dei cahuelches ha un'origine che è riconducibile ad un tempo mitico, ma è anche strettamente funzionale alla struttura economica e all'ecologia chilota; infatti, nella descrizione che ne dà Coloane, l'equipaggio appare formato da esseri quasi marini: «da ciò deriva il fatto che abbiamo la testa girata all'indietro e la pianta del piede destro attaccata alla schiena come fosse la spina dorsale ricurva di un delfino» (Ivi 109). I loro occhi «sono come quelli delle mosche, che vedono ai quattro lati» (ibidem) e «dato che guardiamo all'indietro, siamo costantemente immersi nel passato, ma abbiamo anche un occhio invisibile nella nuca, che percepisce la realtà del momento» (Ibidem). La loro origine è da collocarsi in un tempo remoto,

nel terziario, quando i nostri stretti canali e fiordi cominciarono a subire l'erosione dei ghiacciai che convertirono le morene nelle oltre quaranta isole dell'arcipelago di Chiloé. Allora, anche noi subimmo una mutazione e diventammo cahuelches, che in lingua indigena significa "delfino-uomo" o viceversa. In quell'epoca remota del terziario, gli uomini non esistevano ancora su nessuna isola del pianeta, ma non per questo ci crediamo dèi, anche se fin dai tempi dei dinosauri conosciamo l'infinitesimale istante dello spazio, luogo e tempo in cui nacque il sinuoso serpente che tentò i progenitori dei comuni mortali (Ivi: 109-110).

Interessante notare come anche uno dei significati del nome Caleuche richiami al cambiamento di status, da vivo a defunto, aggregato all'equipaggio dopo diverse prove, quasi riti di passaggio, che tendono a svuotare l'umanità del morto per riempirla di una morte quasi posta sullo stesso piano dell'esistenza; con questo si vuole intendere la convergenza che passa tra i due livelli – umano e Altro – raccontati da Coloane, ma descritti anche nelle differenti versioni del racconto. Risulta assai rilevante, a questo proposito, un'altra versione raccolta da Mansilla Torres; secondo lo studioso cileno i marinai del Caleuche possono – se ricevuto il permesso dal loro comandante – «a visitar a sus familias humanas en tierra; si ocurre, será sólo por una noche y por un única vez» (Mansilla Torres 2009: 297-298). Si evince come la dimensione temporale subisca in questo caso uno scarto importante; i marinai-morti del vascello fantasma, condannati a vagare in eterno per i canali dell'arcipelago, in un tempo strutturato praticamente come quello umano, possono tornare dalle loro famiglie una ed un'unica volta: come meglio specifica Antonino Buttitta – in riferimento al tempo altro dei morti – «le anime dei defunti non si trovavano in uno spazio senza dimensioni, in un tempo senza tempo, come oggi si è inclini a pensare; ma in una sorta di antimondo, che aveva bisogno del mondo per continuare a esistere come sua immagine riflessa in uno specchio» (Buttitta 2004: 13-14).



Domenico Branca







BIBLIOGRAFIA


BRAVO ELIZONDO P.

2004 "Francisco Coloane, nuestro escritor del extremo sur", in Revistas de Ciencias Sociales, n. 14., pp. 136-140.


BUTTITTA A.

1995 "Introduzione", in Lévi-Strauss, C., Babbo Natale giustiziato, Sellerio, Palermo.


CÁRDENAS ÁLVAREZ R.

1997 El Libro de la Mitología. Historias, Leyendas y creencias mágicas obtenidas de la tradición oral, Ed. Virginia Vidal, Santiago.


CHAMBERLAIN A. F.

1910 "The Chilian Folk-Lore Society and Recent Publications on Chilian Folk-Lore, etc.", in Journal of American Folklore, Vol. 23, n. 89 (Jul. - Sep., 1910), pp. 383-391.


COLOANE F.

2006 Antartico, Guanda, Parma.


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2007 "Hay un dios que todo lo compra: identitad y memoria de Chiloé en el siglo XXI", in Revista austral de ciencias sociales, 12, pp. 145-158.


MANSILLA TORRES S.

2009 "Mutaciones culturales de Chiloé: los mitos y las leyendas en la modernidad neoliberal isleña", in Convergencia, Vol. 16, n. 51, (sep., - dic., 2009), pp. 271-299.


SEPÚLVEDA L.

1997 Il mondo alla fine del mondo, Guanda, Parma.


VAN GENNEP A.

2002 I riti di passaggio (Les rites de passage, Paris 1909), Bollati Boringhieri, Torino.



1 Cfr anche Sepúlveda 1997: 31.

2 Si tratta di un galleggiante ancorato a un peso sul fondale, di forma sferica, usato per segnalazioni o per ormeggiare imbarcazioni.

3 Insieme di cavi e cime che sostengono gli alberi della nave.

4 Una variante della leggenda afferma che il Caleuche è «una nave sottomarina, il cui equipaggio è formato da stregoni, che vaga intorno a Chiloé nella notte, - "un pirata infernale," che causa grande terrore» (Chamberlain 1910: 388).

5 Altro nome con cui è noto il Caleuche.

6 Vicente "Millalonco", figlio di una chilota e di un membro dell'equipaggio del Caleuche; millalonco, in lingua huilliche, significa "testa d'oro", da "milla", "oro", e "lonco", "testa"; l'espressione è usata anche per indicare il sole. Víctor e Olga, cugini di Vicente, erano figli di una chilota e di uno scandinavo.

7 Villaggio dell'Isla Grande de Chiloé.

8 Membri dell'equipaggio del Caleuche.

9 Punta sita a circa N 40° O (Ivi: 113).

sabato 23 luglio 2011

Non nel mio nome

Da subito se ne sono cercate le cause nelle frange più estremiste di Al Qaeda, ma stavolta l'Occidente civile, lontano da ogni sospetto, è lo stesso che ha fatto crescere dentro di sé un mostro integralista, ricco di xenofobia e di strane concezioni sull'identità religiosa. È lo stesso mostro che sentiamo ogni giorno in televisione, tra le più alte cariche dello Stato, che sputa sentenze cariche di odio contro ogni forma culturale che sia minimamente diversa dalla propria. È lo stesso mostro che bandisce i negozi "etnici", che grida all'attentato alle radici cristiane, che propaganda leggi anti kebab. Ora, sperando si tratti di un unico caso, c'è solo da riflettere sulle responsabilità che abbiamo tutti su uno stato di terrore psicologico, fatto di messaggi razzisti, spesso velati, ma altre volte molto espliciti e, nonostante questo, tollerati. Credo sia ora di dire basta alla minimizzazione del razzismo lampante che permea la mente di ogni singola persona; alle accuse cariche di pregiudizi verso ogni persona che si distingua dalla massa; che sia ora di farci un bell'esame di coscienza. Esame di coscienza che comprenda soprattutto un'analisi di quelle che sono le singole componenti di un'identità europea, sempre che se ne possa parlare come se fosse un'entità fissa, unica e immutabile. Componenti che hanno vari sapori, influssi culturali che provengono da ogni parte del mondo.

Oslo è la dimostrazione che l'odio che si manifesta verso gli "altri" si può contorcere verso se stessi. Alla memoria delle vittime di questa violenza, e di tutte le persone che ogni giorno, in tutto il mondo, devono stare attente affinché qualche pazzo accecato da qualche strana ideologia non le faccia saltare in aria o le riempia di pallottole.

martedì 19 luglio 2011

L'evoluzione del dibattito

Sono passati più di due mesi dal post Chi può dirsi antropologo? in cui cercavo di andare oltre la frustrazione che serpeggia tra gli aspiranti antropologi e provavo a ragionare su quali prospettive si aprono ad un neo laureato, come tanti membri della nostra associazione e anche io fra non molto.

L’accoglienza iniziale è stata più che tiepida, diciamocelo… qualche ‘mi piace’ su facebook, qualche commento qua e là… poi, finalmente, il dibattito ha iniziato ad ingranare grazie al contributo della comunità di Anthropos.

Insomma, dietro il quadro quasi avvilente in cui versa l’antropologia italiana, qualcosa si muove. Dico ‘quadro avvilente’ perché, sinceramente, non saprei come altro definirlo: i corsi di laurea, triennale e magistrale, stanno chiudendo un po’ ovunque, Sassari compresa; alcune scuole di dottorato, come quella di Siena, spariscono. Il peso dei tagli delle ultime riforme si fa sentire e solo i grossi centri, come La Sapienza o Bicocca, mantengono i loro corsi. Aggiungete il fatto che, nonostante un’ampia mobilitazione, ancora non siamo riusciti a fare in modo che i laureati in antropologia possano insegnare nei Licei delle Scienze Umane o che le funzioni di funzionario DEA presso il Ministero vengano svolte da antropologi.

La situazione può portare all’arrendevolezza o peggio a confidare in una qualche forma di provvidenza. Questo sarebbe il più grosso errore da fare… perché se aspettiamo l’intervento di un deus ex machina che ci risolva i problemi non facciamo altro che lasciarli crescere, finché non saranno troppo grandi anche solo per pensare di affrontarli.

Perché qualcosa si muova al di fuori dell’accademia sono necessari due elementi: impegno e unità.

Impegno in prima persona, dal basso, per comunicare l’antropologia, i contributi che può dare e i campi in cui può intervenire, per portare le nostre riflessioni fuori dai dipartimenti e dalle aule universitarie in cui, a volte, noi stessi le confiniamo.

Unità tra chi cerca di muoversi in questa direzione, attraverso un dibattito costruttivo che porti a forme condivise di azione, con un occhio alle specificità locali (siamo antropologi mica per nulla…) e un orecchio al mondo che ci circonda.

Qualcosa, grazie al dibattito che si è sviluppato su Anthropos, si è mosso. Qualcosa che ci vede attori partecipi, come associazione e come aspiranti antropologi. Come dibattiti simili hanno portato qualche anno fa alla nascita di Antrocom, oggi realtà più che affermata nel panorama dell’antropologia italiana, in questi giorni stanno delineando un soggetto più ampio, ancora da definire nelle sue componenti strutturali ma chiaro nei suoi propositi fondamentali.

ASSDEA non può che essere entusiasta di una prospettiva del genere… è la naturale prosecuzione del percorso iniziato quando, tra chiacchierate in fila in segreteria, di fronte ad un caffè o sostenendo esami, ha peso corpo l’idea di associarci.

Questo nuovo soggetto sarà la risoluzione di tutti i mali dell’antropologia italiana? No, sicuramente no… ma sarà un passo verso quella direzione.

Vi terremo informati sugli sviluppi futuri e vi invito a partecipare attivamente al dibattito sul forum Anthropos. Ne abbiamo da guadagnare tutti o, come dice una canzone politica sarda, ‘possiamo solo perdere queste nostre catene’.