venerdì 4 novembre 2011
Il carnevale di Halloween a Derry
domenica 25 settembre 2011
Il bambino "apprendista"
mercoledì 7 settembre 2011
Il sentiero della memoria: un viaggio a ritroso nel tempo nell'isola dell'Asinara
venerdì 19 agosto 2011
San Giovanni a Olbia. Appunti su una festa postmoderna
La festa di San Giovanni a Olbia è una festa di sintesi. Se non si parte da questo presupposto non la si può comprendere, ha ben poco di diverso da raccontare rispetto a più note e più affermate festività sarde.
Olbia è una città estremamente complessa, in cui convivono una pulsione alla modernità e pratiche che, se non fosse un termine antropologicamente ‘pesante’, si potrebbero definire sopravvivenze. In Olbia convivono tracce di un’economia agricola su cui si è innestata la colonia di marinai ponzesi. Entrambe le comunità avevano le proprie feste, i propri spazi, le proprie pratiche. Il secondo dopoguerra ha portato il turismo e i soldi e con essi la voglia di scrollarsi di dosso tutto quello che appariva vecchio e legato ad un tempo che si voleva nascondere. Il destino della festa di San Giovanni è stato questo, abbandonata per diversi anni nel nome di una modernità che non tollera il passato e riscoperta alla ricerca di radici in un mondo globale che sembra non permetterne.
Infine le ultime migrazioni. Nuovi ricchi italiani e vecchi poveri dai cinque continenti hanno portato con loro nuovi colori, nuovi sapori, nuove pratiche.
È presto per dire come cambierà il volto di Olbia, città multiculturale con la propria sezione della Lega, ma è indubbio che stia cambiando. I primi a saltare i fuochi la notte di san Giovanni, rompendo quel momento di imbarazzo in cui nessuno si muoveva e dando inizio alla festa, sono stati i figli degli immigrati. L’hanno fatto dando al gesto significati diversi da quelli che la tradizione gli attribuisce… non si chiameranno ‘compare’, non si legheranno attraverso un legame stretto quasi come la parentela biologica, magari era solo un gioco o una prova di coraggio, ma l’hanno fatto, hanno dato il loro contributo allo svolgimento del rito.
Una festa di sintesi, dicevo, proprio perché tante chiavi di lettura si possono adottare: il recupero e la rifunzionalizzazione in chiave identitaria, la devozione popolare, l’imperante economia turistica, una società sempre tendente al multiculturalismo. Tutto questo trova espressione nella festa, dandole quella complessità che solo un approccio olistico può cogliere rendendola, pur simile a tante altre, a suo modo unica.
Il link che segue porta alla pagina facebook di AssDEA, dove ho caricato alcune foto sulla festa di San Giovanni. Questo breve reportage (mi perdonino i veri fotografi per l’uso del termine) propone alcuni scatti che non hanno né pretesa di essere capolavori né di raccontare in maniera esaustiva la festa. Prendetele come sono, come degli istanti presi in prestito per essere condivisi.
giovedì 11 agosto 2011
“La presunta santità” di Frazer: i curiosi sviluppi dell’antropologia postmoderna*
GIANNA SABA
L’antropologia “mi ha cambiato la vita”.
mercoledì 10 agosto 2011
La panificazione in Sardegna. Fra tradizione e mercato
martedì 9 agosto 2011
La nave dei morti
Il bagaglio di miti, leggende e storie della tradizione dell'arcipelago di Chiloé (Cile), appare frutto di un contesto culturale e sociale ancorato al luogo che le ha originate ma, allo stesso tempo, si avvertono in questi racconti, inevitabilmente, gli influssi spagnoli – ed europei in generale – che hanno in certo modo arricchito, in maniera anche rilevante, il paesaggio di leggende e miti, come sottolinea Mansilla Torres, per il quale si è venuto a creare un forte sincretismo tra l'immaginario tradizionale indigeno e quello spagnolo, che ha dato vita a leggende meticce, con elementi europei e americani (Mansilla Torres 2007). In maniera non diversa anche Cárdenas Álvarez ritiene che abbiano contribuito alla creazione del vasto paesaggio culturale chilota due indirizzi, uno indigeno e l'altro coloniale: come sostiene lo studioso, «la raíz fundamental del mito chilote es mapuche. Pero fuertemente determinado por la ideología del cristianismo de las culturas occidentales» (Cárdenas Álvarez 1997: 5). Il Caleuche è un
Buque de características extraordinarias que puede hacerse invisible; transformarse en objetos animados o inertes; desplazarse a grandes velocidades. Su aspecto es el de un buque escuela, completamente iluminado y con música que encanta. Sus tripulantes rescatados de naufragios o raptados de la ribera chilota alivianan su inmortalidad con fiestas y otras entretenciones humanas que le dispensan sus colaboradores de tierra. Su aparición ocurre preferentemente de noche o cuando hay neblina (Ivi: 11).
Sono diverse le versioni conosciute di questo racconto folklorico, fonte di ispirazione anche per narratori e scrittori, soprattutto cileni1; ad esempio, Francisco Coloane, che la conobbe in gioventù: «la leggenda dell'errante vascello fantasma Caleuche e dei suoi marinai con l'uniforme bianca, con un piede infilato nella schiena e la testa girata dall'altra parte, fu trasmessa da una nonna a sua madre e da lei la imparò nei giorni della sua infanzia» (Bravo Elizondo 2004: 136-137); secondo la leggenda riportata da Coloane, il Caleuche appare come un «vascello fantasma che scivola sui mari interni dell'arcipelago di Chiloé» (Coloane 2006: 107), con «ancore d'oro, con gavitelli2, sartiame3 d'alluminio e alberi dotati di antenne invisibili che captano le microonde permettendo loro di comunicare tramite le vibrazioni con altri "caleuchani" che vagano nelle correnti marine4» (Ivi: 108). Riprende, inoltre, anche una delle tradizioni per cui la funzione del Caleuche è quella di raccogliere «i naufraghi nell'ora fatidica, lanciando loro un salvagente tondo, perché passino attraverso quella cruna d'ago e approdino sui nostri ponte e coperta istoriati di re di triglie» (Ivi: 110), in un chiaro riferimento al passaggio fisico-semiotico attraverso il cerchio (cfr Van Gennep 2002). Nel racconto Coloane utilizza un artificio letterario per cui si immedesima in un marinaio diventato membro della ciurma del buque de arte5, e spiega quali siano le dinamiche, una sorta di rito di passaggio, attraverso cui gli annegati vengono raccolti dal veliero fantasma e diventano – dopo un periodo di prove da superare – caleuchani. «Probabilmente tutto ciò risulta grottesco per i comuni mortali, perché non capiscono che abbiamo dovuto affrontare una lunga preparazione prima di diventare uomini di questo equipaggio» (Ivi: 108). I naviganti, i marinai, i morti in mare, naufragati in condizioni in cui il mare è in tempesta, mutano strutturalmente il loro essere e, dopo un periodo di liminarità, vengono riaggregati in un'altra condizione. Dopo il naufragio della loro barca, i protagonisti passivi di questo racconto Vicente, Víctor e Olga6 furono vittime di un naufragio in cui perirono. Vicente racconta che, dopo il naufragio, lui e Víctor restarono lì «sotto la chiglia [...] finché dal Caleuche – loro avevano visto il nostro naufragio – ci lanciarono, tra i gorghi, due ciambelle salvagente legate a un filo di luce invisibile, e passandoci attraverso, in un millesimo di secondo ci trasformammo da comuni mortali di Lliuco7 in cahuelches8 di Queniao9». A questo punto, Coloane descrive i passi che un "normale" deve affrontare per diventare cahuelche;
quindi, dovemmo affrontare tutte le trasformazioni richieste per diventare un membro dell'equipaggio del Caleuche. Dagli alberi alla deriva si estraeva la "scienza" che ci veniva inoculata per tramutare la linfa terrestre in acqua marina: lavaggi del cervello per abbandonare le nozioni dei "normali" e apprendere l'algebra dei "cahuelches" che, senza sotterfugi legali o illegali, racchiude tutti gli arcani del finito e dell'infinito (Ivi: 114).
L'autore si sofferma ancora sulla pratica del passaggio dalla condizione di "normale" a quella del cahuelche, affermando che:
il cerusico di bordo mi fece la prima iniezione [...], poi ci buttò in mare facendoci fare più volte il giro attorno alla chiglia, dalla prua alla poppa, una notte intera alle intemperie finché non ci sentimmo come degli azulejos, gli squali che seguono la corrente di Humboldt. [...] Appesi ai pennoni del vascello fantasma, simili a grosse lacrime contorte, apprendemmo a stringere i denti per non urlare, perché, se ci sfuggiva un solo lamento, finivamo un'altra volta a fare il giro della chiglia, sott'acqua da babordo a tribordo (Ivi: 115).
L'etimologia della parola Caleuche, secondo Cárdenas Álvarez, è da ricercarsi nel termine mapuche «CALEU[TüN] 'mutare, trasformarsi' + CHE 'gente'. Si è preteso rintracciare l'origine di questa leggenda nella sparizione della nave "El Calanche" dell'olandese Vicente Van Eucht, nei mari australi» (Cárdenas Álvarez 1997: p 11). L'alterità dei cahuelches ha un'origine che è riconducibile ad un tempo mitico, ma è anche strettamente funzionale alla struttura economica e all'ecologia chilota; infatti, nella descrizione che ne dà Coloane, l'equipaggio appare formato da esseri quasi marini: «da ciò deriva il fatto che abbiamo la testa girata all'indietro e la pianta del piede destro attaccata alla schiena come fosse la spina dorsale ricurva di un delfino» (Ivi 109). I loro occhi «sono come quelli delle mosche, che vedono ai quattro lati» (ibidem) e «dato che guardiamo all'indietro, siamo costantemente immersi nel passato, ma abbiamo anche un occhio invisibile nella nuca, che percepisce la realtà del momento» (Ibidem). La loro origine è da collocarsi in un tempo remoto,
nel terziario, quando i nostri stretti canali e fiordi cominciarono a subire l'erosione dei ghiacciai che convertirono le morene nelle oltre quaranta isole dell'arcipelago di Chiloé. Allora, anche noi subimmo una mutazione e diventammo cahuelches, che in lingua indigena significa "delfino-uomo" o viceversa. In quell'epoca remota del terziario, gli uomini non esistevano ancora su nessuna isola del pianeta, ma non per questo ci crediamo dèi, anche se fin dai tempi dei dinosauri conosciamo l'infinitesimale istante dello spazio, luogo e tempo in cui nacque il sinuoso serpente che tentò i progenitori dei comuni mortali (Ivi: 109-110).
Interessante notare come anche uno dei significati del nome Caleuche richiami al cambiamento di status, da vivo a defunto, aggregato all'equipaggio dopo diverse prove, quasi riti di passaggio, che tendono a svuotare l'umanità del morto per riempirla di una morte quasi posta sullo stesso piano dell'esistenza; con questo si vuole intendere la convergenza che passa tra i due livelli – umano e Altro – raccontati da Coloane, ma descritti anche nelle differenti versioni del racconto. Risulta assai rilevante, a questo proposito, un'altra versione raccolta da Mansilla Torres; secondo lo studioso cileno i marinai del Caleuche possono – se ricevuto il permesso dal loro comandante – «a visitar a sus familias humanas en tierra; si ocurre, será sólo por una noche y por un única vez» (Mansilla Torres 2009: 297-298). Si evince come la dimensione temporale subisca in questo caso uno scarto importante; i marinai-morti del vascello fantasma, condannati a vagare in eterno per i canali dell'arcipelago, in un tempo strutturato praticamente come quello umano, possono tornare dalle loro famiglie una ed un'unica volta: come meglio specifica Antonino Buttitta – in riferimento al tempo altro dei morti – «le anime dei defunti non si trovavano in uno spazio senza dimensioni, in un tempo senza tempo, come oggi si è inclini a pensare; ma in una sorta di antimondo, che aveva bisogno del mondo per continuare a esistere come sua immagine riflessa in uno specchio» (Buttitta 2004: 13-14).
Domenico Branca
BIBLIOGRAFIA
BRAVO ELIZONDO P.
2004 "Francisco Coloane, nuestro escritor del extremo sur", in Revistas de Ciencias Sociales, n. 14., pp. 136-140.
BUTTITTA A.
1995 "Introduzione", in Lévi-Strauss, C., Babbo Natale giustiziato, Sellerio, Palermo.
CÁRDENAS ÁLVAREZ R.
1997 El Libro de la Mitología. Historias, Leyendas y creencias mágicas obtenidas de la tradición oral, Ed. Virginia Vidal, Santiago.
CHAMBERLAIN A. F.
1910 "The Chilian Folk-Lore Society and Recent Publications on Chilian Folk-Lore, etc.", in Journal of American Folklore, Vol. 23, n. 89 (Jul. - Sep., 1910), pp. 383-391.
COLOANE F.
2006 Antartico, Guanda, Parma.
MANSILLA TORRES S.
2007 "Hay un dios que todo lo compra: identitad y memoria de Chiloé en el siglo XXI", in Revista austral de ciencias sociales, 12, pp. 145-158.
MANSILLA TORRES S.
2009 "Mutaciones culturales de Chiloé: los mitos y las leyendas en la modernidad neoliberal isleña", in Convergencia, Vol. 16, n. 51, (sep., - dic., 2009), pp. 271-299.
SEPÚLVEDA L.
1997 Il mondo alla fine del mondo, Guanda, Parma.
VAN GENNEP A.
2002 I riti di passaggio (Les rites de passage, Paris 1909), Bollati Boringhieri, Torino.
1 Cfr anche Sepúlveda 1997: 31.
2 Si tratta di un galleggiante ancorato a un peso sul fondale, di forma sferica, usato per segnalazioni o per ormeggiare imbarcazioni.
3 Insieme di cavi e cime che sostengono gli alberi della nave.
4 Una variante della leggenda afferma che il Caleuche è «una nave sottomarina, il cui equipaggio è formato da stregoni, che vaga intorno a Chiloé nella notte, - "un pirata infernale," che causa grande terrore» (Chamberlain 1910: 388).
5 Altro nome con cui è noto il Caleuche.
6 Vicente "Millalonco", figlio di una chilota e di un membro dell'equipaggio del Caleuche; millalonco, in lingua huilliche, significa "testa d'oro", da "milla", "oro", e "lonco", "testa"; l'espressione è usata anche per indicare il sole. Víctor e Olga, cugini di Vicente, erano figli di una chilota e di uno scandinavo.
7 Villaggio dell'Isla Grande de Chiloé.
8 Membri dell'equipaggio del Caleuche.
9 Punta sita a circa N 40° O (Ivi: 113).
sabato 23 luglio 2011
Non nel mio nome
Oslo è la dimostrazione che l'odio che si manifesta verso gli "altri" si può contorcere verso se stessi. Alla memoria delle vittime di questa violenza, e di tutte le persone che ogni giorno, in tutto il mondo, devono stare attente affinché qualche pazzo accecato da qualche strana ideologia non le faccia saltare in aria o le riempia di pallottole.
martedì 19 luglio 2011
L'evoluzione del dibattito
Sono passati più di due mesi dal post Chi può dirsi antropologo? in cui cercavo di andare oltre la frustrazione che serpeggia tra gli aspiranti antropologi e provavo a ragionare su quali prospettive si aprono ad un neo laureato, come tanti membri della nostra associazione e anche io fra non molto.
L’accoglienza iniziale è stata più che tiepida, diciamocelo… qualche ‘mi piace’ su facebook, qualche commento qua e là… poi, finalmente, il dibattito ha iniziato ad ingranare grazie al contributo della comunità di Anthropos.
Insomma, dietro il quadro quasi avvilente in cui versa l’antropologia italiana, qualcosa si muove. Dico ‘quadro avvilente’ perché, sinceramente, non saprei come altro definirlo: i corsi di laurea, triennale e magistrale, stanno chiudendo un po’ ovunque, Sassari compresa; alcune scuole di dottorato, come quella di Siena, spariscono. Il peso dei tagli delle ultime riforme si fa sentire e solo i grossi centri, come La Sapienza o Bicocca, mantengono i loro corsi. Aggiungete il fatto che, nonostante un’ampia mobilitazione, ancora non siamo riusciti a fare in modo che i laureati in antropologia possano insegnare nei Licei delle Scienze Umane o che le funzioni di funzionario DEA presso il Ministero vengano svolte da antropologi.
La situazione può portare all’arrendevolezza o peggio a confidare in una qualche forma di provvidenza. Questo sarebbe il più grosso errore da fare… perché se aspettiamo l’intervento di un deus ex machina che ci risolva i problemi non facciamo altro che lasciarli crescere, finché non saranno troppo grandi anche solo per pensare di affrontarli.
Perché qualcosa si muova al di fuori dell’accademia sono necessari due elementi: impegno e unità.
Impegno in prima persona, dal basso, per comunicare l’antropologia, i contributi che può dare e i campi in cui può intervenire, per portare le nostre riflessioni fuori dai dipartimenti e dalle aule universitarie in cui, a volte, noi stessi le confiniamo.
Unità tra chi cerca di muoversi in questa direzione, attraverso un dibattito costruttivo che porti a forme condivise di azione, con un occhio alle specificità locali (siamo antropologi mica per nulla…) e un orecchio al mondo che ci circonda.
Qualcosa, grazie al dibattito che si è sviluppato su Anthropos, si è mosso. Qualcosa che ci vede attori partecipi, come associazione e come aspiranti antropologi. Come dibattiti simili hanno portato qualche anno fa alla nascita di Antrocom, oggi realtà più che affermata nel panorama dell’antropologia italiana, in questi giorni stanno delineando un soggetto più ampio, ancora da definire nelle sue componenti strutturali ma chiaro nei suoi propositi fondamentali.
ASSDEA non può che essere entusiasta di una prospettiva del genere… è la naturale prosecuzione del percorso iniziato quando, tra chiacchierate in fila in segreteria, di fronte ad un caffè o sostenendo esami, ha peso corpo l’idea di associarci.
Questo nuovo soggetto sarà la risoluzione di tutti i mali dell’antropologia italiana? No, sicuramente no… ma sarà un passo verso quella direzione.
Vi terremo informati sugli sviluppi futuri e vi invito a partecipare attivamente al dibattito sul forum Anthropos. Ne abbiamo da guadagnare tutti o, come dice una canzone politica sarda, ‘possiamo solo perdere queste nostre catene’.