giovedì 11 agosto 2011

“La presunta santità” di Frazer: i curiosi sviluppi dell’antropologia postmoderna*

L’entusiasmo del non addetto ai lavori, lo sbadiglio dello studente, la critica (talvolta feroce) del professore: in tutta la storia della letteratura antropologica sono pochi i libri capaci di creare tante divergenze quanto The golden bough. Edito tra 1890 e 1915, il lavoro è un neonato già pronto per il funerale: la filosofia su cui si basa è antiquata, il metodo comparativo è inadeguato, la prosa è troppo leziosa.
1.  Frazer, ponendo alla base della sua teoria la filosofia di Hume, considera erronea la mentalità selvaggia, frutto di un’errata applicazione del principio dell’ Associazione di idee. Come fa Frazer a conoscere l’esatto sviluppo del pensiero, da dove ricava l’evoluzione magia-religione-scienza che progredisce dal selvaggio allo scienziato? Perché applica un ragionamento del tipo “se io fossi un cavallo?” si chiede Evans-Pritchard. E quanto è ingenuo indugiare nell’erroneità della mente selvaggia:  come può l’errore, trascurabile, di ontologizzare un’idea fondare un intero sistema di pensiero, un’intera concezione del mondo? Non può, risponde Wittgenstein, e “Frazer sarebbe capace di credere che un selvaggio muoia per errore”
2.    Frazer si dedica anima e corpo a collocare in una concezione organica un’immensa mole di dati provenienti dalla ricerca sul campo? “Il risultato finale dell’esposizione è una specie di mostro di Frankestein con un occhio destro preso dalle isole Figi, un occhio sinistro dall’Europa, una gamba dalla terra del Fuoco e una da Tahiti, e dita delle mani e dei piedi da regioni ancor più diverse” chiosa la Benedict.
3.     Lo stile di Frazer è avvincente, la prosa elaborata? “Frazer stesso pensava di fare della letteratura, non della storia o della scienza: i dati erano per lui semplicemente materiali grezzi da scrivere bene” afferma Edmund Leach
Una sconfitta su tutta la linea, quella di Frazer, che rifiuta di scrollarsi di dosso la polvere dell’antropologo da tavolino andandosi a battezzare alla fonte miracolosa della ricerca sul campo (e poco importa se, in realtà, quella di Frazer è stato una scelta consapevole, dovuta alla convinzione della necessità di separare i due momenti, raccolta dei dati e teorizzazione, allo scopo di evitare reciproche contaminazioni). Eppure, se osserviamo i recenti sviluppi dell’antropologia postmoderna, ci accorgiamo che l’infante è stato resuscitato: alla luce del rifiuto del realismo funzionalista, col suo tentativo di rendere comune l’esotico, quello opposto di Frazer, di esotizzare il comune, risulta un approccio più moderno del modernismo. Ora che anche il realismo etnografico è stato sacrificato sull’altare della rivalutazione della soggettività del ricercatore, sulla necessità di abbandonare la monografia, sull’urgenza di ridefinire i rapporti con l’alterità, vicina e lontana, le condizioni discorsive su cui procede il premoderno Frazer sembrano singolarmente appropriate alla descrizione del villaggio globale, della koinè culturale di scala planetaria che caratterizza la fine del ventesimo secolo [Dei].
Almeno, fino alla prossima rivoluzione antropologica.

GIANNA SABA

* Questa breve riflessione scaturisce dalla lettura di due lavori di F.Dei, “Metodo mitico e comparazione antropologica” e “ La discesa agli inferi. James G. Frazer e la cultura del Novecento”, liberamente consultabili su www.fareantropologia.it. Si rimanda a questi per un’esauriente bibliografia sull’argomento


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