mercoledì 10 agosto 2011

La panificazione in Sardegna. Fra tradizione e mercato

I gesti tradizionali legati alla produzione dei pani e dei dolci assurgevano al ruolo di “comunicazione sociale non verbale”(Diana, 2001). Ciò è vero in modo particolare per quanto attiene la preparazione dei pani festivi cerimoniali; i quali se da un lato consentivano alla donna di confermare le doti di “buona massaia”, d'altro canto, in occasione di particolari ricorrenze, costituivano dei veri e propri oggetti votivi che venivano visti come simboli rappresentativi dell'intero gruppo sociale comunitario. Dalle interviste emerge l’importanza assegnata dal gruppo sociale al “saper fare femminile” estrinsecato nella produzione dei pani e dei dolci. L’importanza della “buona fattura” dei pani e dei dolci aumentava, naturalmente, nei contesti cerimoniali, come il caso del pane di San Giovanni a Fonni da me esaminato, che li vedevano protagonisti: elementi simbolici atti a scandire il momento festivo e a “segnare” il tempo sacro. Molti momenti della panificazione erano legati alla religiosità: a partire da quando le donne si segnavano, fino a quando il segno della croce veniva fatto sul lievito e poi sul pane stesso. Né va dimenticato che particolari pani cerimoniali invalsi a livello tradizionale vengono tutt'ora preparati in occasione delle feste in onore di santi (per Santa Rita nel caso di Torralba), o in occasione della festa di Sant'Antonio (17 Gennaio), per esempio, dove ovunque è una vera e propria sfilata, attorno ai fuochi accesi, di pani in vario modo dolcificati resi appetibili con miele e mosto cotto (Sa saba).Meravigliosi sono anche i pani riservati alle occasioni nuziali: con forme e motivi che rappresentano il sole, o a forma di rosone, di cuore, oppure finiti con elaborate composizioni di colombelle. Il bello e il buono sono presentati in ogni caso come risultati individuali iscritti in un codice di significati e di valori socialmente riconosciuti ed apprezzati. Le donne intervistate hanno, quindi, ripetutamente sottolineato la discrepanza tra il “fare tanto per fare”, considerato un fare generico e privo di significati e valori, e il fare bene. Le donne che sanno e che vogliono svolgere al meglio le loro attività lavorative e sociali, sono apprezzate sia dagli uomini che dalla donne. I comportamenti gestuali tradizionali si inscrivevano in un saper fare mutuato attraverso lo sguardo, per questo, dagli studiosi definito “tacito” o “implicito”, piuttosto che attraverso il linguaggio verbale. La dimensione della trasmissione di contenuti verbalizzati appare, piuttosto un fenomeno moderno.

Il saper fare nell’orizzonte delle informatrici più anziane, che hanno vissuto la dimensione del contesto tradizionale, si accompagnava ai contenuti sociali, a un patrimonio etico, che oggi diviene parte integrante della nostra memoria culturali. Oggi il cibo non è più legato alla sussistenza, e produttori e consumatori non coincidono come nel passato. Se prima si mangiava solo ciò che si aveva e i piatti tipici erano creati dalle mani sapienti delle donne, che si servivano dei prodotti del duro lavoro dei contadini e pastori, e loro stesse erano parte attiva nei lavori agricoli, oggi la situazione è mutata. Non si verificano più gli scambi dei prodotti, tutti hanno già tutto e vi è meno spazio per l’estrinsecazione del valore della reciprocità. Tutto è abbondante e i cibi non parlano più solo la lingua della tradizione, e quelli che ancora la parlano ne hanno modificato un po' l'accento. La realtà quotidiana è rappresentata dall'impoverimento della cucina domestica in cui i piatti delle tradizione costituiscono un'eccezione, e la regola è l'appiattimento sulle proposte industriali della grande distribuzione.

Questo, però, è solo uno dei volti della globalizzazione. Se è vero, infatti, che il contesto globalizzato conduce all’omologazione anche alimentare, tuttavia, è anche in grado di scatenare, per una sorta di “effetto-paradosso” la nostalgia nei confronti di quanto è localmente connotato (Mondardini, 2005) .

La nostalgia del locale è evidente anche e soprattutto in ambito turistico e al turismo gastronomico nella fattispecie, per il fenomeno che c’interessa.

Non c'è pietanza, anche la più umile, che non sia stata riscoperta, raccontata e riproposta (Rami Ceci 2005).

La riproposizione del tradizionale a scopo turistico e commerciale, però, deve avvenire a patto di non tradire quel contenuto etico ed etnico al quale abbiamo fatto riferimento in precedenza. Ciò che chiamiamo tradizione, infatti, rappresenta la nostra identità culturale. Il lavoro di documentazione etnografica ci aiuta in questa impresa di preservazione della memoria culturale.

Naturalmente custodire e tramandare la memoria non significa negare i cambiamenti e l’innovazione, come, ad esempio dimostra l’intervista condotta a Bitti. L'azienda presso la quale ho condotto l'indagine è specializzata nella produzione del pane tipico sardo “carasatu”, ed è un'azienda che cerca di mandare avanti la tradizione, e al tempo stesso di garantire la qualità del pane avvalendosi anche dell'innovazione.

Nel campo della produzione del pane e dei dolci tradizionali ad esempio le nuove tecniche di packaging o le tecnologie volte ad aumentare la durata di vita, ossia la freschezza dei prodotti alimentari tradizionali, rappresentano una modalità per far “dialogare” in maniera più efficace la nostra cultura con l’esterno, pur senza tradirne i contenuti.

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