sabato 18 giugno 2011

Le Cose Che Non Vediamo...

Nel leggere il testo “Antropologia Culturale: l'esperienza e l'interpretazione” di Ugo Fabietti, mi sono soffermato a riflettere su un aneddoto raccontato dallo studioso per spiegare i diversi punti di vista, nati dalla diversa percezione del paesaggio, che intercorrono tra forestiero (nel caso del Fabietti da intendere come antropologo) e nativo.
L'episodio narrato ha per protagonista J. W. Goethe durante un suo viaggio in Italia.
Trovandosi in un piccolo paesino del Veneto e venuto a conoscenza della presenza delle vecchie rovine di un castello, si recò a visitarle. Affascinato dalla bellezza del luogo e dalla poesia che quei vecchi muri gli suscitavano, volle condividere la sua gioia con gli abitanti del luogo. Questi dall'inizio non capivano, erano solo delle vecchie rovine, cosa mai potevano avere di tanto speciale?
Dovettero ricredersi solo quando Goethe li invitò a riflettere sulle reali bellezze che quel luogo esprimeva. I loro occhi, sino a quel momento da sempre abituati al quel paesaggio, “non potevano avere il distacco sufficiente per osservarlo come era invece in grado di osservarlo uno straniero”.
Ho voluto prendere spunto da questa storia per raccontare due fatti simili che mi sono capitati e che mi hanno portato a riflettere sulle cose che mi circondano e che...non vedo.
Quando ero bambino venne a farmi visita dalla città mia nonna. Io al tempo abitavo in un piccolo paesino. La domenica, rientrata dalla messa, mia nonna disse che in chiesa aveva assistito a una cosa che vedeva solo ai tempi della sua infanzia, ossia i fedeli si sedevano nelle due file delle panchine dentro la chiesa disponendosi in una maniera non casuale ma dividendosi per sesso. Nella parte sinistra davanti all'altare stavano gli uomini, in quella destra le donne. Alla stessa maniera i bambini stavano in piedi al lato di queste panche: i bambini maschi all'estremità sinistra delle panchine dove sedevano gli uomini, le bambine all'estremità destra di quelle dove sedevano le donne.
Era una cosa alla quale mai avevo fatto caso sino in fondo. Una consuetudine che traeva le sue origini in un tempo lontano e che ora è andata perduta.
Il secondo fatto, ben più recente, si riferisce a qualche anno fa quando lavoravo come guida turistica.
Mi trovavo a camminare con dei turisti per raggiungere un certo sito. D'un tratto si fermarono a guardare rapiti verso il muretto a secco che delineava il cammino. Essendo questo un fatto che già era capitato con altri forestieri, decisi di avvicinarmi a loro e domandare cosa ammirassero di tanto speciale. Mi risposero il muro. Quel piccolo muretto fatto con grosse pietre di granito attirava i loro sguardi. Da loro i muretti si fanno con il cemento, mi dissero, e di certo il granito non è una pietra che si trova facilmente dalle loro parti. Da quel giorno ho imparato che anche un muretto a secco, vecchio di anni, costruito nella sua perfezione da chissà quali mani, è poesia, è parte di me, sono io.
Spesso le parti di noi che più perdiamo sono quelle che ci circondano, che ogni giorno vediamo ma non osserviamo, che diamo come scontata la loro presenza. Vorrei delle volte essere un turista nella mia terra per imparare a scoprirla in quelle piccole che non riesco a vedere.

Mauro Pirisinu

giovedì 16 giugno 2011

"CULTURE A RISCHIO DI ESTINZIONE"



Per caso mi sono trovato a leggere un vecchio articolo della rivista “Newton”.
Ritenendolo un buon pezzo ho deciso di riportarne alcuni passi. Vi sono appuntati dei dati che mentre si leggono, occorre che si riportino al 2006, anno di uscita della pubblicazione.
L'articolo “Culture a rischio di estinzione”, che porta la firma di Marco Saporiti, vuole lanciare un allarme: al mondo ci sono molti piccoli popoli che “rivendicano la propria storia e le proprie tradizioni “. La preoccupazione nasce dal fatto che queste culture rischino di essere “omologate con chi vive attorno a loro in gigantesche megalopoli”.
Il pezzo si sviluppa sotto un virgolettato in grassetto posto in primo piano “NOI SIAMO LA NOSTRA TERRA” e accompagnato da alcune foto a colori dove sono ritratti degli autoctoni in abiti tradizionali si apre da subito al punto principale: l'autoctono e la grande città sempre più in espansione di genti e di case, mangiatrice di identità.
Subito un primo dato: il numero complessivo degli autoctoni nel mondo ammonta a 370 milioni di persone distribuite in 70 paesi.
Per salvaguardare le culture a rischio l'ONU ha inserito la loro protezione tra le priorità del millennio “nel tentativo di garantire loro i diritti sulle proprie terre e cercare di impedire che vengano trattati come cittadini di serie B”. Per sensibilizzare l'opinione pubblica verso un tema così delicato, a Pau, in Francia, è stato organizzato il primo forum internazionale dei popoli autoctoni dove si sono incontrati (e confrontati) i rappresentanti di circa trenta tribù provenienti dai diversi continenti.
Quanto conosciamo di queste popolazioni a rischio? Quanto sappiamo, ad esempio, dei Papua? Siamo a conoscenza che nel 1963 questa tribù è stata vittima di un genocidio ad opera dell' Indonesia che così ha potuto annettere Nuova Guinea occidentale facendone una “provincia”?; sappiamo delle grida di soccorso che gli Haida lanciano nel silenzio, dalle Isole della Regina Carlotta, mentre “impotenti assistono allo scioglimento della calotta glaciale”?.
L'articolo continua denunciando il silenzio verso queste e altre realtà riscontrato anche in un potente mezzo di comunicazione come internet.
Preferisco ora riportare alcuni dati presi dalle didascalie delle foto pubblicate:

Gli Inuit del Nord-Est del Canada sono dei nomadi pescatori di salmoni e cacciatori di caribù, oggi sono circa 15.000;
I Tibetani al mondo sono circa 6 milioni, 250.000 dei quali in esilio;
I Blackfoot sono una tribù di 1600 persone che risiede nelle grandi pianure dell'Alberta;
Gli Otomi del Messico contano oggi 5 milioni di unità, discendono dagli Atlantidi e chiedono una università indigena dove poter insegnare le loro antiche tradizioni;
I Tuareg oggi constano di 2 milioni di nomadi sparsi tra l'Algeria, la Libia, il Niger, il Mali e il Burkina Faso;
I Chukchi sono 15.000, vivono cacciando balene nello stretto di Bering e chiedono all'Onu un aiuto per la difesa dei propri diritti e dei loro luoghi sacri;
I Rapa Nui dell' Isola di Pasqua oggi sono 2000 e chiedono l'applicazione di un trattato del 1888 stipulato con il Cile che designava i confini del loro territorio;
I Papua della Nuova Guinea sono 1,2 milioni divisi in 250 tribù, ognuna con la propria lingua e le proprie leggi.

                                                                                                                                                   
L'articolo a cui ho fatto riferimento si trova nel nel periodico Newton n.12 del dicembre 2006.

                                                                                                                              Mauro Pirisinu

sabato 4 giugno 2011

125 anni di Coca-Cola: L'india e un babbo natale da...giustiziare?

Un noto settimanale dedica un brevissimo articolo al 125anno di nascita della Coca-Cola, bevanda nota ormai in tutto il mondo.
Creata da un farmacista di Atlanta, Pemberton, la bibita studiata prima come medicinale per il mal di testa e successivamente come tonico rinfrescante, è divenuta emblema della globalizzazione, presente in ogni paese e oltre ogni confine della terra.
Un docente di storia della tradizioni popolari, narrava fra gli aneddoti della sua campagna di ricerca sul Ciad, come persino fra le terre sperdute del deserto non fosse difficile imbattersi nella cartellonistica pubblicitaria della Coca-Cola. Ma a cosa si deve il successo? Probabilmente alla pubblicità. Non dimentichiamo che ormai dal 1931 la sponsorizzazione della bevanda è stata spesso collegata a Babbo Natale, con il vestito rosso e la bottiglia in mano, immagine divenuta il simbolo del modo di vivere degli americani. Quale ruolo ha giocato pertanto la pubblicità? Da sempre le campagne pubblicitarie mostrano un’immagine (talvolta fuorviante) di gruppi di giovani sorridenti che bevono insieme direttamente dalla bottiglia. Già questo, ha sconvolto in passato quelle che venivano ritenute regole della buona educazione, considerato che bere direttamente dalla bottiglia veniva considerato maleducato.
L’articolo conclude con l’asserzione che la Coca-Cola sia il simbolo dell’umanità globalizzata. Ma è veramente così? Non sarebbe più naturale definire questo processo di “internalizzazione” così come suggerisce un breve articolo di Alessandro Baricco, pubblicato sul quotidiano Repubblica nel 2001?
Ma veramente la Coca- cola è il simbolo della libertà? Purtroppo la sua storia non è così limpida come potrebbe sembrare. A tal proposito vorrei riportare un bell’articolo di Marinella Correggia, apparso sul Manifesto del 2003 dall’esemplificativo titolo: I villaggi assetati della Coca- Cola.

Vengono da fuori, rubano la nostra acqua, la filtrano e ce la rivendono a caro prezzo. A che serve una fabbrica così?». Phulwanti Mhase ha una baracchetta dove vende chai (tè indiano) nel villaggio di Kudus, distretto di Thane, stato del Maharashtra. A poca distanza, nella zona Wada, c'è la grande fabbrica della Hindustan Coca Cola Company, affiliata della casa di Atlanta. La signora Phulwanti vende quel che può, anche le bibite multinazionali e l'acqua Kinley, prodotta dalla Coca Cola, ma «nessuno di qui le compra, costano quanto otto ore di paga di una bracciante». La fabbrica della Coca Cola preleva l'acqua dal fiume Vaitarna, dotato di un piccolo bacino - lo costruì anni fa il Dipartimento statale per l'irrigazione - che ha sempre evitato la penuria d'acqua ai villaggi di Kudus, Jamghar, Nehroli e Gandhre. Finché alla Company non è stato dato il permesso di prelevare 300.000 litri al giorno, in una zona in cui il consumo medio di acqua per abitante è inferiore a 40 litri al giorno. Da allora sono iniziate le disgrazie, spiega l'opuscolo Jo Coca Cola Chahe, ho Jaye!, «quel che vuole Coca Cola certo accade»: redatto dall'Aidwa (All India Democratic Women's Association, movimento che conta 6 milioni di iscritte), spiega che l'acqua arriva alla fabbrica attraverso una conduttura di 14 chilometri, sorvegliata dal guardiano Ekhant Wanga che per misere 1.200 rupie (25 euro) deve impedire alle donne dei villaggi di attingere all'acqua. Curioso, Ekhnat è dipendente del Dipartimento per l'irrigazione anche se lavora per la Coca Cola.
La vita dei villaggi è stata sconvolta. Le donne erano solite prelevare l'acqua da bere dal bacino della diga e lavare stoviglie e abiti a valle, nel fiume. L'acqua serviva anche a irrigare orti per l'autoconsumo. Ora l'acqua da bere viene attinta in pozzetti scavati ai lati del fiume, e l'operazione richiede lunghe ore. L'acqua per irrigare le verdure non si può più prelevare. Quanto al bucato, le donne vanno negli stagni che hanno preso il posto del piccolo fiume, visto che l'acqua è stata deviata verso la fabbrica. Le donne si lamentano: «L'acqua era nostra. Come può il governo decidere di venderla senza chiederci il permesso?». Le comunità locali - contadini e adivasi, i tribali dell'India - hanno fatto strenua opposizione alla posa della conduttura, che ha richiesto mesi. Il governo e l'azienda hanno avuto la meglio grazie a una tattica mista. Bhaskar Gotarne intendeva negare il passaggio dei tubi sul proprio campo: un giorno è stato fermato ed è rimasto in prigione finché il lavoro sul suo terreno è stato completato. Il bastone e la carota: alla popolazione locale è stato promesso che avrebbe avuto un piccolo acquedotto e altri servizi, dalla luce al centro di salute. Ma il denaro dato ai panchayat (consigli di villaggio) non è bastato. Il Dipartimento per l'irrigazione non ha usato le royalties per migliorare la locale infrastruttura idrica, e d'altra parte la Coca Cola paga un prezzo irrisorio per quell'acqua: l'equivalente di 5 euro ogni 10.000 litri. Poi rivende bibite e acqua filtrata tra 12 e 15 rupie al litro, ovvero 5.000 volte di più!
La Coca Cola ha una storia travagliata in India. Come altre aziende occidentali - dalle bibite ai computers - fu buttata fuori dal paese nel 1977, quando una legge sugli investimenti stranieri aveva imposto che il controllo delle società fosse indiano. Solo nel 1993 è tornata sul suolo indiano e in fretta si è creata un ampio mercato, da un lato acquistando 22 marchi di bibite locali, dall'altro imponendo prezzi bassi, almeno per gli oltre 250 milioni di indiani middle class. Fino a espandersi alla nuova frontiera: le bottiglie di acqua filtrata.
L'area di Wada, prevalentemente tribale, è dal 1983 una D-zone, zona di sviluppo, dove le industrie sono incoraggiate a insediarsi. Hindustan Coca Cola anni fa comprò la terra per il suo stabilimento da diverse famiglie locali a poco prezzo, con la promessa di lavoro per tutti. Il lavoro però non è arrivato: l'impianto è capital intensive, e i 500 lavoratori e impiegati non vengono dalla zona perché, ha spiegato la dirigenza, «i locali non avevano le competenze richieste». Né lavoro, né acqua.”
Penso che l’articolo non abbia bisogno di ulteriori commenti, apre tuttavia tutta una serie di spunti di analisi. Al di la di quelli ovvi sul marketing dell’azienda, non siamo di fronte ancora una volta allo sfruttamento di un popolo?( nella fattispecie quello indiano). E’ veramente un fenomeno globalizzante?
Questo mio articolo non ha alcuna pretesa di esaustività, né di originalità. E’ un modo per porsi domande e per non dimenticare .
Maria Lucia Mette

venerdì 3 giugno 2011

LA “TRADIZIONALE” CAVALCATA……….. DELLE INVENZIONI?

Da qualche settimana si è conclusa quella che viene definita la “tradizionale cavalcata sarda”. Sessantadue edizioni che uniscono il tradizionale o pseudo tale allo storico.
Quest’articolo non vuol essere certo esaustivo per chi intenda occuparsi dell’ aspetto folklorico, si pone solo come input di un ragionamento più ampio che tocca da vicino aspetti tanto cari a chi studia l’antropologia.
Mario Atzori, docente di Storia delle tradizioni popolari, nel suo “Cavalli e Feste” del 1988 definisce la Cavalcata sarda come “…una sfilata di rappresentanti di numerose comunità della Sardegna vestiti con abiti tradizionali. Si tratta di una manifestazione istituita agli inizi degli anni ’50, nel quadro culturale dell’immediato dopoguerra, quando si intendeva valorizzare le tradizioni locali per fini di richiamo turistico…”.
I primi organizzatori occupatisi dell’istituzione della Cavalcata nonché della corsa al palio ad essa collegata, si appigliarono in qualche modo, all’usanza secondo cui, in passato, venivano organizzate delle cavalcate di cittadini che, spesso con obbligo, dovevano recarsi alle periferie dei centri abitati per ricevere personalità e autorità giunte a visitare la Sardegna.
Se volessimo ricercarne delle origini storiche dovremmo risalire all’inventore Enrico Costa che nel  1899, anno in cui fu istituita la prima cavalcata in onore della visita del re Umberto I e della regina Margherita. La pianificazione dell’evento fu dettata soprattutto dall’allietare i due sovrani con l’organizzazione di qualcosa che mettesse in risalto i costumi locali. Alla domanda di cosa fare per allietare i due sovrani, Costa propose la sfilata di 600 coppie a cavallo e qualche altro centinaio  a piedi, tutti con il costume del paese.
Se volessimo essere più precisi, persino nel 1556, si parla di un’occasione di Cavalcata, per l’assunzione al trono di Filippo II di Spagna. Nel 1693, si organizzò una cavalcata in onore del Conte di Altamura, che giungeva da Cagliari a Sassari con l’intento di “reprimere i contrabbandi che vi facevano i preti e i frati”.
Questo brevissimo excursus pone in essere un aspetto caratterizzante questa manifestazione, purtroppo celato di fronte agli spettacoli e al resto. Anzitutto alcune considerazioni che emergono immediatamente: la Cavalcata non è tradizionale. Almeno non nel senso con cui viene proposta al di fuori dell’isola. La sua storia è emblema della debolezza insita nel popolo sardo, piegatosi in più occasioni al forestiero. Riprende in toto quella parte non tradizionale che con un pizzico di provocazione  si potrebbe definire “servile”. Questo per due motivazioni : quando negli anni ’50 la Cavalcata ha smesso di essere organizzata come offerta a principi, regnanti ed ospiti illustri, si è passati direttamente alla funzione turistica, tanto da diventare una delle rassegne folkloristiche più importanti della Sardegna conosciute ormai a livello europeo.
Non entrerò nel merito della manifestazione in se, penso che vi siano articoli più esaustivi di questo, ma mi è impossibile fare alcune considerazioni sull’oggetto ( o uno degli ) principali che caratterizzano la manifestazione: i costumi di Sardegna. E’ impossibile non notare che nel corso delle oltre 60 edizioni si siano moltiplicati i casi di abiti di comuni talvolta sconosciuti che in questa spettacolare kèrmesse turistica hanno trovato terreno fertile. Iniziamo con ordine. Per farlo e capire di cosa si parla quando si dice “inventare un qualcosa per fine turistico” non si può non fare riferimento a un’opera uscita alla stampa un paio di anni fa. “Costumi e gioielli di Sardegna, paese per paese” edito da L’Unione Sarda. Emblematica raccolta di 377 ( si proprio 377) abiti o gioielli tradizionali dei diversi comuni sardi. Prima domanda: E’ possibile che tutti i comuni della Sardegna disponessero di un abito tradizionale? Il I° volume riporta che molte ricostruzioni sono state fatte da privati, aggiungendo successivamente che “..non sempre le ricostruzioni sono state fatte con l’attenzione dovuta, spesso per mancanza di esperienza e informazioni…”, “…TALVOLTA L’ENTUSIASMO DI ESSERE PRESENTI NELLE MANIFESTAZIONI FOLK HA FATTO SI SIANO COSTITUITE DELLE FORMAZIONI I CUI ABITI SONO STATI CONFEZIONATI IN SEGUITO AD UNA RICERCA POCO ACCURATA… Già questa sembra una prima ammissione di quello per cui molti antropologi si battono : invenzioni. Non possiamo dimenticare che molti abiti tradizionali ( non ne citerò alcuno per correttezza anche se vorrei fare una lunga lista) sono stati ricostruiti sulla base di una semplice fotografia, nei casi più disparati affidandosi alla memoria talvolta poco lucida degli anziani. Talvolta, alcuni abiti sono nati nonostante i paesi di provenienza fossero magari semplici frazioni fino a qualche decennio fa. Ma, come sappiamo, avere un costume piace, se poi il costume si può ricostruire subito anche inventando dei pezzi ben venga, l’importante è averlo, perché piace al turista che individua il popolo sardo con il costume tradizionale.. ovviamente è corretto precisare che fra tutti i paesi ve ne sono alcuni che hanno affidato le loro ricostruzioni storiche ad esperti.
Come già detto, manifestazione in cui il costume si esprime al meglio in tutto il suo splendore, è la Cavalcata sarda. Ormai da qualche anno ogni edizione sembra essere accompagnata anche da una punta di critiche mosse verso quella tanto agognata tradizionalità che spesso è venuta a mancare, secondo gli esperti, dovuta alle mille sfaccettature dell’epoca moderna. Come dimenticare nelle passate edizioni la presenza di figuranti con piercing nelle parti visibili lasciate libere dal costume, o unghie dipinte con colori abbinati all’abito stesso? Provocazione: perché in quell’occasione si è gridato allo scandalo, imponendo per le edizioni successive delle restrizioni per tutelare l’originalità della tradizione??? Se in primis molti degli abiti non rispettano l’originalità semplicemente perché inventati di sana pianta?
In ultimo lancio una grossa provocazione: un antropologo che fra cento anni volesse ricostruire il nostro abbigliamento tradizionale ci dipingerebbe tutti con gli stessi jeans e la stessa maglietta???

Maria Lucia Mette