mercoledì 16 gennaio 2013

Sassari e suoi migranti. Un'introduzione

L’antropologia e la fotografia sono generalmente considerate come due realtà distinte. Si vorrebbe
scienza, la prima, e si definisce arte, la seconda. Spazi disciplinari e confini netti in realtà tendono a sfumarsi, ad ibridarsi. Non solo perché in campo antropologico l’uso di documentazione fotografica è
ormai una consuetudine affermata, ma anche perché i fotografi hanno sviluppato un approccio in qualche modo “antropologico”.
In una famosa lettera scritta nel 1970 da George Rodgers, il fotografo dell’agenzia Magnum consigliava al figlio, per diventare un buon reporter, di diventare un camaleonte:

Non intendo dire che dovresti diventare color caffè nel Vizagatapam o completamente nero nel Bangassu, ma voglio dire che dovresti trovare quella certa attitudine per non apparire bianco in nessuno dei due posti. Ogni nazione, razza o tribù ha la sua morale, il suo orgoglio e la sua dignità, le sue regole e le sue abitudini e molto differenti le une dalle altre. E tu devi accettare queste cose e più le conosci e meglio è. Sviluppa il tuo metodo di camaleonte fino a saperti mescolare in tutti gli
ambienti e sentirti veramente a casa tua sia nella capanna di un beduino che a palazzo reale.


Quello che fa l’antropologo sul campo non è molto diverso: non diventa – e non potrebbe farlo –
dogon tra i dogon o aymara tra gli aymara, ma certamente si sforza di “non apparire bianco”, di accantonare i propri pregiudizi culturali nel calarsi nel terreno di ricerca, sia esso la foresta amazzonica o un quartiere delle periferie metropolitane.
I grandi fotografi, quelli che non per caso chiamiamo maestri, sviluppano e realizzano dei progetti che sono già antropologici: pensate al decennale lavoro di Sebastiao Salgado confluito in Migrations; o agli Zingari di Josef Koudelka; o anche, per rimanere in Italia, ai lavori di Ferdinando Scianna sulle feste siciliane.
Quelle che vedrete non sono capolavori di maestri, ma scatti di studenti spesso alla prima esperienza fotografica. Sono l’esito di un breve laboratorio organizzato dalla nostra associazione e finanziato dall’università sassarese. Ma sono soprattutto il tentativo di analizzare la complessa realtà delle migrazioni internazionali a partire non dalle fredde statistiche ma dalle storie di vita che hanno
come cornice la città di Sassari, raccontate attraverso il mezzo fotografico.
Fotografie sporche, acerbe, proprio perché realizzate da principianti, ma allo stesso tempo riuscite
perché cariche di quella tensione sociale che era nostra intenzione trasmettere con questo lavoro.

Le foto della mostra Sassari e i suoi migranti si possono vedere nella pagina facebook dell'associazione:
https://www.facebook.com/media/set/?set=a.562351977127332.140192.169458799749987&type=1

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