Il 27 ottobre
2012 presso la Sala del Museo del Porto l’associazione Asso.Ve.La. e la
Cooperativa
Turris Bisleonis hanno
organizzato un evento di notevole importanza per gli studi di “cultura del
mare”: “Gabriella Mondardini intervista Pasquale Polese. I Saperi e le Astuzie
che hanno creato le barche…e non solo”.
Il segretario
dell’Associazione, Lorenzo Nuvoli, presenta con queste parole, l’incontro, sul
sito dell’Associazione di Vela Latina di Porto Torres:
Chi lavora con le mani è un
operaio;
Chi lavora con le mani e
con la testa è un artigiano;
Chi lavora con le mani, con
la testa e con il cuore è un artista.
Pasqualino Polese è
sicuramente un artista perche le sue creature sono vere e proprie opere d'arte
che hanno permesso, ai fortunati proprietari, di lavorare in mare con sicurezza
e di produrre profitti quando l'economia di Porto Torres era fondata sulla
pesca e il suo porto era efficiente e funzionale.
Tante storie di mare di
barche e di vita verranno messe in luce dall'antropologa Gabriella Mondardini
che sabato 27 ottobre 2012, alle ore 17.30, nella sala del Museo del Porto,
intervisterà Pasqualino Polese.
A 25 anni dal loro ultimo
incontro e alla soglia degli 80 anni Pasqualino Polese ci racconterà della sua
vena artistica che, oltre alle barche in legno, lo ha portato a realizzare
moltissimi altri oggetti in legno e non solo come ad esempio chitarre
funzionanti di 20 cm., trottole da 10 mm. e per finire il coltello a
serramanico più piccolo del mondo di soli 4 mm.
Una occasione unica per
immergerci nella storia e nella cultura del nostro paese. [...]
L’incontro si è svolto nel Museo del Porto, noto in
passato come “La Piccola”, è un-ex deposito della ferrovia costruito nei
primi anni del ‘900, destinato a stivare merce non
deperibile che viaggiava con la “piccola velocità”, a differenza della merce
deperibile che viaggiava con la “grande velocità” e veniva inviata direttamente
alla Stazione Ferroviaria.
La stazione passeggeri si
trova a 500 metri di distanza, come accadeva nel 1872, anno della nascita delle
ferrovie in Sardegna, quando i depositi erano staccati dalle stazioni destinate
ad accogliere i viaggiatori.
Il museo è stato realizzato dopo due anni di
restauro e l’allestimento si avvale di video, immagini, oggetti
e installazioni che possano testimoniare le vicende relative a Porto Torres dai
primi anni del ‘900 alla successiva fase di cambiamento innescata dal processo
di industrializzazione.
In mezzo alla stanza si trova un plastico di
Porto Torres che presenta da un lato la situazione della città agli inizi del
XX secolo e dall’altro le conseguenze del processo di industrializzazione iniziato
negli anni ‘60.
Dell’intervista si riportano alcuni passaggi che rendano
testimonianza dell’incontro tra Gabriella Mondardini Morelli
e Pasquale Polese a
distanza di anni, e della ricchezza di contenuti che si è prodotta in questa
occasione.
Il dialogo, a cui sono
ripetutamente invitati a partecipare anche i presenti, inizia in tono ironico, con
le parole di Gabriella Mondardini: “Ormai i nostri incontri si sono
ripetuti da lunga data e finalmente ci hanno messo a tutti e due nel museo”!
Le ricerche
nel campo della Cultura marinara di Gabriella Mondardini Morelli sono iniziate
negli anni ‘85-‘86 nell’ambito del Compartimento marittimo di Porto Torres (che
allora comprendeva Bosa, Alghero, Stintino, Porto Torres, Castelsardo, Isola
Rossa).
Le ragioni che
muovevano la ricercatrice, secondo quanto afferma lei stessa, riguardavano la
vita dei pescatori e dunque il rapporto tra la barca e i pescatori e tra questi
e il maestro d’ascia. Le interviste al Maestro Polese erano finalizzate alla
raccolta di informazioni destinate a soddisfare tali obiettivi di ricerca.
L’interesse per la costruzione delle imbarcazioni si è manifestato in una fase
successiva, durante la quale è stata acquisita la consapevolezza
dell’importanza del lavoro del maestro d’ascia “in sé”, dal momento che si
tratta di un sapere molto importante, “che è bene conservare e conoscere”.
Nel discorso
introduttivo all’intervista viene fatto riferimento alla definizione di ‘Cultura
marinara’ e per giungere ad una sua spiegazione la professoressa Mondardini
inizia col definire l’uomo come ‘essere terricolo’ che per accedere all’ambiente
marino, che non è il suo ‘luogo naturale’, deve usare ‘l’astuzia’ ed inventare
dei mezzi che lo sostengano nella sua impresa. Egli può infatti nuotare fino ad
un certo punto ma poi ha bisogno di qualcosa a cui appoggiarsi. Le barche sono
dunque i testimoni della cultura marinara e ci riconducono a due contesti
differenti, uno di terra e uno di mare dal momento che si fa riferimento alla
capacità di costruzione delle barche e a quella di navigazione.
Gli antichi greci
usavano la parola ‘metis’ per fare
riferimento all’astuzia di vedere le cose nel loro insieme e nei dettagli.
Anche il maestro d’ascia che si dedica al suo lavoro di costruzione deve
possedere questo ‘colpo d’occhio’ come il capitano quando si trova in una
condizione di pericolo deve poter valutare con consapevolezza le scelte da
fare.
Nel proseguo
dell’incontro la professoressa Mondardini ha rivolto una serie di domande al
suo interlocutore che ripercorrono tutte le fasi di ricerca svolte fino a
questo momento ma si arricchiscono anche di ulteriori considerazioni che sono
state elaborate in una fase successiva a quella della ricerca sul campo e anche
a quella delle monografie dedicate all’argomento. L’intervista che si è svolta
nel Museo del Porto rappresenta anch’essa un ulteriore momento di
approfondimento e dunque fa parte di quello stesso processo di costruzione del
sapere che è iniziato nella metà degli anni Ottanta del Novecento e continua
anche oggi.
La famiglia
Polese è di origine napoletana, i primi immigrati sono giunti da Torre del
Greco ad Alghero nel 1830 e il nonno di Pasqualino Polese, Pasquale, si è poi
trasferito a Porto Torres insieme ai due figli maschi per aprire un cantiere
navale anche in questa città di mare.
L’esperienza
di Pasquale Polese nel cantiere navale della sua famiglia inizia a otto, nove
anni ma allora poteva solo “dare gli accessori a mio padre: ascia, martello,
chiodi, un po’ di tutto”.
Per acquisire la patente di
carpentiere l’allievo doveva svolgere un periodo di apprendistato lungo almeno
dieci anni che si concludeva con il rilascio della patente di carpentiere da
parte del maestro d’ascia: “Almeno una decina d’anni per essere un bravo
carpentiere, un bravo costruttore, per conoscere i segreti, conoscere la barca”.
Il legname
impiegato per la costruzione delle barche era preferibilmente quello delle
querce, poiché i tronchi sono curvi e assecondano l’andamento della struttura
della barca.
Si andava ad
acquistare la legna, per esempio, a Gavoi e a Tonara, dove si tagliavano anche
le traversine per i binari della ferrovia, e i rapporti con i segantini erano
molto buoni, la legna si pagava comunque a peso d’oro ma non era raro che
giungessero da Porto Torres cassette di pesce per gli ‘spuntini’ con cui si
festeggiava la buona riuscita del commercio.
La costruzione
della barca avveniva poi nel cantiere navale in un’atmosfera di sacralità così
come accadeva al momento del varo, quando la ‘creatura’ veniva messa in acqua
alla
presenza del padrino e della madrina “di battesimo” e si celebravano dei
rituali come a scongiurare il pericolo di oltrepassare i limiti concessi
all’uomo sulla terra che andando per mare “frequenta un luogo che la natura non
consentirebbe”.
La studiosa
riporta le parole del maestro Polese il quale affermava che la barca “ha una
faccia, ha una pancia e quasi si riproduce il corpo umano, la persona”
proprio
come si direbbe di un essere vivente, in un processo di antropomorfizzazione
che crea tra il costruttore e l’imbarcazione un rapporto particolare, quasi
paterno, nel quale l’abilità dell’artigiano viene esaltata nel momento in cui
il prodotto del suo lavoro, un insieme di estetica e funzionalità, affronta il
mare sotto la guida sapiente del pescatore.
Un altro
aspetto relativo alla vita delle barche riguarda la loro tipologia:
Se la barca quale testimone della cultura del mare
rimanda, come s’è detto, ad un insieme di relazioni, la prima fra queste è
l’interazione fra pescatori e costruttori: (…). La forma e lo stile rispettano
ovviamente le esigenze e i gusti dei pescatori, ma la proprietà dei materiali
usati, l’efficacia delle qualità nautiche e l’estetica complessiva, sono il
segno della pratica tecnica, dell’abilità e della genialità artistica del
costruttore. (…) Così in Sardegna entro la categoria generale dei gozzi, pescatori e maestri d’ascia
forniscono un’affinata classificazione tipologica con riferimento locale: la
barca tabarchina a Carloforte, la spagnoletta ad Alghero, la guzzetta a Stintino, la filuga a Porto Torres, la maddalenina all’isola della Maddalena e
così via. (Mondardini 1997: 189).
Le barche
costruite dai Polese “sono originali perché si sono adattate a quest’ambiente,
alle necessità di questo ambiente e quindi in tutto il Mediterraneo le barche
fatte a mano, le barche antiche, di legno, sono creature uniche proprio perché,
intanto, c’è la mano del costruttore e poi c’è anche questa necessità di adattarsi
all’ambiente particolare”.
Il Maestro
Polese fa riferimento ad una esperienza personale e aggiunge che “Prima le
barche erano tutti gozzi, sia nella Liguria, in Sardegna, nella Toscana. poi la
spagnoletta, chiamata spagnoletta, era
una barca spagnola. mio padre, era un grande operaio, aveva … gli era venuta sotto mano una
fotografia spagnola, una spagnoletta e ha fatto la spagnoletta, (…) le ordinate
che affiancano la chiglia hanno una certa sagoma per avere più pescaggio e per tenere
anche il vento, il mare”.
Ma le
differenze tra un tipo di barca e l’altro non sono solo tecniche, si parla di
‘bellezza’ di una barca e “la bellezza
della barca è dovuta al maestro d’ascia”.
Il guadagno
non sembra essere dunque il fine principale del maestro d’ascia che viene in
qualche modo ‘ripagato’ dalla riuscita della sua opera: “La bellezza, e questa
è una cosa importante. Il senso estetico, avere anche la soddisfazione a fare
la barca non soltanto per i soldi che prendeva ma anche la soddisfazione di
mostrare che sapeva fare la barca bella insomma”.
A questo punto
è
necessario fare riferimento ad uno dei punti centrali dell’intervista che
riguarda il ‘garbo’.
Si
tratta di “una sorta di regolo che, a partire dalla ordinata centrale consente
di costruire tutte le altre” (Mondardini 1997: 191).
Nel cantiere di porto Torres il sistema di costruzione
delle barche con l’uso del trabocchetto
è rappresentato come eredità familiare, di origine torrese ma con
un’accentuazione delle capacità personali del costruttore. Il modello sembra
dare una traccia generale, ma è l’abilità personale del maestro, che, come vedremo,
dà forma, stile, e bellezza (Ivi: 196).
È qualcosa con
cui la studiosa si è confrontata a più riprese, fin dal 1986, ma i suoi
interessi, essendosi evoluti e modificati in corso d’opera, hanno affrontato le
tematiche relative all’aspetto tecnico della costruzione delle barche solo in
un secondo momento della ricerca mentre inizialmente si sono rivolti allo
studio degli aspetti ‘sociali’ delle comunità dei pescatori:
L’appropriazione materiale del pescato,
tramite la pesca comune, utilizza sistemi di cattura piuttosto semplici, con
barche di piccole dimensioni, è un numero di pezzi di rete proporzionale al
personale imbarcato; l’organizzazione del lavoro, avviene generalmente
all’interno del nucleo familiare, dando vita ad una forma di cooperazione che
non va al di là del gruppo di parentela o di comparatico. All’interno di questi
gruppi la stratificazione sociale è definita generalmente per classi di età,
infatti ai pescatori adulti e anziani viene riconosciuta l’autorità proprio
perché detentori di tutta una serie di conoscenze relative alle tecniche di produzione
da cui deriva la loro funzione di direzione e di controllo (capo-barca,
capo-pesca e capitano generalmente coincidono) nel processo produttivo e degli
utili della pesca ai produttori .di redistribuzione
Nel 1986
chiedeva dunque al maestro Polese di spiegarle come si faceva il progetto per
la costruzione di una barca e questi le rispondeva che da molti anni non faceva
più il disegno della barca prima di costruirla e che si trattava di un
‘segreto’ che veniva trasmesso di generazione in generazione. Le parole di
Polese non destarono allora l’interesse dell’antropologa che si interessò in
seguito all’argomento e gli dedicò uno studio approfondito.
Nel 1990
Gabriella Mondardini si occupò di una rivista monografica sulla cultura del
mare (La ricerca folklorica. La cultura
del mare, 1990) e in fase di
preparazione venne in contatto con gli scritti di Franco La Cecla riferiti al
‘mistero’ che circonda le tecniche di trasmissione della progettazione del
mezzo garbo che non vengono svelate agli apprendisti a meno che il maestro non
abbia intenzione di trasmettergli la professione (La Cecla 1990: 26): “Ed il «mezzo
garbo», essendo la chiave della forma degli scafi, è anche il segreto del
mestiere. Gli apprendisti difficilmente vengono
iniziati ad usarlo, a meno che il mastro non voglia passare loro il
mestiere”.
L’incontro con questa realtà le diede modo di comprendere
quale importanza avesse la trasmissione della tecnica di costruzione delle
imbarcazioni nell’instaurazione della relazione tra maestro e apprendista e
quale fosse il valore intrinseco alla ‘tecnica’ che divenne l’obiettivo
principale della fase di ricerca successiva che, a partire dagli anni ‘90, si è
avvalsa non solo delle ricerche presso cantieri sardi e del Mediterraneo ma
anche delle fonti storiche.
In quel
momento “ho pensato che anche io ero stata trattata come un’apprendista e gli
ho detto: «Perché non mi ha parlato del garbo»? «Perché non me l’ha chiesto»!
«Ma se io non lo sapevo come facevo a chiederglielo»!
Ciò che è
stato appurato da queste ricerche è che nel Nord-Sardegna esistono due metodi
di costruzione prevalenti, quelli liguri che usano il modellino da cui si
ricava il disegno, “Ma quello è semplice”
e
quelli campani privilegiano “l’antico uso del
garbo”. Nel 1994 è stato anche realizzato un filmato per
documentare l’utilizzo del garbo. In quell’occasione “ (…) lui ci ha mostrato
che, non solo usa il garbo, questo modello, ma lo costruisce ed è una procedura
matematica importante e anche non facile”:
“Questo
oggetto (…) non è un oggetto qualsiasi perché invece è un concentrato di saperi
intorno alle qualità idrodinamiche dell’imbarcazione e serve a dargli forma, a
far si che svolga la sua funzione del navigare”.
Secondo La
Cecla (La Cecla 1990) la parola ‘garbo’ indica lo strumento, “il risultato di
un suo uso «adeguato» e “quello che significa in generale nell’uso comune in
italiano, e cioè «l’adeguatezza» di una cosa, di una persona, di un gesto” (La
Cecla 1990: 27).
I diversi
livelli della parola si conservano ed entrano in relazione nel cantiere del
mastro d’ascia:
Per questo la barraca, il cantiere, è un
luogo eminentemente aperto dove i commenti degli estranei fanno parte della
produzione. (…) Qui, per tutto il tempo, fino al varo e soprattutto dopo, viene
mantenuto il carattere interattivo del “garbo” e del “garbare”, come se, al rapporto
tra l’elemento legno e l’elemento mare, si aggiungesse il rapporto tra mastro e
comunità.
Detto questo,
la trasmissione del metodo di costruzione del garbo serba in sé qualcosa di
misterioso che il maestro è restio a trasmettere anche al proprio apprendista
il valore di questo strumento viene attribuito ad una sfera magica, anche nelle
parole dello stesso Pasquale Polese: “chi l’ha inventato sarà stato un mago,
(…) lo faceva mio padre, mio padre da mio nonno” (Mondardini 1997: 203-204).
Secondo le parole
di Polese nel garbo
“c’è
la barca intiera” e a partire dal
garbo
è possibile fare tutte le ordinate della barca. Un altro strumento, legato al
trabocchetto, è la
tavoletta,
“un’asta di legno con tanti segni quante sono le ordinate da costruire” (Mondardini
1997: 197).
Il metodo per
ottenere il
garbo viene illustrato
anche in questa sede, come nelle precedenti interviste realizzate nel corso
degli anni (Mondardini 1997: 187-211) come un arcano e si ribadisce che “Chi ha
inventato questo trabocchetto non era tanto sprovvisto, era una persona
intelligente…perché qualcuno l’ha inventato”.
Il
trabocchetto e la tavoletta sono veri e propri strumenti di progettazione
caratterizzati dalla presenza di ‘
segni’
sulla loro superficie, “i
segni sono
fondamentali e la tecnica per disporli si fonda secondo il maestro d’ascia su
un
raggio” (
Ivi: 201), “dal cerchio non si sfugge”.
Il simbolo
delle barche dei Polese, posto nella prua, “è una sorta di spirale, sembra che
sia un simbolo apotropaico significa che tiene lontano il malocchio e il male
perché se uno dovesse fare una fattura alla barca dovrebbe srotolare (…) e non
ce la fa quindi non riesce a fare il malocchio”.
La famiglia
Polese : “Poi bravi carpentieri c’erano anche i miei zii, gli altri cugini di
mio padre, bravissimi, non ne hanno fatto mai barche brutte (…)”,
famiglia di carpentieri, per generazioni, si è dedicata alla costruzione delle
imbarcazioni.
Con queste
parole Gabriella Mondardini esprime il proprio pensiero sul rapporto tra etica
ed estetica nel lavoro artigiano, che adopera “la mano e l’occhio”:
Secondo me, l’etica del maestro d’ascia, l’etica
dell’artigiano del fare bene, cosa che abbiamo dimenticato, l’estetica e
l’etica (…) coincidono, l’etica e la moralità, fare bene, fare il bello e farlo
bene, questo è quello che io ho sentito da questo lavoro di una vita di
artigiano, Secondo me bisognerebbe riproporlo ai giovani e sembra che
incominci, in questa situazione di crisi, sembra che si torni probabilmente a
questo (…).
Sono parole che possono essere
affiancate a quelle con cui Franco La Cecla comincia la sua riflessione sul
“cantiere del mastro d’ascia di una comunità siciliana” (La Cecla 1990: 25), un
‘luogo’ dove:
La concezione ed i parametri del “ben fare”, del dare
la forma giusta agli scafi, si inseriscono e rammentano un sistema più generale
abituato a cercare e a giudicare il verso giusto delle cose. Al contrario di
quanto una visione banale della cultura materiale potrebbe fare pensare, è in
un luogo dell’attività pratica che troviamo i livelli di distinzione più
astratti, i parametri di una estetica a cui la comunità può fare riferimento.
Cfr. Mondardini 1997,
Cap. III, pp. 81-106.
Tra questi oggetti è presente il tremaglio o
tramaglio, senaio, nella terminologia
locale, che fa parte delle reti da posta,
le più utilizzate dai pescatori del Compartimento marittimo di Porto Torres.
Queste “vengono lasciate ferme in mare,
in attesa che il pesce vada ad impigliarsi e rimanervi prigioniero. Il
tremaglio è una rete da posta formata da tre pezze di reti sovrapposte,
congiunte in alto sulla lima da sughero e in basso sulla lima dei piombi. Le
due pezze esterne sono identiche e a magli molto larghe, mentre quella
intermedia ha maglie molto piccole e forma una specie di sacca dove il pesce
entrato agevolmente attraverso la prima rete, non riuscirà più a uscire. (…) Il
nome tremaglio o tramaglio deriva dal latino tardo tremàculum, cioè rete a tre ordini di maglie; localmente viene
invece chiamato senaio per
l’insenatura che forma la rete mediana, a maglie fitte e sottili, contro una
delle due reti di parete a maglie larghe, quando vi si imbatte il pesce”.
Questa breve biografia di
Polese è stata gentilmente concessa dall’associazione Vela Latina di Porto
Torres. Pasqualino Polese è storicamente uno dei mastri d’ascia più
apprezzati del nord Sardegna. La sua famiglia originaria di Torre del Greco,
arrivò in Sardegna, per dedicarsi alla pesca del corallo ad Alghero; iniziarono
presto la costruzione dei primi gozzi sul modello di quelli della loro terra
d’origine, che modificarono ed adattarono alle esigenze dei pescatori e alle
condizioni del mare della nostra Isola. Dal paziente lavoro di quei maestri d’ascia,
arrivati oggi alla quinta generazione, nacque un’imbarcazione dalle
caratteristiche uniche, immediatamente riconoscibili per la cura dei
particolari, ma soprattutto per le linee garbate e l’accuratezza nella
rifinitura dei dettagli. Negli ultimi anni la richiesta di gozzi per la pesca è
notevolmente diminuita mentre si registra un aumento delle richieste per la
costruzione di imbarcazioni a vela latina. e qui riemerge l’esperienza dei
Polese che sanno ben valutare le qualità di un opera viva destinata
prevalentemente alla vela piuttosto che al motore. Come dice un proverbio: “ad
ognuno la propria arte”. Di Pasqualino Polese sono conosciute ed apprezzate le
barche che ha costruito ma egli è anche inventore e miniaturista. Mani così
grandi sono stati in grado di costruire oggetti tanto piccoli.
P.P., Porto Torres, 2012.
Ho tralasciato le questioni relative alla produzione
oggettistica da parte del Maestro Polese per concentrare l’attenzione sul
rapporto tra il lavoro della Professoressa Mondardini e la costruzione delle
barche
Cfr. Mondardini
1981: 140.
Cfr. Mondardini 1991; La Cecla 1990.
P.P., Porto Torres, 2012.
G.M., Porto Torres, 2012.
Per quanto concerne l’etimologia del termine ‘garbo’
Cfr. La Cecla 1990, pp. 27-28.
“(…) Ma è J. Corominas nel suo Diccionário Crítico
Etimológico de la Lengua Castillana (Madrid, 1954) che ne delinea la storia più
completa. (…) Viene introdotto come italianismo alla fine del XVI sec. È inseparabile
per Corominas dal calabrese gàlapu, gàlipu, garbo, destrezza, maestria, e
dal genovese medievale galibo e garibo e dal napoletano antico gallipo, tutte forme che; provenienti
sia dall’arabo quali qàlib che dal
latino calapus e dal greco kάλαπους
(da cui proviene la forma araba) – che è però più propriamente «l’orma di una
scarpa» -, significano anche il «modello a cui deve aggiustarsi una costruzione
di una nave o delle sue parti o di un arco, etc., come figura nelle più antiche
tecniche di costruzione navale e in architettura (Vasari, Soderini, Caro)». E
Corominas aggiunge «Una volta di più, nel mondo mediterraneo, il buon gusto
viene visto come l’adattamento ad una forma, opponendolo all’informe e al
deforme, si ricordi la storia del latino “forma” bellezza, e del greco μορφήεις,
bello e άμορϕος, brutto» (Corominas, p.677)”. Queste osservazioni, di carattere
linguistico vengono completate con le successive parole di La Cecla: “Ed è
interessante come nella pratica del mastro d’ascia i vari livelli siano
conservati ed interrelati, e come soprattutto lascino vedere una struttura di
pensiero estetico sulla realtà e sul rapporto quotidiano d’uso e apprezzamento
degli oggetti e delle forme. Qui “forme”, come fa osservare Corominas, sta
proprio nel suo senso originario, di qualcosa modellata su qualcos’altro di
originario, lo stampo di un modello. Visto che si tratta di scafi, la forma è
determinata dalle forze di spinta dell’acqua e della propulsione, il garbo è
quello risultante da un “essere orma”, “essere cambiato”, essere avvolto dalla
matrice marina. (…)”.
P.P., Porto Torres, 2012.
P.P., Porto Torres, 2012.
G.M., Porto Torres, 2012.
P.P., Porto Torres, 2012.
BIBLIOGRAFIA
La Cecla F.
1990 “Un certo
garbo” in La ricerca folklorica.
Contributi allo studio della cultura delle classi popolari. La cultura del mare,
Mondardini Morelli G. (a cura di), Brescia, Grafo Edizioni, pp.25-28.
Mondardini G.
1981 Villaggi di pescatori in Sardegna.
Disgregazione e rurbanizzazione, Sassari, Iniziative Culturali.
1997 Gente di mare in Sardegna. Antropologia dei
saperi dei luoghi e dei corpi, Nuoro, Istituto Superiore Regionale
Etnografico.
Marta Gabriel