giovedì 24 ottobre 2013

Poniamo che abbiate una bambina.


Da giorni, troppi giorni, sentiamo e leggiamo ovunque di bambini "rubati" dai rom. Come se i bambini poi si rubassero come fossero cose, e non si rapissero come si fa con le persone. Tornando alla faccenda ci sono tre casi che hanno colpito maggiormente l'opinione pubblica .


1) Una bambina bionda viene fotografata in un bus a Firenze, insieme a due donne rom. Della bambina si riconosce il viso e lo stesso vale per una delle due donne. Quella bambina è troppo bionda per essere una "zingara"! La foto viene pubblicata su facebook e subito partono segnalazioni alle forze dell'ordine, alla stampa e fa il giro del web in pochissime ore. Tanto basta perché qualcuno che conosceva le due donne si sia accorto della foto e della gravità di un gesto. Un gesto che ha mandato in tilt parecchie famiglie alle quali son scomparse le proprie figlie e che ha mandato in tilt quelle donne ignare di essere finite sulla bocca di tanti, troppi, perché accusate di aver rapito una bambina. Perché a quanto pare, secondo chissà quale regola genetica, una bimba rom non può avere i capelli biondi e gli occhi azzurri. Arriva il lieto fine, la bambina è veramente rom e la foto viene tolta da facebook e la smentita arriva da parecchie parti. I giustizieri del web avranno chiesto scusa alla sua famiglia?

2) Le forze dell'ordine trovano, in un campo rom in Grecia, una bambina bionda che vive con due rom parecchio scuri di carnagione. Se da una parte c'è da ammettere che forse è un po' difficile trovare bimbi così diversi dai genitori, dall'altra c'è comunque da ammettere che la stampa non ha avuto nessuna remora a creare allarmismi prima di attendere lo svolgimento dei fatti. Passano i giorni, i presunti genitori/rapitori pare si smentiscano più volte spiegando i fatti. Le indagini continuano, la foto della bimba fa il giro del mondo ma nessuno la riconosce. Come finisce? Che la bambina era stata affidata dalla madre naturale, bulgara, a quella famiglia rom. 


3) Siamo in Irlanda. Una bambina di 7 anni viene portata via dalla polizia da un campo rom. Anche qui per le stesse motivazioni: troppo bionda per essere una rom. Ai genitori è stato imposto l'esame del DNA ed è stata restituita loro la bambina. 

La riflessione che viene fuori è sostanzialmente questa, che riassume un articolo scritto sul blog http://allegroefurioso.wordpress.com/:


Poniamo che abbiate una bambina. Poniamo che ve la tolgano perché è troppo bionda per essere vostra figlia. Poniamo che non sia stata registrata per paura che poi la madre venga sterilizzata, come troppe volte succede in molti, troppi paesi, allo stesso modo in cui succedeva durante il nazismo. Poniamo pure che la vostra sia una famiglia che fa parte del gruppo etnico più stigmatizzato di questo mondo. Poniamo pure che non possiate nemmeno chiedere un risarcimento danni. Non lo avete ottenuto per lo sterminio nazista, mica potete pretenderlo ora. D'altronde siete pur sempre "zingari". E si sa come siete voi. Poniamo tutto questo. E immaginatevi, almeno un po', di vedervi un po' rom, un po' sinti, un po' zingari, insomma.
Poniamo pure che andiamo a vedere le ricerche sui presunti rapimenti di bambini da parte di rom. E poniamo pure che andiamo a vedere cosa dicono i dati delle forze dell'ordine

La paura del diverso credo abbia sempre fatto parte del modo di vedere il mondo da parte degli esseri umani. E la paura è pure l'arma più usata durante le campagne elettoraliIl diverso come icona del male, come direbbero Marco Aime ed Emanuele Severino, rappresenta una difesa del proprio io, del proprio spazio:

"Addossare le colpe a qualcuno che è esterno rende i “noi” automaticamente buoni e i “loro”, per usare una dicotomia oggi in voga, automaticamente cattivi, maligni e minacciosi. Da un lato, ciò può avere anche la funzione di creare una coesione all’interno della società, dall’altro genera una produzione continua di alterità. Viene alla mente la poesia di Konstantinos Kavafis “Aspettando i barbari” (1908), che definisce i barbari come una necessità: quando poi non arrivano non si sa più come fare. E adesso, senza barbari, che cosa sarà di noi? “Erano una soluzione, quella gente”, scrive Kavafis. Serviva l’altro" (pp. 9-10).

mercoledì 21 agosto 2013

Di Camon (di nuovo) e di Ius Soli.

Dopo l’articolo sui “gay antropologicamente contro natura”, il dott. Camon ci sorprende con un nuovo articolo pieno di imprecisioni, cattiva informazione e anche un po’ di razzismo. L’articolo in questione fa capire già dal titolo, “LoJus soli? Un errore, e la Kyenge non dovrebbe fare il ministro”, le argomentazioni senza senso e logicità. Vorrei iniziare da questa frase: "Come due genitori maghrebini possano mettere al mondo un figlio italiano, è un mistero che non può essere spiegato. Se scatta lo jus soli, sic est"
Proviamo a spiegarla in modo semplice e anche provocatorio (d’altronde anche Camon lo è). Perché un figlio di due stranieri che vivono da anni in Italia, che è nato qui, studia qui, parla la nostra lingua, mangia cibo italiano come altri cibi, frequenta le nostre scuole etc etc, è da considerare meno italiano di qualsiasi altra persona al mondo che ha la nostra stessa cittadinanza per questioni di “sangue”? Prendiamo un immigrato di seconda generazione di origini italiane che vive in Argentina: perché questa persona ha più diritti di una persona che nasce in Italia nonostante, magari!, non sia nemmeno mai entrato in territorio italiano? Lo Ius Sanguinis è proprio questo: considero italiano solo chi è figlio di italiani e magari l’Italia non l’ha mai vista, e considero straniero chi nasce e ha una vita qui nonostante i genitori siano stranieri.
Altra falsità: "Lo jus soli è una proposta fatta dall'esterno della cittadinanza, per favorire chi non ce l'ha, senza tener conto dello sconquasso che introduce". La proposta dello Ius Soli è tutta interna alla cittadinanza: sono state raccolte migliaia di firme per introdurre questa legge, è arrivata in Parlamento firmata da più forze politiche (sia di sinistra che di centrodestra). Parte dai sindacati, dal mondo delle associazioni, dalle scuole di ogni ordine e grado e da tutte le parti di cittadinanza attiva che abbiamo in Italia.
Falsità numero tre: "nel nuovo popolo si possono accostare non solo civiltà e civiltà, diverse ma compatibili, ma anche civiltà ostili tra loro, sistema e anti sistema. Per questo dico: non ha senso fare ministro italiano un'ottima persona, ma che ragiona da extra-italiano". In un popolo esistono già civiltà e civiltà, culture diverse, sia compatibili che non. Se non fosse così l’Italia non esisterebbe nemmeno, dato che è sempre stato un Paese crocevia di culture, popoli che l’hanno costruita ma anche distrutta, a livello politico, geografico, linguistico, artistico, musicale e chi ne ha più ne metta! Per quanto riguarda la Kyenge poi, non è forse più “extraitaliano” un ministro che brucia la bandiera italiana e grida alla secessione?
Falsità numero quattro: lo Ius Soli che si vuole introdurre in Italia non dice che chiunque nasca qui è italiano, ma chi nasce qui da genitori stranieri residenti da almeno 5 anni lo diventa. Quindi non si tolga fuori il solito slogan: “Verranno puerpere da ogni parte del mondo a partorire in Italia!”.
Altro punto molto importante: ci preme ricordare un articolo dello stesso Camon pubblicato l’8 maggio in cui si prendevano le difese dello Ius Soli, di parlava di nuovi fratelli italiani, “Chi merita la cittadinanza italiana”. Citiamo testualmente un pezzo che spiega la contraddizione tra ciò che pensava a maggio e ciò che pensa a luglio: "Ottenere la cittadinanza italiana vuol dire diventare fratelli degli italiani che son qui da sempre. E comportarsi da fratelli. Tutti i bambini cittadini italiani sono nostri figli. E noi dobbiamo proteggerli tutti".

Dopo le risposte date da Marcello Fois e da Guido Melis, volevamo dare un contributo pure noi. Per amore di scienza, di informazione e di giustizia.

giovedì 24 gennaio 2013

Per una federazione delle associazioni antropologiche

La recente approvazione alla Camera dei Deputati del DDL n. 3270 impone alcune riflessioni sul presente e sul futuro delle professioni non regolamentate tramite ordine.
Il testo riguarda anche l'antropologia in quanto disciplina alla ricerca di una forma di professionalizzazione.

Le associazioni universitarie, sia quelle a carattere più generalista, quali Anuac e Aisea, sia quelle tematiche, come Siam nel campo dell’antropologia medica e Simbdea per l’antropologia museale, si sono già mosse. In un incontro con la Senatrice Anna Rita Fioroni ed altri parlamentari, tenutosi il 27 giugno 2012 al Senato, i loro rappresentanti hanno manifestato il proprio punto di vista.

In questo coro di voci che si è sollevato manca quella delle realtà che, sia in forma individuale che associata, si muovono al di fuori dell’università. Manca quel patrimonio di esperienza rappresentato dalle piccole associazioni e dalle imprese che, non in antitesi ma certamente con peculiarità differenti rispetto alla codifica accademica, fanno antropologia nel territorio.

Una antropologia diversa, pratica e praticabile, attenta alle sollecitazioni della società e disponibile a mettersi in gioco per risolvere problemi concreti.

Il motivo di questa assenza è sotto gli occhi di tutti.

Un eccessivo frazionamento organizzativo impedisce di dare voce e corpo a delle istanze comuni:
  • da un lato la necessità di una qualche forma di riconoscimento istituzionale dell’antropologo come figura professionale;
  • dall’altro del percorso formativo universitario come base di partenza, nonostante la scarsa propensione mostrata finora verso un’applicabilità concreta e pratica.
Il problema è vivo e sentito: nei forum dedicati all’antropologia non sono in pochi a lamentarsi della situazione italiana attuale caratterizzata dalla scomparsa dei corsi di laurea e di dottorato, dalla mancanza di legittimazione pubblica e di sbocchi professionali.

La questione non è di facile risoluzione. Ritagliarsi uno spazio di parola e di azione in un dibattito pubblico monopolizzato da discipline storicamente più forti – si pensi alla psicologia e alla sociologia
– è complesso. E non sarà certamente il DDL n. 3270, senza una precisa volontà da parte delle associazioni e delle imprese antropologiche, a cambiare automaticamente lo stato delle cose.

Le lamentele devono segnare il passo: è venuto il momento di superare la fase critica e inaugurarne una nuova, necessariamente costruttiva, che porti alla costruzione di un soggetto collettivo propositivo nei contenuti e capace di muoversi autonomamente rispetto al panorama associativo esistente.

Il DDL 3270, infatti, garantisce la possibilità di

costituire associazioni a carattere professionale di natura privatistica, fondate su base volontaria, senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva, con il fine di valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto delle regole deontologiche, agevolando la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza (Art. 2.1).

Mentre le associazioni universitarie hanno già da tempo una struttura sovraterritoriale, la maggior parte delle associazioni non accademiche ne sono prive.

Quello che proponiamo è, dunque, la federazione delle associazioni antropologiche che agiscono territorialmente in Italia. Una federazione che:

  • coordini le esperienze locali e le inserisca in un dibattito più ampio;
  • proponga momenti autonomi di formazione, maggiormente indirizzati verso una dimensione pratica;
  • si faccia interprete autorevole delle istanze delle associazioni presso gli interlocutori pubblici e privati, garantendo degli standard qualitativi ed una deontologia professionale comune;
  • partecipi con voce autonoma all’attuale fase di codifica della figura dell’antropologo.
È necessario, quindi, incontrarsi e coordinarsi, affinché quanto prima emerga quello che abbiamo da dire e da proporre. Senza la nostra presenza attiva, il dibattito attuale sull’antropologia professionale e applicata non può che essere incompleto e parziale.

ASS.D.E.A. e Antrocom onlus propongono dunque, a tutte le associazioni antropologiche, di confrontarsi sul tema in modo dinamico ed efficace, per valutare insieme la possibilità di federarci in un'unica realtà che ci rappresenti.

CONTATTI

Associazione Culturale DemoetnoAntropologica Ass.D.E.A.
web: www.assdea.org
Email: contatti@assdea.org

ASS.D.E.A. è un'associazione di studenti e laureati in materie demoetnoantropologiche, nata dalla volontà di contribuire alla crescita e al rinnovamento della disciplina, che intende cercare un costruttivo confronto con le altre discipline al fine di rendere più efficace lo studio dei processi culturali. L'associazione vuole incentivare il dibattito antropologico all'interno della comunità accademica e della società, promuovere lo studio della cultura popolare, favorire l'utilizzo e la diffusione delle parlate locali e lo scambio tra i popoli creando occasioni d'incontro e confronto tra la cultura sarda e altre culture.

Antrocom onlus
via Kiiciro Toyoda, 92 -00148 Roma
web: www.antrocom.org
email: contatti@antrocom.it
Tel.: 06 60201248

Antrocom Onlus promuove e favorisce lo sviluppo degli studi di antropologia fisica e culturale, operando nella ricerca scientifica, nell’istruzione, nella formazione e nella diffusione delle scienze antropologiche. Presente sul territorio nazionale con sezioni regionali oltre alla sede centrale di Roma, l’Associazione è attenta a cogliere e valorizzare sia la tradizione locale che le nuove prospettive applicabili all’antropologia.

mercoledì 16 gennaio 2013

Sassari e suoi migranti. Un'introduzione

L’antropologia e la fotografia sono generalmente considerate come due realtà distinte. Si vorrebbe
scienza, la prima, e si definisce arte, la seconda. Spazi disciplinari e confini netti in realtà tendono a sfumarsi, ad ibridarsi. Non solo perché in campo antropologico l’uso di documentazione fotografica è
ormai una consuetudine affermata, ma anche perché i fotografi hanno sviluppato un approccio in qualche modo “antropologico”.
In una famosa lettera scritta nel 1970 da George Rodgers, il fotografo dell’agenzia Magnum consigliava al figlio, per diventare un buon reporter, di diventare un camaleonte:

Non intendo dire che dovresti diventare color caffè nel Vizagatapam o completamente nero nel Bangassu, ma voglio dire che dovresti trovare quella certa attitudine per non apparire bianco in nessuno dei due posti. Ogni nazione, razza o tribù ha la sua morale, il suo orgoglio e la sua dignità, le sue regole e le sue abitudini e molto differenti le une dalle altre. E tu devi accettare queste cose e più le conosci e meglio è. Sviluppa il tuo metodo di camaleonte fino a saperti mescolare in tutti gli
ambienti e sentirti veramente a casa tua sia nella capanna di un beduino che a palazzo reale.


Quello che fa l’antropologo sul campo non è molto diverso: non diventa – e non potrebbe farlo –
dogon tra i dogon o aymara tra gli aymara, ma certamente si sforza di “non apparire bianco”, di accantonare i propri pregiudizi culturali nel calarsi nel terreno di ricerca, sia esso la foresta amazzonica o un quartiere delle periferie metropolitane.
I grandi fotografi, quelli che non per caso chiamiamo maestri, sviluppano e realizzano dei progetti che sono già antropologici: pensate al decennale lavoro di Sebastiao Salgado confluito in Migrations; o agli Zingari di Josef Koudelka; o anche, per rimanere in Italia, ai lavori di Ferdinando Scianna sulle feste siciliane.
Quelle che vedrete non sono capolavori di maestri, ma scatti di studenti spesso alla prima esperienza fotografica. Sono l’esito di un breve laboratorio organizzato dalla nostra associazione e finanziato dall’università sassarese. Ma sono soprattutto il tentativo di analizzare la complessa realtà delle migrazioni internazionali a partire non dalle fredde statistiche ma dalle storie di vita che hanno
come cornice la città di Sassari, raccontate attraverso il mezzo fotografico.
Fotografie sporche, acerbe, proprio perché realizzate da principianti, ma allo stesso tempo riuscite
perché cariche di quella tensione sociale che era nostra intenzione trasmettere con questo lavoro.

Le foto della mostra Sassari e i suoi migranti si possono vedere nella pagina facebook dell'associazione:
https://www.facebook.com/media/set/?set=a.562351977127332.140192.169458799749987&type=1

martedì 15 gennaio 2013

Gabriella Mondardini intervista Pasquale Polese: un incontro all’insegna del ‘garbo’

Il 27 ottobre 2012 presso la Sala del Museo del Porto l’associazione Asso.Ve.La. e la Cooperativa Turris Bisleonis hanno organizzato un evento di notevole importanza per gli studi di “cultura del mare”: “Gabriella Mondardini intervista Pasquale Polese. I Saperi e le Astuzie che hanno creato le barche…e non solo”. [1]
Il segretario dell’Associazione, Lorenzo Nuvoli, presenta con queste parole, l’incontro, sul sito dell’Associazione di Vela Latina di Porto Torres: [2]

Chi lavora con le mani è un operaio;
Chi lavora con le mani e con la testa è un artigiano;
Chi lavora con le mani, con la testa e con il cuore è un artista.
Pasqualino Polese è sicuramente un artista perche le sue creature sono vere e proprie opere d'arte che hanno permesso, ai fortunati proprietari, di lavorare in mare con sicurezza e di produrre profitti quando l'economia di Porto Torres era fondata sulla pesca e il suo porto era efficiente e funzionale.
Tante storie di mare di barche e di vita verranno messe in luce dall'antropologa Gabriella Mondardini che sabato 27 ottobre 2012, alle ore 17.30, nella sala del Museo del Porto, intervisterà Pasqualino Polese.
A 25 anni dal loro ultimo incontro e alla soglia degli 80 anni Pasqualino Polese ci racconterà della sua vena artistica che, oltre alle barche in legno, lo ha portato a realizzare moltissimi altri oggetti in legno e non solo come ad esempio chitarre funzionanti di 20 cm., trottole da 10 mm. e per finire il coltello a serramanico più piccolo del mondo di soli 4 mm.
Una occasione unica per immergerci nella storia e nella cultura del nostro paese. [...]

L’incontro si è svolto nel Museo del Porto, noto in passato come “La Piccola”, è un-ex deposito della ferrovia costruito nei primi anni del ‘900, destinato a stivare merce non deperibile che viaggiava con la “piccola velocità”, a differenza della merce deperibile che viaggiava con la “grande velocità” e veniva inviata direttamente alla Stazione Ferroviaria. [3]
La stazione passeggeri si trova a 500 metri di distanza, come accadeva nel 1872, anno della nascita delle ferrovie in Sardegna, quando i depositi erano staccati dalle stazioni destinate ad accogliere i viaggiatori.
Il museo è stato realizzato dopo due anni di restauro e l’allestimento si avvale di video, immagini, oggetti [4] e installazioni che possano testimoniare le vicende relative a Porto Torres dai primi anni del ‘900 alla successiva fase di cambiamento innescata dal processo di industrializzazione.
In mezzo alla stanza si trova un plastico di Porto Torres che presenta da un lato la situazione della città agli inizi del XX secolo e dall’altro le conseguenze del processo di industrializzazione iniziato negli anni ‘60.
Dell’intervista si riportano alcuni passaggi che rendano testimonianza dell’incontro tra Gabriella Mondardini Morelli [5] e Pasquale Polese [6] a distanza di anni, e della ricchezza di contenuti che si è prodotta in questa occasione.
Il dialogo, a cui sono ripetutamente invitati a partecipare anche i presenti, inizia in tono ironico, con le parole di Gabriella Mondardini: “Ormai i nostri incontri si sono ripetuti da lunga data e finalmente ci hanno messo a tutti e due nel museo”!

Le ricerche nel campo della Cultura marinara di Gabriella Mondardini Morelli sono iniziate negli anni ‘85-‘86 nell’ambito del Compartimento marittimo di Porto Torres (che allora comprendeva Bosa, Alghero, Stintino, Porto Torres, Castelsardo, Isola Rossa).
Le ragioni che muovevano la ricercatrice, secondo quanto afferma lei stessa, riguardavano la vita dei pescatori e dunque il rapporto tra la barca e i pescatori e tra questi e il maestro d’ascia. Le interviste al Maestro Polese erano finalizzate alla raccolta di informazioni destinate a soddisfare tali obiettivi di ricerca. L’interesse per la costruzione delle imbarcazioni si è manifestato in una fase successiva, durante la quale è stata acquisita la consapevolezza dell’importanza del lavoro del maestro d’ascia “in sé”, dal momento che si tratta di un sapere molto importante, “che è bene conservare e conoscere”.[7]
Nel discorso introduttivo all’intervista viene fatto riferimento alla definizione di ‘Cultura marinara’ e per giungere ad una sua spiegazione la professoressa Mondardini inizia col definire l’uomo come ‘essere terricolo’ che per accedere all’ambiente marino, che non è il suo ‘luogo naturale’, deve usare ‘l’astuzia’ ed inventare dei mezzi che lo sostengano nella sua impresa. Egli può infatti nuotare fino ad un certo punto ma poi ha bisogno di qualcosa a cui appoggiarsi. Le barche sono dunque i testimoni della cultura marinara e ci riconducono a due contesti differenti, uno di terra e uno di mare dal momento che si fa riferimento alla capacità di costruzione delle barche e a quella di navigazione.
Gli antichi greci usavano la parola ‘metis’ per fare riferimento all’astuzia di vedere le cose nel loro insieme e nei dettagli. Anche il maestro d’ascia che si dedica al suo lavoro di costruzione deve possedere questo ‘colpo d’occhio’ come il capitano quando si trova in una condizione di pericolo deve poter valutare con consapevolezza le scelte da fare.
Nel proseguo dell’incontro la professoressa Mondardini ha rivolto una serie di domande al suo interlocutore che ripercorrono tutte le fasi di ricerca svolte fino a questo momento ma si arricchiscono anche di ulteriori considerazioni che sono state elaborate in una fase successiva a quella della ricerca sul campo e anche a quella delle monografie dedicate all’argomento. L’intervista che si è svolta nel Museo del Porto rappresenta anch’essa un ulteriore momento di approfondimento e dunque fa parte di quello stesso processo di costruzione del sapere che è iniziato nella metà degli anni Ottanta del Novecento e continua anche oggi.
La famiglia Polese è di origine napoletana, i primi immigrati sono giunti da Torre del Greco ad Alghero nel 1830 e il nonno di Pasqualino Polese, Pasquale, si è poi trasferito a Porto Torres insieme ai due figli maschi per aprire un cantiere navale anche in questa città di mare.
L’esperienza di Pasquale Polese nel cantiere navale della sua famiglia inizia a otto, nove anni ma allora poteva solo “dare gli accessori a mio padre: ascia, martello, chiodi, un po’ di tutto”.[8]
Per acquisire la patente di carpentiere l’allievo doveva svolgere un periodo di apprendistato lungo almeno dieci anni che si concludeva con il rilascio della patente di carpentiere da parte del maestro d’ascia: “Almeno una decina d’anni per essere un bravo carpentiere, un bravo costruttore, per conoscere i segreti, conoscere la barca”.[9]
Il legname impiegato per la costruzione delle barche era preferibilmente quello delle querce, poiché i tronchi sono curvi e assecondano l’andamento della struttura della barca.

Si andava ad acquistare la legna, per esempio, a Gavoi e a Tonara, dove si tagliavano anche le traversine per i binari della ferrovia, e i rapporti con i segantini erano molto buoni, la legna si pagava comunque a peso d’oro ma non era raro che giungessero da Porto Torres cassette di pesce per gli ‘spuntini’ con cui si festeggiava la buona riuscita del commercio.
La costruzione della barca avveniva poi nel cantiere navale in un’atmosfera di sacralità così come accadeva al momento del varo, quando la ‘creatura’ veniva messa in acqua [10] alla presenza del padrino e della madrina “di battesimo” e si celebravano dei rituali come a scongiurare il pericolo di oltrepassare i limiti concessi all’uomo sulla terra che andando per mare “frequenta un luogo che la natura non consentirebbe”.[11]
La studiosa riporta le parole del maestro Polese il quale affermava che la barca “ha una faccia, ha una pancia e quasi si riproduce il corpo umano, la persona” [12] proprio come si direbbe di un essere vivente, in un processo di antropomorfizzazione che crea tra il costruttore e l’imbarcazione un rapporto particolare, quasi paterno, nel quale l’abilità dell’artigiano viene esaltata nel momento in cui il prodotto del suo lavoro, un insieme di estetica e funzionalità, affronta il mare sotto la guida sapiente del pescatore.
Un altro aspetto relativo alla vita delle barche riguarda la loro tipologia:

Se la barca quale testimone della cultura del mare rimanda, come s’è detto, ad un insieme di relazioni, la prima fra queste è l’interazione fra pescatori e costruttori: (…). La forma e lo stile rispettano ovviamente le esigenze e i gusti dei pescatori, ma la proprietà dei materiali usati, l’efficacia delle qualità nautiche e l’estetica complessiva, sono il segno della pratica tecnica, dell’abilità e della genialità artistica del costruttore. (…) Così in Sardegna entro la categoria generale dei gozzi, pescatori e maestri d’ascia forniscono un’affinata classificazione tipologica con riferimento locale: la barca tabarchina a Carloforte, la spagnoletta ad Alghero, la guzzetta a Stintino, la filuga a Porto Torres, la maddalenina all’isola della Maddalena e così via. (Mondardini 1997: 189).

Le barche costruite dai Polese “sono originali perché si sono adattate a quest’ambiente, alle necessità di questo ambiente e quindi in tutto il Mediterraneo le barche fatte a mano, le barche antiche, di legno, sono creature uniche proprio perché, intanto, c’è la mano del costruttore e poi c’è anche questa necessità di adattarsi all’ambiente particolare”.[13]
Il Maestro Polese fa riferimento ad una esperienza personale e aggiunge che “Prima le barche erano tutti gozzi, sia nella Liguria, in Sardegna, nella Toscana. poi la spagnoletta, chiamata  spagnoletta, era una barca spagnola. mio padre, era un grande operaio,  aveva … gli era venuta sotto mano una fotografia spagnola, una spagnoletta e ha fatto la spagnoletta, (…) le ordinate che affiancano la chiglia hanno una certa sagoma per avere più pescaggio e per tenere anche il vento, il mare”.[14]
Ma le differenze tra un tipo di barca e l’altro non sono solo tecniche, si parla di ‘bellezza’ di una barca e  “la bellezza della barca è dovuta al maestro d’ascia”.[15]
Il guadagno non sembra essere dunque il fine principale del maestro d’ascia che viene in qualche modo ‘ripagato’ dalla riuscita della sua opera: “La bellezza, e questa è una cosa importante. Il senso estetico, avere anche la soddisfazione a fare la barca non soltanto per i soldi che prendeva ma anche la soddisfazione di mostrare che sapeva fare la barca bella insomma”. [16]
A questo punto [17] è necessario fare riferimento ad uno dei punti centrali dell’intervista che riguarda il ‘garbo’. [18]Si tratta di “una sorta di regolo che, a partire dalla ordinata centrale consente di costruire tutte le altre” (Mondardini 1997: 191).

Nel cantiere di porto Torres il sistema di costruzione delle barche con l’uso del trabocchetto è rappresentato come eredità familiare, di origine torrese ma con un’accentuazione delle capacità personali del costruttore. Il modello sembra dare una traccia generale, ma è l’abilità personale del maestro, che, come vedremo, dà forma, stile, e bellezza (Ivi: 196).

È qualcosa con cui la studiosa si è confrontata a più riprese, fin dal 1986, ma i suoi interessi, essendosi evoluti e modificati in corso d’opera, hanno affrontato le tematiche relative all’aspetto tecnico della costruzione delle barche solo in un secondo momento della ricerca mentre inizialmente si sono rivolti allo studio degli aspetti ‘sociali’ delle comunità dei pescatori:[19]

L’appropriazione materiale del pescato, tramite la pesca comune, utilizza sistemi di cattura piuttosto semplici, con barche di piccole dimensioni, è un numero di pezzi di rete proporzionale al personale imbarcato; l’organizzazione del lavoro, avviene generalmente all’interno del nucleo familiare, dando vita ad una forma di cooperazione che non va al di là del gruppo di parentela o di comparatico. All’interno di questi gruppi la stratificazione sociale è definita generalmente per classi di età, infatti ai pescatori adulti e anziani viene riconosciuta l’autorità proprio perché detentori di tutta una serie di conoscenze relative alle tecniche di produzione da cui deriva la loro funzione di direzione e di controllo (capo-barca, capo-pesca e capitano generalmente coincidono) nel processo produttivo e degli utili della pesca ai produttori .di redistribuzione

Nel 1986 chiedeva dunque al maestro Polese di spiegarle come si faceva il progetto per la costruzione di una barca e questi le rispondeva che da molti anni non faceva più il disegno della barca prima di costruirla e che si trattava di un ‘segreto’ che veniva trasmesso di generazione in generazione. Le parole di Polese non destarono allora l’interesse dell’antropologa che si interessò in seguito all’argomento e gli dedicò uno studio approfondito.[20]
Nel 1990 Gabriella Mondardini si occupò di una rivista monografica sulla cultura del mare (La ricerca folklorica. La cultura del mare, 1990)  e in fase di preparazione venne in contatto con gli scritti di Franco La Cecla riferiti al ‘mistero’ che circonda le tecniche di trasmissione della progettazione del mezzo garbo che non vengono svelate agli apprendisti a meno che il maestro non abbia intenzione di trasmettergli la professione (La Cecla 1990: 26): “Ed il «mezzo garbo», essendo la chiave della forma degli scafi, è anche il segreto del mestiere. Gli apprendisti difficilmente vengono  iniziati ad usarlo, a meno che il mastro non voglia passare loro il mestiere”.
 L’incontro con questa realtà le diede modo di comprendere quale importanza avesse la trasmissione della tecnica di costruzione delle imbarcazioni nell’instaurazione della relazione tra maestro e apprendista e quale fosse il valore intrinseco alla ‘tecnica’ che divenne l’obiettivo principale della fase di ricerca successiva che, a partire dagli anni ‘90, si è avvalsa non solo delle ricerche presso cantieri sardi e del Mediterraneo ma anche delle fonti storiche.[21]
In quel momento “ho pensato che anche io ero stata trattata come un’apprendista e gli ho detto: «Perché non mi ha parlato del garbo»? «Perché non me l’ha chiesto»! «Ma se io non lo sapevo come facevo a chiederglielo»!
Ciò che è stato appurato da queste ricerche è che nel Nord-Sardegna esistono due metodi di costruzione prevalenti, quelli liguri che usano il modellino da cui si ricava il disegno, “Ma quello è semplice” [22] e quelli campani privilegiano “l’antico uso del garbo”. Nel 1994 è stato anche realizzato un filmato per documentare l’utilizzo del garbo. In quell’occasione “ (…) lui ci ha mostrato che, non solo usa il garbo, questo modello, ma lo costruisce ed è una procedura matematica importante e anche non facile”:[23] “Questo oggetto (…) non è un oggetto qualsiasi perché invece è un concentrato di saperi intorno alle qualità idrodinamiche dell’imbarcazione e serve a dargli forma, a far si che svolga la sua funzione del navigare”. [24]
Secondo La Cecla (La Cecla 1990) la parola ‘garbo’ indica lo strumento, “il risultato di un suo uso «adeguato» e “quello che significa in generale nell’uso comune in italiano, e cioè «l’adeguatezza» di una cosa, di una persona, di un gesto” (La Cecla 1990: 27).[25]
I diversi livelli della parola si conservano ed entrano in relazione nel cantiere del mastro d’ascia:

Per questo la barraca, il cantiere, è un luogo eminentemente aperto dove i commenti degli estranei fanno parte della produzione. (…) Qui, per tutto il tempo, fino al varo e soprattutto dopo, viene mantenuto il carattere interattivo del “garbo” e del “garbare”, come se, al rapporto tra l’elemento legno e l’elemento mare, si aggiungesse il rapporto tra mastro e comunità.

Detto questo, la trasmissione del metodo di costruzione del garbo serba in sé qualcosa di misterioso che il maestro è restio a trasmettere anche al proprio apprendista il valore di questo strumento viene attribuito ad una sfera magica, anche nelle parole dello stesso Pasquale Polese: “chi l’ha inventato sarà stato un mago, (…) lo faceva mio padre, mio padre da mio nonno” (Mondardini 1997: 203-204).
Secondo le parole di Polese nel garbo [26] “c’è la barca intiera” e a partire dal garbo è possibile fare tutte le ordinate della barca. Un altro strumento, legato al trabocchetto, è la tavoletta, “un’asta di legno con tanti segni quante sono le ordinate da costruire” (Mondardini 1997: 197).
Il metodo per ottenere il garbo viene illustrato anche in questa sede, come nelle precedenti interviste realizzate nel corso degli anni (Mondardini 1997: 187-211) come un arcano e si ribadisce che “Chi ha inventato questo trabocchetto non era tanto sprovvisto, era una persona intelligente…perché qualcuno l’ha inventato”.[27]
Il trabocchetto e la tavoletta sono veri e propri strumenti di progettazione caratterizzati dalla presenza di ‘segni’ sulla loro superficie, “i segni sono fondamentali e la tecnica per disporli si fonda secondo il maestro d’ascia su un raggio” (Ivi: 201), “dal cerchio non si sfugge”.[28]
Il simbolo delle barche dei Polese, posto nella prua, “è una sorta di spirale, sembra che sia un simbolo apotropaico significa che tiene lontano il malocchio e il male perché se uno dovesse fare una fattura alla barca dovrebbe srotolare (…) e non ce la fa quindi non riesce a fare il malocchio”.[29]
La famiglia Polese : “Poi bravi carpentieri c’erano anche i miei zii, gli altri cugini di mio padre, bravissimi, non ne hanno fatto mai barche brutte (…)”,[30] famiglia di carpentieri, per generazioni, si è dedicata alla costruzione delle imbarcazioni.
Con queste parole Gabriella Mondardini esprime il proprio pensiero sul rapporto tra etica ed estetica nel lavoro artigiano, che adopera “la mano e l’occhio”: [31]

Secondo me, l’etica del maestro d’ascia, l’etica dell’artigiano del fare bene, cosa che abbiamo dimenticato, l’estetica e l’etica (…) coincidono, l’etica e la moralità, fare bene, fare il bello e farlo bene, questo è quello che io ho sentito da questo lavoro di una vita di artigiano, Secondo me bisognerebbe riproporlo ai giovani e sembra che incominci, in questa situazione di crisi, sembra che si torni probabilmente a questo (…).

Sono parole che possono essere affiancate a quelle con cui Franco La Cecla comincia la sua riflessione sul “cantiere del mastro d’ascia di una comunità siciliana” (La Cecla 1990: 25), un ‘luogo’ dove:

La concezione ed i parametri del “ben fare”, del dare la forma giusta agli scafi, si inseriscono e rammentano un sistema più generale abituato a cercare e a giudicare il verso giusto delle cose. Al contrario di quanto una visione banale della cultura materiale potrebbe fare pensare, è in un luogo dell’attività pratica che troviamo i livelli di distinzione più astratti, i parametri di una estetica a cui la comunità può fare riferimento.




[1] http://www.assovela.eu/index.php?option=com_content&view=frontpage&Itemid=28. (27.11.2012). Le citazioni riportate nel testo sono state da me registrate in occasione dell’incontro tra Gabriella Mondardini e Pasquale Polese presso il Museo del Porto di Porto Torres in data 27.10.2012.
[4] Cfr. Mondardini 1997, Cap. III, pp. 81-106.
Tra questi oggetti è presente il tremaglio o tramaglio, senaio, nella terminologia locale, che fa parte delle reti da posta, le più utilizzate dai pescatori del Compartimento marittimo di Porto Torres. Queste “vengono lasciate  ferme in mare, in attesa che il pesce vada ad impigliarsi e rimanervi prigioniero. Il tremaglio è una rete da posta formata da tre pezze di reti sovrapposte, congiunte in alto sulla lima da sughero e in basso sulla lima dei piombi. Le due pezze esterne sono identiche e a magli molto larghe, mentre quella intermedia ha maglie molto piccole e forma una specie di sacca dove il pesce entrato agevolmente attraverso la prima rete, non riuscirà più a uscire. (…) Il nome tremaglio o tramaglio deriva dal latino tardo tremàculum, cioè rete a tre ordini di maglie; localmente viene invece chiamato senaio per l’insenatura che forma la rete mediana, a maglie fitte e sottili, contro una delle due reti di parete a maglie larghe, quando vi si imbatte il pesce”.
[6] Questa breve biografia di Polese è stata gentilmente concessa dall’associazione Vela Latina di Porto Torres. Pasqualino Polese è storicamente uno dei mastri d’ascia più apprezzati del nord Sardegna. La sua famiglia originaria di Torre del Greco, arrivò in Sardegna, per dedicarsi alla pesca del corallo ad Alghero; iniziarono presto la costruzione dei primi gozzi sul modello di quelli della loro terra d’origine, che modificarono ed adattarono alle esigenze dei pescatori e alle condizioni del mare della nostra Isola. Dal paziente lavoro di quei maestri d’ascia, arrivati oggi alla quinta generazione, nacque un’imbarcazione dalle caratteristiche uniche, immediatamente riconoscibili per la cura dei particolari, ma soprattutto per le linee garbate e l’accuratezza nella rifinitura dei dettagli. Negli ultimi anni la richiesta di gozzi per la pesca è notevolmente diminuita mentre si registra un aumento delle richieste per la costruzione di imbarcazioni a vela latina. e qui riemerge l’esperienza dei Polese che sanno ben valutare le qualità di un opera viva destinata prevalentemente alla vela piuttosto che al motore. Come dice un proverbio: “ad ognuno la propria arte”. Di Pasqualino Polese sono conosciute ed apprezzate le barche che ha costruito ma egli è anche inventore e miniaturista. Mani così grandi sono stati in grado di costruire oggetti tanto piccoli.
[7] G.M., Porto Torres, 2012.
[8] P.P., Porto Torres, 2012.
[9] P.P., Porto Torres, 2012.
[10] P.P., Porto Torres, 2012.
[11] G.M., Porto Torres, 2012.
[12] G.M., Porto Torres, 2012.
[13] G.M., Porto Torres, 2012
[14] P.P., Porto Torres, 2012.
[15] P.P. Porto Torres, 2012.
[16] G.M., Porto Torres, 2012.
[17] Ho tralasciato le questioni relative alla produzione oggettistica da parte del Maestro Polese per concentrare l’attenzione sul rapporto tra il lavoro della Professoressa Mondardini e la costruzione delle barche
[18] Cfr. Mondardini 1997.
[19] Cfr. Mondardini 1981: 140.
[20] Cfr. Mondardini 1997.
[21] Cfr. Mondardini 1991; La Cecla 1990.
[22] P.P., Porto Torres, 2012.
[23] G.M., Porto Torres.
[24] G.M., Porto Torres, 2012.
[25] Per quanto concerne l’etimologia del termine ‘garbo’ Cfr. La Cecla 1990, pp. 27-28.
“(…) Ma è J. Corominas nel suo Diccionário Crítico Etimológico de la Lengua Castillana (Madrid, 1954) che ne delinea la storia più completa. (…) Viene introdotto come italianismo alla fine del XVI sec. È inseparabile per Corominas dal calabrese gàlapu, gàlipu, garbo, destrezza, maestria, e dal genovese medievale galibo e garibo e dal napoletano antico gallipo, tutte forme che; provenienti sia dall’arabo quali qàlib che dal latino calapus e dal greco kάλαπους (da cui proviene la forma araba) – che è però più propriamente «l’orma di una scarpa» -, significano anche il «modello a cui deve aggiustarsi una costruzione di una nave o delle sue parti o di un arco, etc., come figura nelle più antiche tecniche di costruzione navale e in architettura (Vasari, Soderini, Caro)». E Corominas aggiunge «Una volta di più, nel mondo mediterraneo, il buon gusto viene visto come l’adattamento ad una forma, opponendolo all’informe e al deforme, si ricordi la storia del latino “forma” bellezza, e del greco μορφήεις, bello e άμορϕος, brutto» (Corominas, p.677)”. Queste osservazioni, di carattere linguistico vengono completate con le successive parole di La Cecla: “Ed è interessante come nella pratica del mastro d’ascia i vari livelli siano conservati ed interrelati, e come soprattutto lascino vedere una struttura di pensiero estetico sulla realtà e sul rapporto quotidiano d’uso e apprezzamento degli oggetti e delle forme. Qui “forme”, come fa osservare Corominas, sta proprio nel suo senso originario, di qualcosa modellata su qualcos’altro di originario, lo stampo di un modello. Visto che si tratta di scafi, la forma è determinata dalle forze di spinta dell’acqua e della propulsione, il garbo è quello risultante da un “essere orma”, “essere cambiato”, essere avvolto dalla matrice marina. (…)”.
[27] P.P., Porto Torres, 2012.
[28] P.P., Porto Torres, 2012.
[29] G.M., Porto Torres, 2012.
[30] P.P., Porto Torres, 2012.
[31] P.P., Porto Torres, 2012.

BIBLIOGRAFIA

La Cecla F.
1990    “Un certo garbo” in La ricerca folklorica. Contributi allo studio della cultura delle classi popolari. La cultura del mare, Mondardini Morelli G. (a cura di), Brescia, Grafo Edizioni, pp.25-28.
Mondardini G.
1981    Villaggi di pescatori in Sardegna. Disgregazione e rurbanizzazione, Sassari, Iniziative Culturali.
1997    Gente di mare in Sardegna. Antropologia dei saperi dei luoghi e dei corpi, Nuoro, Istituto Superiore Regionale Etnografico.

Marta Gabriel

venerdì 11 gennaio 2013

D'amore, di natura e di altre sciocchezze



Questa è la risposta che  ASS.D.E.A. ha deciso di dare all'articolo di Ferdinando Camon pubblicato nei quotidiani locali del gruppo "Espresso-Repubblica" del 5 gennaio 2013. La nostra lettera è stata inviata sia a "La Nuova Sardegna" sia a "La Repubblica" ma senza successo. Buona lettura!

Gentile dott. Camon,
come laureati in antropologia e membri dell’Associazione demoentnoantropologica ASS.D.E.A., ci sentiamo in dovere di rispondere al suo articolo “Ha due madri e nessun padre” per dissentire da alcune affermazioni antropologicamente scorrette.
Ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere e in Italia troppo spesso ci si improvvisa antropologi. Prima di ricorrere all'antropologia per avvalorare le proprie personalissime (e sicuramente rispettabili) opinioni, dovrebbe documentarsi meglio o chiedere il parere dell’esperto, come si usa dire. Chi è l’antropologo? Possiamo dire in due parole che l’antropologo è colui che si occupa di cultura umana. Chi meglio di lui, pertanto, dovrebbe essere consultato quando si parla di comportamento culturale? Veniamo a noi. Ci sono alcuni punti del suo discorso che ci lasciano perplessi. In primo luogo la questione dell’accoppiamento, della nascita e dell’allevamento che sono esperienze universali dalla cui elaborazione simbolica (e quindi culturale) nasce un sistema di organizzazione noto come parentela. È evidente  che la parentela ha forti basi naturali, ma non può (e non deve) essere ridotta ai soli dati biologici. Infatti, più si sale nella scala evolutiva animale, più i comportamenti parentali sembrano sempre meno condizionati dai legami naturali, fino a comprendere nell’uomo una serie molto più vasta di individui tra i quali vi sono legami biologici più lontani o, addirittura, inesistenti (parentela adottiva, spirituale, ecc.). Ogni cultura umana ha elaborato una propria concezione dei legami biologici che nascono dal processo riproduttivo. È evidente che, col mutare delle attività produttive variano anche le rappresentazioni simboliche dei ruoli maschili e femminili, ma resta comunque una caratteristica costante, fin nella nostra società: l’associazione dell’uomo prevalentemente con l’attività produttiva e della donna con quella riproduttiva. In questo senso, il legame fra padri e figli si costruisce non come legame biologico, anche se un elemento naturale può essere presente, ma come legame creato utilizzando elementi presi dalla sfera produttiva. La paternità biologica, nonostante tutti gli sforzi che i maschi hanno compiuto per renderla certa, non è mai stata così fondamentale nella definizione della paternità sociale. Secondo punto: cos’è naturale e cosa no? Questi due concetti sono cambiati nel corso della storia. Gli antichi greci e romani ritenevano l’omosessualità un fatto del tutto naturale, cosa che non accettavano ebrei e cristiani. Giustiniano, nel 559, bollava gli omosessuali come lussuriosi contro natura che commettevano atti impuri che…nemmeno gli animali! Gli etologi e i biologi hanno invece dimostrato che l’omosessualità è presente in natura, in ben 450 specie di animali (soprattutto mammiferi – e quindi anche umani – e uccelli) e in tutte (o quasi) sono stati documentati i numerosi legami affettivi e sentimentali che si creano anche tra esseri dello stesso sesso. Terzo punto: chi l’ha stabilito che per crescere, un bambino ha bisogno di una figura maschile e di una femminile? Anche qui l’antropologia dimostra che questa è una concezione culturale e che la famiglia, anche nelle nostre società, non è monoliticamente ferma, ma dinamica e in continuo cambiamento. Anche oggi. E di sicuro non si può mettere in dubbio la validità di quelle famiglie composte da un solo genitore e dai figli. O vogliamo forse togliere i figli a vedov@, single, separat@ o divorziat@? Tra l'altro, la legislazione italiana ha fatto un grosso passo avanti riconoscendo i diritti a quei bambini ritenuti illegittimi, categoria forte, come quella dell'orfano, che non denuncia la condizione familiare ma stigmatizza per sempre la vita di quel bambino.
Un’ultima considerazione: crede che sia più educativo, per i nostri figli, per la nostra società, continuare a dare adito alle tesi omofobe che vedono le persone LGBT come minaccia verso la pace, o invertire la marcia educando al rispetto della diversità e dei diritti civili?

La ringraziamo per l'attenzione,
Cordiali saluti
ASS.D.E.A.

lunedì 29 ottobre 2012

Intrecci. Due righe di presentazione.

Questo che state – virtualmente – sfogliando è il primo numero di una nuova rivista di antropologia culturale.
Molti di voi si chiederanno il senso di un’iniziativa simile in un momento come questo. La crisi dell’antropologia in Italia è sotto gli occhi di chiunque la voglia vedere: chiusura dei corsi, sbocchi professionali praticamente nulli, neanche quelli, come l’insegnamento nei licei delle Scienze Umane o come l’impiego come funzionario per i beni DEA nelle Soprintendenze, che sembrerebbero fuori discussione. Anche le scuole di dottorato si sono drasticamente ridotte, così come le borse di studio nelle poche che sono rimaste.
Sui forum e sui blog che si occupano di antropologia il ritornello è sempre uno: l’Italia non è un paese per antropologi. Ma può essere questa la soluzione? Al di là della libera scelta di ognuno, può la fuga dei cervelli essere l’unica prospettiva per chi vuole proseguire in questo campo? Certo, le politiche che gli ultimi governi hanno portato avanti sono a dir poco avvilenti. “Dalla cultura non si mangia”, ha detto l’ex ministro Giulio Tremonti.
Eppure la risposta che diamo è un risoluto NO!
È urgente – ed è in atto – una riflessione sulla nostra disciplina e su come possa inserirsi nelle dinamiche della società nel quale viviamo, non solo dal punto di vista lavorativo. Nella valorizzazione del patrimonio culturale, nelle policy nel campo delle migrazioni, nella pianificazione urbanistica: sono tanti i
settori in cui potremo intervenire con competenza e cognizione di causa. A queste tematiche abbiamo scelto di dedicare una rubrica fissa all’interno della rivista – Lavoro – in cui raccontare esperienze di antropologia applicata e professionale o proporre riflessioni di carattere più generale, anche fortemente critiche, come quella pubblicata in questo numero, contro la formazione accademica e i suoi limiti.
Ma l’intento di Intrecci va oltre, offrendo la possibilità a studenti alle prime armi di confrontarsi con i meccanismi delle pubblicazioni scientifiche ben più autorevoli della nostra. Una delle cose che manca nella formazione antropologica italiana è la pratica di scrittura, soprattutto nella forma di articolo. Eppure è principalmente attraverso questo strumento che avviene la comunicazione scientifica, nel settore antropologico come in qualunque altro. Alla domanda “Che cosa fa l’antropologo?” Clifford Geertz rispondeva “Scrive”. È ovvio che c’è molto altro, ma è anche indiscutibile che mettere al corrente del lavoro fatto – o che si sta facendo – deve essere un obbligo, così come quello di sottoporsi al giudizio “tra pari”. Per questo le prime due rubriche
di cui è composto Intrecci – Proposte e Ricerche – presentano contributi inediti e sottoposti a peer review, attraverso il procedimento del double blind.
Quella che proponiamo è un’idea di antropologia culturale ampia, inclusiva, che superi certi steccati che le scienze sociali e umanistiche hanno artatamente costruito e che costituiscono spesso un ostacolo alla comprensione delle pratiche culturali. In questo senso, il sottotitolo “Quaderni di antropologia culturale” è da intendere in senso lato. Già in questo primo numero potrete leggere un articolo di storia sociale ed uno al confine dei cultural studies.
Insomma, Intrecci vuole essere uno strumento di crescita per chi si affaccia al mondo dell’antropologia in Italia e vuole crescere a sua volta, dotandosi già dal prossimo numero di un comitato scientifico e aprendosi a contributi anche internazionali.
Le nostre intenzioni non possono essere che delle migliori.

Il primo numero della rivista è consultabile on line
http://www.intrecci-rivista.com/